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Caso Predieri: motivazioni Corte di Assise che ha condannato l’imputato a oltre 8 anni

Paradisi e Liso: "Umiliazioni e violenze provate, manca la norma per inquadrarle"

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Roberto Paradisi e Domenico Liso

La sentenza sul caso Predieri è particolarmente emblematica perché, se condivisa a livello giurisprudenziale, dimostrerebbe l’esistenza di un “vulnus” nel nostro ordinamento in cui le donne che subiscono umiliazioni, violenze e maltrattamenti nell’ambito di un rapporto sbilanciato di manipolazione psicologica, si troverebbero prive di tutela.

Le motivazioni del processo Predieri, accusato di più reati (tra cui riduzione in schiavitù e violenza sessuale aggravata), depositate nei giorni scorsi, dimostrano infatti che l’accusa e le parti civili hanno provato tutti i fatti storici contestati all’imputato (come si legge a pag. 177 delle motivazioni). In oltre 210 pagine di motivazioni, la Corte di Assise di ancona ha infatti spiegato (con ampie motivazioni e puntuali riferimenti a fatti e circostanze) che:

1) l’imputato Predieri, che – come è stato spiegato in sentenza – ha evidentemente manipolato psicologicamente le ragazze, “ha consapevolmente posto in essere una condotta di sopraffazione caratterizzata da ripetuti atti di disprezzo e di offesa alla dignità delle sue compagne” – pag. 182 sentenza -;

2) è stata provata l’indole “prevaricatrice ed aggressiva” dell’imputato “non disposta ad accettare regole e rifiuti” – pag. 205 – ;

3) J. B. è stata ritenuta “inattendibile” e quanto narrato in aula è risultato essere – secondo la Corte – “per ampi tratti non verosimile e non conformato ai canoni della logica” – pagg. 121 e seguenti – ;

4) Inoltre in J. è emerso un “prorompente moto di vendetta rispetto ai componenti della sua famiglia che l’ha portata ad alterare la realtà pur di screditarne la credibilità”;

5) di contro, ha spiegato la Corte, in relazione alla testimonianza dei genitori di J. “non vi è ragione di dubitare della genuinità delle dichiarazioni in ordine alle modifiche della condotta della propria figlia” e “molte circostanze riferite dai coniugi trovano cospicui elementi di sostegno e riscontri nelle altre prove raccolte in dibattimento proveniente da testi terzi”;

6) Alessia Chiarenza è stata ritenuta “intrinsecamente attendibile e verosimile”. Al netto di alcune incongruenze nei racconti sofferti (elementi di dettaglio, come ha spiegato la Corte), le dichiarazioni di Alessia hanno trovato “cospicui elementi di sostegno nelle altre prove raccolte”;

7) nei confronti di Elisa (la terza ragazza rimasta fuori dal processo) sono state provate le aggressioni e le violenze sessuali ma non avendo mai sporto querela ed essendo al tempo maggiorenne, la Corte ha dichiarato di non poter procedere per mancanza di condizione di procedibilità;

8) Predieri – scrive la Corte – ha dimostrato la “volontà di influire persino sulla realtà processuale” ed ha “prontamente interessato i suoi amici all’intera vicenda non esitando ad indicarli massicciamente come testimoni”. Due di loro sono stati deferiti per falsa testimonianza alla Procura della Repubblica. In tale quadro, in cui è stato ritenuto ampiamente provato il reato di violenza sessuale nei confronti di Alessia (ma anche di Elisa, come si è visto), il delitto di riduzione in schiavitù, pur essendo stati provati i fatti indicati come presupposto del reato per tutte le ragazze, è stato escluso per una interpretazione prettamente giuridica. Vero è, ad esempio, che la Corte scrive (in questo caso con riferimento ad Alessia) che “la donna era ormai priva di una lucida capacità di analisi avendo – in sostanza – sostituto il proprio volere a quello dell’imputato” ma è anche vero – secondo l’opinione della Corte – che da un punto di vista giuridico “sono considerevoli le difficoltà di accertamento fattuale di ipotesi di mero condizionamento psichico”.

La Corte ritiene inoltre che laddove l’individuo abbia mantenuto una residua capacità di autodeterminarsi, pur in presenza di una evidente manipolazione psicologica, non può di fatto dirsi perfezionato il reato di riduzione in schiavitù. Il passaggio della Corte è emblematico (pag. 176 della sentenza): “Deve concludersi che la manifestazione del pensiero volta ad appropriarsi dell’altrui psiche è condotta non sussumibile in alcuna norma incriminatrice se non quando si determini nella vittima uno stato di incapacità di intendere e di volere”.

Una considerazione squisitamente giuridica che lascia intatto il quadro probatorio dimostrato da accusa pubblica e parti civili. Esprimiamo dunque, da una parte, piena soddisfazione per aver contribuito a provare, con testimoni e documenti, la drammatica portata dei fatti contestati rendendo giustizia alla verità.

Dall’altra, non possiamo non restare perplessi di fronte alla sostanziale dichiarata impunità (derivante dall’interpretazione giuridica delle norme) per comportamenti che rappresentano una piaga lacerante in certi rapporti squilibrati tra uomo e donna. Comportamenti aggressivi e umilianti che, a fronte di una condotta manipolatoria che conduce al condizionamento psichico, una donna (per la quale sia stata ritenuta la capacità di intendere e volere) è destinata a subire senza che l’ordinamento sia in grado di tutelarla. Proprio su tali considerazioni, che investono una tematica generale e nazionale, le parti civili si riservano ogni più ampia valutazione anche in vista del giudizio di appello.

Avv. ROBERTO PARADISI (difensore parte civile dei coniugi Bertolini)
Avv. DOMENICO LISO (difensore di parte civile di Alessia Chiarenza)

Commenti
Ci sono 2 commenti
mariocasini 2019-03-28 10:59:15
Attenzione, però, a non richiamare il ripristino del controverso «reato di plagio» di fascista memoria, altrimenti intellettuali (come fu il leggendario Aldo Braibanti, «colpevole» di essere omosessuale), psicologi o sacerdoti (basti citare don Emilio Grasso) sarebbero fortemente a rischio. Ma più di tutto sarebbe a rischio la libertà di pensiero. Qualche elemento qui: http://antisette.blogspot.com/2018/11/antisette-magistratura-paolo-gubinelli-plagio.html
mariano 2019-10-20 00:38:06
Se l'imputato è andato assolto con formula piena perché 'il fatto non sussiste' significa, al contrario, che nulla di quanto sostenuto dalla accusa ha trovato conferma. Non rileva infatti sul piano giuridico la motivazione, ma il provvedimento: il provvedimento e non già la parte contenutistica determina se i fatti di reato hanno trovato (o meno) conferma.
Il decidetnte, in questo come in altri processi può dire anche che la terra è quadrata, ma ragionando stricto iure, la realtà è ben altra: se il giudice trova che la fattispecie concreta non è sussumibile nella fattispecie astratta (o ipotesi normativa), ha una strada obbligata: l'art. 192 c.p.p. Il giudice, in altri termini, assolve nel merito, con la più ampia formula liberatoria di quelle codificate, solo quando è provata la piena e totale innocenza dell'imputato; altrimenti si imporrebbe la condanna o, comunque, il proscioglimento con formule meno liberatorie.
Nel caso de quibus, i difensori delle parti civili commettendo un grave error iuris: ritengono che sia il contenuto delle iscritte motivazioni a parlare per la sentenza, mentre è Il provvedimento a dare la dimensione del contenuto. Se il provvedimento è in facto assolutorio, vuol dire che il giudice di primo grado, diversamente opzionando, sapeva di esporsi a motivate censure difensive.
Ecco perché si parla per provvedimenti, non per motivazioni. La motivazione può essere il frutto di una intime conviction del giudice, ma è solo con il provvedimento che tuttavia il decidente fa intendere se le sue teorie sono destinate (o meno) a naufragare nei gradi successivi.
Qui l'imputato è stato assolto perché il fatto non sussiste: vuol dire che il giudice, al di là di ciò che possa o non possa aver scritto in sentenza, lo ha ritenuto tout court innocente.
Non esiste, sul piano fenomenico, altra o diversa interpretazione.
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