Il Bobbio Film Festival ed Io
Diario di un’esperienza nella terra di Bellocchio
20 Luglio 2015 – Una nuova email nella casella di posta. Leggi email.
“Gentile Giulia Betti, con la presente la informiamo che è stata selezionata per il seminario residenziale di critica cinematografica che si terrà a Bobbio durante l’omonimo Film Festival ideato da Marco Bellocchio, quest’anno alla sua diciannovesima edizione…”
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Come potrete immaginare le reazioni furono tra le più eterogenee: un’esultazione all’impatto, un po’ di paura, eccitazione, spaesamento, euforia molesta e blande crisi di panico. Sarò pronta? Conosco abbastanza cose? Piacerà come scrivo? Ho visto abbastanza film? Sarò la più piccola? Mi giudicheranno in malo modo per i toni personali e colloquiali che sono solita adoperare nei miei articoli?
Fortunatamente le valigie già pronte e il poco tempo a disposizione per prenotare il viaggio mi impedirono di crogiolarmi troppo nelle mie riflessioni disautostimanti. Zaino in spalla, bagaglio alla mano, saluti e raccomandazioni, chiusi la porta a chiave e partii.
Milano-Piacenza in due ore, passate in treno leggendo il secondo volume de “L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti”, a cura di Franca Faldini e Goffredo Fofi. Un’ottima lettura, prendete nota.
Piacenza-Bobbio, un’ora e mezza di autobus. Le curve e la mia insofferenza per quest’ultime mi impedirono di proseguire la lettura, ma ebbi il merito di aggiudicarmi la spilletta come “scocciatrice ansiosa” dell’occasionale comitiva. Il timore di perdere la giusta fermata e ritrovarmi chissà dove in terra straniera, mi agitava al punto di scordarmi persino del mio mal d’autobus e della fame, che ancora doveva essere saziata.
Piazza San Francesco, o almeno mi sembra si chiamasse così, comunque ero lì, ero a Bobbio e stava pioviccicando. Mi sedetti in una panchina, al mio fianco tre signore anziane con due ombrelli aperti mangiavano un gelato. Furono loro a rompere il ghiaccio, mi iniziarono a ciò che sarebbe stato il Festival, a quanto era preziosa Bobbio d’estate, alla sua bellezza nel paesaggio e negli artisti, che avrei ritrovato in ogni angolo assieme a qualche gatto, e così fu.
Posate le valige in ostello mi incamminai. In fondo quel 31 Luglio festeggiavo i miei ventun’anni, e fino al mattino seguente non avrei avuto impegni. Potevo perdermi sovrappensiero in quel dipinto naturale. Numerose le gallerie d’arte, piccoli spazi sgomberi di tutto il futile, e adornati di quadri e sculture. Altrettanti erano i negozietti tipici, con salumi e formaggi, poi il ponte Gobbo, e il Trebbia limpido in quella sua acqua resa frizzante dal scendere brioso e fresco della pioggia.
Quella prima notte a Bobbio passò serena e fredda. Il caldo infero milanese era oramai una lontana e perfida immagine.
Dormii fanciullescamente, d’un sonno profondo ma allo stesso tempo tormentato, l’indomani avrei preso parte ad una nuova esperienza, un nuovo primo giorno di scuola. Anche a ventun’anni si può essere euforici di fronte alla novità, anzi, a mio avviso, sarebbe patetico il contrario.
Alle dieci e mezza del 1 Agosto eravamo tutti e venti gli aspiranti e potenziali giovani critici cinematografici adagiati nelle poltroncine bluette di quell’aula cinema che sarebbe stata teatro delle nostre lezioni per i prossimi quindici giorni. Da quelle sedute, ci saremmo alzati due settimane dopo, più colti, ricchi di spirito e con un ideale più limpidamente impresso nel nostro orizzonte.
Conoscemmo il nostro professore, il critico cinematografico Ivan Moliterni, che sarebbe stato un prezioso mentore ed eccelsa guida in questo percorso. Battezzammo il “varo” di questo seminario con la visione di uno spumoso capolavoro del cinema italiano, “I Mostri” di Dino Risi, anno 1963, e di lì proseguimmo con un’analisi della Commedia all’Italiana e con l’individuazione dei primari ruoli del critico, tra i quali: tradurre la complessità del linguaggio cinematografico in un linguaggio più semplice e fruibile dallo spettatore tradizionale.
Quella sera Marco Bellocchio avrebbe inaugurato la diciannovesima edizione del Bobbio Film Festival proiettando per il suo affezionato pubblico “Mia Madre”, ultimo film di Nanni Moretti. Il regista romano, divenuto famoso quasi quarant’anni fa con il suo audace “Io sono un autarchico”, si prestò dopo la visione del film ad un dibattito, durante il quale diede sfoggio di quella sua indole più placata ed addomesticata con il passare degli anni, proprio come il suo genio artistico, che in quest’ultima opera si dimostra soffocato. Forse costretto in un angolo da un talento registico oramai collaudato, ma meno originale.
A vestire i panni di ospite protagonista della seconda e terza serata del Festival fu la splendida Alba Rohrwacher, se non l’unica talentuosa attrice nel panorama cinamatografico italiano contemporaneo, sicuramente quella con il cognome più ermetico, la cui pronuncia gode della capacità di mettere in chiara difficoltà i meno esperti masticatori di cinema.
Furono infatti presentate dai propri autori due opere degne di nota: lo stilisticamente impeccabile “Hungry hearts” di Saverio Costanzo, che vede la Rohrwacher vestire i panni di una turbata madre di famiglia, ossessionata dal dover salvaguardare la purezza fisica del figlio, e il coraggioso progetto della regista esordiente Laura Bispuri, culminato nella produzione di “Vergine giurata”, un film che fa di Alba, il corpo e l’anima di un personaggio semifemminile alla ricerca della propria essenza di donna.
La quarta serata, a mio avviso la più speciale, ha avuto l’onore di ospitare l’esordiente regista Eleonora Danco, attrice e scrittrice di teatro di lunga esperienza. Esuberante e tormentato, proprio come lei, si è dimostrato il suo film dal titolo rivelatore “N-Capace”. Profetico non nel dimostrare l’inadeguatezza della giovane regista nel ricoprire tale ruolo, ma al contrario, nell’esplicitare senza veli la sua incapacità di seguire il belante gregge dei registi commedianti italiani degli ultimi tempi, per dare al pubblico un’opera prima di incompreso valore, di autentica comicità e di inarrivabile slancio empatico in grado di bastonare impietosamente il nostro inconscio costringendolo ad abbandonare il quotidiano stato omertoso per denunciare a viva voce il proprio malessere e chiedere finalmente sostegno e riparo alla vita.
E mentre il festival proseguiva di sera con “I nostri ragazzi” di Ivano De Matteo e “La vita oscena” di Renato De Maria, noi studentelli assetati di conoscenza, assorbivamo nozioni e consigli dal nostro docente quotidiano e dai suoi occasionali colleghi di cattedra, i critici cinematografici Luca Bandirali, con il quale abbiamo analizzato le strutture del racconto nei film, e Anton Giulio Mancino che ci ha vaccinati contro una delle malattie più tremende che possano infattare un buon critico cinematografico, mettendone a repentaglio il talento e l’autorevolezza, tale “Virus dell’Amore non corrisposto”. Sintomo più frequente: crearsi delle attese sul film e giudicarlo in base alla corrispondenza di quest’ultimo con le nostre aspettative.
Venerdì 7 Agosto fu proiettato “La Buca” di Daniele Ciprì, il secondo film realmente originale dell’intero festival assieme a quello della Danco. Un film, quello che vede come protagonisti Sergio Castellitto e Rocco Papaleo, che appare deficitario se analizzate separatamente la forma e il contenuto, entrambe a più di un pelo dall’essere perfette, ma che si dimostra eccezionalmente azzeccato se accettato nella sua totalità.
Un’opera talmente audace, quella del regista siciliano, che non può essere misurata con lo stesso metro di giudizio adoperato per gli altri suoi film, quelli geniali partoriti con Maresco e quello tutto suo di tre anni fa. La Buca è, secondo la mia interpretazione, un ermadrofita del grande schermo, poichè non risponde nè ai criteri della fiction pura nè a quelli del film d’animazione. Ci sono personaggi interpretati da concreti attori in carne ed ossa, ambienti reali, materiali, costumi fatti di stoffa e tutto ciò che lo farebbe apparire un film di pura finzione, ma trapuntato dei tipici tòpoi del fumetto e del cartone animato. E’ probabilmente questa commistione di linguaggi ad apparire ermetica e perciò non totalmente indagabile approfonditamente e logicamente apprezzabile dal pubblico e dalla critica più pignola.
La prima settimana di Festival trovò così la sua conclusione, ma fu presto seguita da altre applaudite proiezioni, affiancate dai soliti fondamentali dibatitti con le maestranze accompagnatrici. Fu così per Francesco Scianna e “Latin Lover”, per Rubrini e “La tela” (cortometraggio realizzato l’anno scorso con gli studenti di Fare Cinema), per i giovani interpreti di “Fino a qui tutto bene” di Roan Johnson, per Sara Sarraiocco di “Cloro”, e per il regista Fernando Muraca e “La terra dei santi”.
Anche le nostre lezioni al seminario di critica proseguirono con successo analizzando lungometraggi di vari autori da Spike Lee, a Cronenberg, passando per Herzog, Kim ki-Duk, Tarantino, Landis, Scorsese, De Sica, Eastwood, Fincher, Schrader e Bertolucci.
Incontrammo nuovi professionisti del settore, come Enrico Magrelli, Violetta Bellocchio e Giulio Sangiorgio, con i quali indagammo il ruolo della critica nei festival e alla radio, l’apporto di internet e quindi dei blog, dei siti, di youtube e dei social alla vita di un film, e infine concedendoci all’analisi del cinema contemporaneo, dei suoi nuovi temi e delle sue nuove forme.
Un’esperienza indefinibile quella di Bobbio, una terra di cinema, una terra di arte, in cui abbandonarsi esclusi dal tempo e dallo spazio. Dormire quattro ore e viverne venti ogni giorno tra lezioni, proiezioni, dibattiti e momenti intimi, condivisi al solito pub in compagnia di aspiranti registi, registi affermati, aspiranti critici e critici di mestiere e naturalmente attori e studenti di cinema.
Mai come in queste due settimane mi sono sentita parte di un mondo, quello della settima arte, tanto ostile quanto sublime, pronto ad accoglierti, se ne avrai l’audacia e il talento o a scrollarti via, abbandonandoti spiaggiato dopo la marea, se non sarai abbastanza forte per rimanergli aggrappato.
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