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La Grande Bellezza ed il Tiramisù

Paragoni sinestetici nel Cinema Italiano

La Grande Bellezza

Mi avevano invitata tempo fa ad una rassegna di film italiani, organizzata per festeggiare la riapertura dei locali di un certo circolo dopo la loro ristrutturazione. Gli incontri erano susseguenti, un’intera settimana in no-stop cinematografico.

Sarebbe stato magnifico potersela godere tutta, ma per impegni di lavoro mi era impossibile dedicarvi più di un giorno e quindi scelsi un infrasettimanale.

Al mattino avrebbero dato “Lo Scopone Scientifico” di Luigi Comencini (1972), poi avrebbe seguito un piccolo buffet, di conseguenza ci sarebbero state le proiezioni di “C’eravamo Tanto Amati” di Ettore Scola (1974) ed “Io sono un autarchico” di Nanni Moretti (1976). Al termine dell’ultimo film era in programma una cena a base di piatti battezzati per l’occasione come i grandi successi della cinematografia italiana, una trovata un po’ pacchiana forse, ma piacevole. Accettai l’invito e andai.

Ai titoli di coda dell’ultima pellicola ci spostammo in un grande salone che esibiva quel tipico odore di vernice fresca e mobili puliti. Alle pareti manifesti, fotografie e disegni dei migliori fra i registi e gli attori della nostra storia. Ricordo che mi colpì particolarmente una caricatura di Benigni ritratto al fianco di Federico Fellini in un abbraccio simbolico raffigurato dalla famosa sciarpa rossa che li stringeva assieme con un gran nodo. Un ottimo spunto riflessivo. Un accostamento di artisti nient’affatto casuale, mi permetto di azzardare. Sicuramente non dovuto esclusivamente alla loro collaborazione in “La Voce della Luna”.

Non conoscevo nessuno perciò scelsi un tavolo e mi sedetti al centro, in uno di quei posti strategici che ti inseriscono per forza in una conversazione. Quelle tipiche sedute, come dire…azzeccate.

A differenza del vicino alla mia sinistra che chiese un piatto di “Miseria e Nobiltà”, ovvero una bella porzione di spaghetti, l’anziana ed elegante signora con il completo rosa che mi trovavo di fronte prese “Ladri di Biciclette”, lottando per tutto il pasto con la mozzarella filante. Io ordinai “Riso Amaro”, e qui non credo di dovervi dare troppe delucidazioni sulla natura della portata.

Ormai sazi giungemmo al dolce. Il posto che mi scelsi non si dimostrò efficace come avevo sperato, capitai proprio nel tavolino con sole quattro persone, e per di più erano le meno loquaci fra tutte. Solo il signore di destra non fece che blaterare dell’inconsistenza del cinema italiano confrontato a quello di altre nazioni come la Francia e la Russia, senza ricevere molti feedback poveretto, era per lo più una conversazione tra lui e la sua pasta e ceci alla “I Soliti Ignoti”. Speravo realmente che il dolce portasse un po’ di sapore ai nostri discorsi.

La vecchietta, liberatasi dai tentacoli della mozzarella in carrozza, si buttò in un tipico dolce Morettiano chiamato “Bianca” e che si svelò essere un Montblanc, con la delusione di tutti che invece avremmo scommesso nella Sachertorte.

L’anziana lady ci rimase un po’ male in effetti. L’insoddisfazione si fece evidente quando rimandò indietro il dessert richiedendo al cameriere quella mozzarella in carrozza che le era proprio piaciuta e che non aveva finito. Il signore attempato a sinistra ordinò un “La Grande Abbuffata”, e ovviamente senza stupore gli arrivarono due belle mousse alla fragola a forma di seno, molto più piccolo di quello originale che come ricorderete portò alla morte del personaggio di Noiret. E mentre il sapientone a destra ordinava “La Grande Bellezza” io sceglievo “La Dolce Vita” che si dimostrò essere un Tiramisù, anche se io non riuscivo a coglierne il nesso.

Rassegnata al silenzio squilibrato del mio tavolo mi diedi alla riflessione intima e personale. Escludendo il dolce alle castagne e quello sensuale di Marco Ferreri, strinsi la cerchia d’interesse al mio Tiramisù felliniano e a quell’enorme piatto di praline, frutta decorata e cubi di gelatina che si univano in una composizione magistrale di estrema bellezza ma dubbio sapore troneggiante alla mia destra.

Il Tiramisù, mi dissi, è un sempre verde, è uno di quei dessert che trovi ovunque, in qualsiasi ristorante italiano dagli anni’60 ad oggi. E’ uno di quei piatti che non ti estasiano per la loro composizione, ma per il sapore, per il miracolo gustativo che evocano nel palato.

Il Tiramisù lo puoi ricevere adagiato in una ciotola, servito in un bicchiere, steso in un piatto o in una casseruola come ai compleanni dei bambini. E’ uno di quei masterpiece grastronomici che, come i successi felliniani nel cinema, rappresenta l’Italia nel mondo, tanto che il 17 Gennaio 2013 è stato festeggiato il Tiramisù Day. Addirittura…
Nello stesso anno, a Maggio, usciva nelle sale cinematografiche il tanto discusso capolavoro Sorrentiniano “La Grande Bellezza”, da subito paragonato ingiustamente a “La Dolce Vita”.

Sono proprio i due dolci, che in questa breve occasione a tema hanno portato il loro nome, a rappresentare perfettamente le essenze e perciò le differenze fra le due opere. Riflettiamoci.

Il dessert abbinato a “La Dolce Vita” è, proprio come il film, un capolavoro dato dal contenuto, dalla consistenza e dal sapore che esprime, e non esclusivamente dalla composizione del piatto (e filmica) e perciò da una capacità di avvolgere piacevolmente solo ed unicamente il senso della vista, come il caso dell’artistica presentazione del dolce in rappresentanza de “La Grande Bellezza” ordinato dal commensale alla mia destra.

Quello Sorrentiniano infatti, è senza dubbio un bel film, ma non un capolavoro come ci è stato venduto. E’ una masturbazione fotografica sublime ed insistita fino a sorpassare la piacevolezza e raggiungere l’esagerazione.
E’ la rappresentazione elitaria di un circolo molto limitato di pseudo intellettuali artificiali che non ritraggono realmente il popolo italiano ma il popolino ricco della penisola, e a mio avviso, nemmeno tutto.

Si concretizza come la riproduzione su pellicola di quella più fittizia che fitta coltre di intelligenze, sostenitrice dell’arte e della sofferenza come sinonimi. Un circolo di pensatori annoiati cronici alla ricerca di una vita maledetta da bohémien nel tentativo di avvicinarsi ai veri artisti decadenti, quelli raccontati nei libri.

Donne e uomini di vita più che di mondo, che si prostituiscono alla mercé delle polverine bianche e delle arti moderne inconcrete e ridicole, per avvolgersi di quel pizzo malinconico e citazionistico che li fa apparire seducenti e appetibili ai giovani poco esperti e meno intelligenti quando si trovano a scopare metaforicamente nelle piste da ballo lasciandosi penetrare dei ritmi più drogati del momento.

Sono vecchi non invecchiati e per questo mai diventati interessanti, i personaggi de “La Grande Bellezza”, rappresentati perfettamente da quella patetica canzone di Bob Sinclar che remixa il succeso della Carrà del 1976, anno in cui Jep Gambardella, protagonista del film, aveva ventotto anni ed era da poco arrivato a Roma, per viversi la sua vera giovinezza, la grande bellezza dell’esistenza umana.

Rifugiarsi in una eterna gioventù è surreale e deludente, è artificiale proprio come il trucco della giraffa raccontato per immagini dal regista napoletano. Non si possono far sparire le rughe, quelle del viso, della mente e del cuore. Certo, si possono coprire con falsi ideali e fondotinta, ma dopo un bagno catartico ritornano a solcare l’esistenza e ne determinano la pateticità.

E’ l’accettazione del reale senza adottare filtri ed escamotage la vera morale di questa pellicola che sarebbe potuta essere notevolmente più bella se il tempo ed il denaro investiti per vincere l’Oscar li avesse, chi di dovere, spesi nella ricerca della soluzione ottimale e quindi più semplice e naturale per parlare al pubblico e raccontare quello che era il messaggio originale del film, un messaggio certamente nobile purtroppo passato sotto traccia.

 

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