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Noi in Wonderland: salviamo l’immaginazione

Preferiamo vivere in un mondo compresso quando potremmo trasformarci ogni giorno ed ogni istante, senza limiti

Viaggio tra immaginazione e sogno

Mi sono persa ed ho letto forse un dozzina di volte la stessa identica riga. Sarà capitato di certo anche a voi, e se così non fosse… capiterà.

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Non preoccupatevi, non ne sono ancora venuta a capo, ma non è affatto importante capirne il significato ora ed adesso. Certo lo sarebbe per me che dovrò darci un esame molto presto, ma non lo è per il pensiero che sto per formulare e che spero seguirete con interesse. Lascio sottinteso che, se qualcuno di voi l’ha capita e me ne vuole spiegare il significato, sarò lietissima di ascoltarlo e ringraziarlo.

Questo sarebbe dovuto essere il secondo capitolo di una serie di articoli volti a raccontare la costruzione d’un film, la sua gestazione completa sino al parto ed al suo primo gemito nel mondo, ma ciò che m’è accaduto e che sto per raccontare, mi rende necessario fare un intervento fuori “tema”. Chissà che alla fin fine, qualche cosa di utile per comprendere l’architettura della macchina cinematografica, riesca comunque a trapelare.

Ero dunque ben poco saldamente seduta in una pericolante struttura a rombo fatta della mia sedia mantenuta in equilibrio su due sole gambucce sottili, così per gioco, quando, con lo sguardo svenuto fra le righe del testo in questione, mi sono sorpresa a pensare al volto di un giovane Dustin Hoffman dalle cui labbra uscivano parole incomprensibili, pronunciate con tono pacato da Ferruccio Amendola. E dunque? Nulla di strano, se non fosse che, pur rinfrescandomi lo sguardo con una strizzata d’occhi e riprendendo a leggere dal precedente capoverso, mi ritrovai di nuovo l’attore americano stampato sfuocato sulla pagina del manuale a dare voce a quelle stesse parole che stavano lì scritte. Insomma, per farla molto breve, leggendo con gli occhi quei contenuti di Multimedialità, per qualche strana burla della memoria, sentivo riflessa nelle pareti del mio cervello confuso e stanco, la voce di Dustin e non la mia. Divertente, mi son detta. Fu la stanchezza a fare il resto.

Impigrita dal troppo studio e dalla poca amorevolezza nutrita nei confronti della materia in questione, ho deciso, distruggendo i miei piani per la serata, di rileggere la stessa riga mille e mille volte ancora (iperbolicamente parlando) dandogli la voce (italiana) ed il volto (quello originale) di Julia Roberts, Hugh Grant, Rhys Ifans (ebbene sì, ho visto di recente, per la milionesima volta, Notting Hill) Massimo Decimo Meridio, no pardon, Russell Crowe vestito da Il Gladiatore, Renée Zellweger ed un paio di altri attori non meno importanti. Ben presto però il giochino arrivò a stancarmi, e pretesi di sperimentare qualche cosa di più articolato. Mi venne a proposito in mente di dare a quei personaggi una capigliatura definita, un ruolo, degli oggetti con i quali interagire ed una locazione. Le battute già c’erano, avevo inaugurato un casting mentale.

Scelsi Reneé per il mio nuovo intrattenimento. La vestii di grigio, con un abito elegante da signora della middle class americana, capelli non sostenuti da una piega perfetta, ed un paio di occhiali neri, come quelli indossati da Julianne Moore in Still Alice, che avendolo visto pochi giorni fa, erano ancora nello scatolone oggetti smarriti del mio ripostiglio cerebrale.

Meravigliosa, realistica, definita, la Zellweger era lì eretta dietro un’enorme cattedra di legno, in quell’aula umida dalle pareti bianche e verdi, sostenuta in una posa comoda, di stand-by. La mia personale Barbie immaginaria spettava che le dessi indicazioni. Tre uniche cose la distinguevano dalla famosa fashion doll di trenta centimetri, Renéè avrebbe parlato con la sua voce, avrebbe camminato e ballato senza che le cingessi il vitino in un pugno, e sopratutto i suoi arti sarebbero stati finalmente mobili. Il sogno di ogni bambina.

Ero entusiasta, in meno di qualche minuto mi ero già procurata una Renée-Car, una rossa fiammante Austin Mini rubata al ricordo di chissà quale film, poi ancora una discreto appartamento situato al piano superiore di un localino buio ed intimo in una Manhattan desaturata di Alleniana memoria. Mi mancavano giusto un Ken e un Blaine (il biondissimo surfista australiano della collezione Barbie che pareva appena uscito da un 33 giri dei The Beach Boys) et voilà les jeux sont faits!

Rilassatevi, non proseguirò la mera descrizione del mio Play Time invisibile, mi limiterò ad informarvi che sì, rimasi ad occhi chiusi per una bella serata consumata dentro e non fuori da me, e scoprii numerosi dettagli interessanti, posso citarvene alcuni. Come prima cosa, essendo molto disallenata a questo genere di intrattenimenti ad occhi chiusi, ho dovuto trovare metodi innovativi per non rischiare d’addormentarmi, perdermi le briglie e di conseguenza donarmi a quel sogno in maniera passiva. Ho optato quindi per creare delle interruzioni al film mentale nei vari intervalli fra un blocco narrativo e l’altro, delle ipotetiche pause pubblicitarie, ma molto meno brusche e irrispettose di quelle che siamo costretti a sopportare nella vita materiale, ed utilizzarle per bere un the caldo, mangiare uno spuntino, o tanto meglio, per far prendere aria alla nostra virtuale memoria collettiva e cercare in un piacevole sito, nell’eterogeneo mondo di youtube o tra i patetici profili fax-simili dei miei amici qualche cosa di interessante che avrebbe potuto darmi un’idea per il punto di svolta della mia storia, e devo dire che fu proprio quel Facebook saturo di contenuti riprovevoli a stupirmi per la sua accondiscendenza. Fu tollerante e si lasciò rivoltare e grattare via lo sporco, fu lui infatti a propormi di spontanea volontà una pagina dedicata al design di interni, era proprio quello che mi ci voleva, presto avrei dovuto far entrare la mia Barbie a casa del suo quarantenne James Stewart e non avevo ancora pensato a come ammobiliarla. Come dite? L’uomo dalla finestra sul cortile aveva sessant’anni quando è nata Renée? Motivo in più per constatare la potenza indiscussa dell’unica limitless immagination, quella cerebrale.

Non è certo una gran scoperta la mia, non temete so che lo state pensando anche voi e non ho intenzione di offendermi, siamo tutti consapevoli d’essere in grado di immaginare quello che ci viene descritto da un libro, da un fumetto, o addirittura da una canzone, e più ancora, qualunque autore, da Marco Lodoli al bambino intento a piastricciare parole nella colonna sinistra d’un foglio protocollo (sì, compreso Fabio Volo) immagina ciò di cui scrive o andrà a scrivere, così pure uno sceneggiatore, un regista, un pittore ovviamente. Ma se il nostro cervello, ad occhi ben serrati, in un ambiente stimolante, è in grado di costruirsi senza difficoltà location originali, razziando da quel ricordo o da quell’altro una particolare carta da parati, cambiarle i colori, appendervi un famoso quadro studiato a scuola ed una lampada di nostra conoscenza immediata, notata sul tavolo del salotto nei nostri nonni, o magari desiderata da dietro una vetrina e mai comprata, metterle di fianco quel bel divano di pelle marrone visto in una famosa sitcom, e farvici sopra adagiare la nostra attrice preferita con un’accapigliatura ed un vestito coerenti all’epoca in cui vorremo ambientare la storia, farle vivere un’avventura che noi abbiamo immaginato, e magari inserire in quella stessa vicenda noi stessi, un amico, il buffo vicino di stanza al villaggio vacanze e la sua strampalata famiglia, tutto sarebbe possibile.

La storia non ci riserverebbe delusioni, saremmo finalmente spettatori attivi d’un film trasmesso in diretta, da noi sceneggiato, diretto, fotografato e montato, solo attraverso l’utilizzo dell’immaginazione e di quel maestoso archivio, che è la memoria, dal quale attingere informazioni utili alla rappresentazione.

Se solo prendessimo confidenza con questa Limitless Immagination fin da piccolissimi, o meglio, se ci allenassimo costantemente al mantenimento di questa concentrazione alla creazione mentale innata che abbiamo, così da non lasciarla appassire un compleanno alla volta fino a raggiungere la sterilità irreversibile, tutti potremmo essere autori ed artisti.

Con devozione ed esercizio riusciremmo a tenere sotto controllo la continuità spazio temporale del film, la logica che sorregge l’intera trama, non ci sarà film interattivo a trecentosessanta gradi in grado di competere, a mio avviso, con l’infinitezza e la totale assenza di limiti dell’immaginazione, la sua immediata accessibilità, la sua economicità, sia a livello di “produzione” (un castello immaginario non costa un centesimo e Julia Roberts non ci chiede un cachet per la sua performance) sia di fruizione (no ticket for watch)!

Nessuna censura, nessun vincolo, con allenamento e concentrazione riusciremmo a convincere il nostro organismo a compiere realmente le cose che in realtà immaginiamo soltanto. Credete che l’immaginazione non possa tutto questo? Ognuno di noi si sveglia sudato quando sogna d’aver corso, sente le vertigini quando sogna di cadere, e si desta piangendo quando vive la propria morte in un incubo. E non è forse il sogno il segnale d’allarme teso ad informarci che probabilmente non stiamo adeguatamente sfruttando la nostra immaginazione, che c’è tutto un esercizio cerebrale che potremmo fare da sempre e che non compiamo abbastanza?

E’ nel sogno che riusciamo a conversare con il nostro inconscio, infastidendolo, chiamandolo in causa implicitamente, o può darsi che sia lui ad attirare noi nella caverna più recondita del nostro Io. Forse dedicandoci più spesso ad un Grand Tour nelle terre sconosciute di questa terra tutt’altro che desolata, riusciremmo ad ascoltare il nostro corpo e a sentire i suoi bisogni. Certo non potrebbero esserci svantaggi, è già un mondo digitalizzato quello terreste, fatto di individui discreti (sample) e non più d’un flusso umano, sarebbe quindi il nostro personale Kinetoscopio mentale che ci permetterebbe finalmente di vivere a contatto con quel mondo indecodificabile, inimitabile, inclonabile che è l’immaginazione singolare, e che ogni giorno la maggior parte degli esseri umani sacrificano, negandosi di sfruttarlo, per vivere sempre e solo in questa società terrena concreta, limitata, imperfetta e quantizzata.

Preferiamo vivere in un mondo compresso in cui noi stessi siamo limitati, incapaci di volare, imbruttiti dall’esperienza e dagli anni che passano, un mondo in cui siamo solo umani quando potremmo trasformarci ogni giorno ed ogni istante in qualsiasi altro spettro dell’immaginazione, senza limiti di definizione.

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