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Intervento dell’Associazione di Storia Contemporanea sulla miniserie tv “Mameli”

"La Storia non è una mela che si può tagliare a fette, gustandone una e ignorando le altre"

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Goffredo Mameli

Già a proposito della serie su Lidia Poët, la coraggiosa piemontese che nel 1883 aveva cercato di diventare la prima avvocata italiana, avevamo espresso i nostri dubbi circa l’approssimazione che regna sulle fiction storiche nazionali: tutte presentate come avvincenti drammi storici, strizzanti l’occhio al giovanilismo pop, spesso sbarazzine e pruriginose, alteranti però non solo i connotati dei personaggi originari, ma soprattutto la Storia.

Con “Mameli: Il ragazzo che sognò l’Italia” però non si parla più di licenze poetiche, ma di grossolani errori, inaccettabili sul piano storico: per questo ci teniamo stretti il film del cantore del Risorgimento Luigi Magni (“In nome del popolo sovrano”, 1990) come unica trasposizione filmica dell’epopea del 1849. La coppia di registi e sceneggiatori di “Mameli” ha lavorato in maniera pasticciata e maldestra, cercando di sintetizzare un tema complesso come quello della pagina centrale del Risorgimento, mettendo in scena una sorta di melodramma sovranista che inevitabilmente cerca di catturare l’attenzione di un pubblico giovanile, ma interpreta senza attenzione il corso degli eventi.

A parte il fatto che la stessa biografia del personaggio autore del nostro inno nazionale – musicato dal maestro Michele Novaro, all’epoca molto più famoso di Mameli – viene proposta attraverso drastici tagli che oscurano alcuni passaggi salienti (viene ad esempio ignorata la controversia sull’origine dei versi dell’inno, presi a prestito da un componimento di un professore di Goffredo, Anastasio Canata, delle Scuole Pie di Carcare gestite dai padri scolopi), nella seconda puntata ambientata per lo più a Roma gli errori si susseguono uno dopo l’altro: sullo sfondo dell’Urbe tiberina compare la scritta “9 gennaio 1849 Roma Assemblea Costituente” che è uno strafalcione anacronistico clamoroso perché la Costituente venne democraticamente eletta con le consultazioni politiche del 21 gennaio 1849 e s’insediò, accompagnata da una grande manifestazione popolare, il 5 febbraio seguente; nella scena Garibaldi propone di votare la Repubblica, cosa che in realtà avvenne un mese dopo, nella lunga seduta dell’8-9 febbraio 1849. Ancora, osservando le scene successive, sembra che sia Mameli a scrivere la Costituzione – la sua amica Adele gli dà del “costituzionalista”, usando un termine assolutamente improprio – quando il patriota genovese non venne neanche eletto alla Costituente. Si potrebbe continuare con i pasticci sulle elezioni politiche, evocate ma non rappresentate quando si trattò delle prime consultazioni a suffragio universale nella storia italiana; su Adele Baroffio (già sposata a un cavaliere che aveva seguito la Corte papale in esilio), la quale – bionda e non mora – più che maneggiare fucili assistette malati e feriti nell’ambito dell’Amministrazione delle ambulanze diretta da Cristina Trivulzio di Belgioioso; sul rifiuto della guerra evocato nel protagonista dall’uccisione di un austriaco, quando Mameli fu un poeta-soldato e militò prima nella Colonna mantovana del ’48 arrivando al grado di capitano, mentre sotto la Repubblica del ’49 venne nominato da Garibaldi aiutante di campo e in tale veste combatté le truppe napoletane (eventi, questi ultimi, ignorati); sullo stesso Ciceruacchio, anche lui non eletto alla Costituente ed abbigliato borghesemente, diversamente dal carrettiere quale era, un uomo che perdette rapidamente sotto la Repubblica il vasto consenso popolare che si era guadagnato in precedenza; sulla stessa iconografia del personaggio che aveva baffi, barba e pizzetto (come nella celebre immagine di Gerolamo Induno).

Non è poi vero che Goffredo tornò a Genova per difendere i familiari, perché vi era rientrato alla fine di febbraio per convincere i genovesi a sostenere lo sforzo indipendentista, trovandosi poi di fronte all’insurrezione popolare domata dai piemontesi con le cannonate. Ancora, la scena ambientata il 9 febbraio 1849, giorno di nascita della Repubblica Romana, è piena di abbagli: compare il capitolino Carlo Armellini che sembra leggere una “Costituzione” – la carta costituzionale fu però promulgata il 3 luglio successivo – quando invece si tratta del decreto fondamentale che venne letto dal bolognese Giuseppe Galletti, presidente della Costituente (tra l’altro all’una di notte e non di giorno).  Da ultimo, i sottotitoli, dove non avrebbe sfigurato uno ricordante che l’Inno di Mameli è diventato definitivamente il nostro inno nazionale – dopo 71 anni di provvisorietà – solo nel dicembre 2017!

La Storia non è una mela che si può tagliare a fette, gustandone una e ignorando le altre. Il biennio 1848-49 e soprattutto la Repubblica Romana hanno rappresentato una delle vicende più complesse e originali della nostra storia, accuratamente ricostruite in diversi volumi, presenti nelle principali biblioteche italiane: una location che gli sceneggiatori di questa fiction con ambizioni nazional-popolari-giovaniliste avrebbero fatto meglio a frequentare più a lungo.

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