Ospizi cinematografici
Il Cinema come medicina del Silenzioso Intervallo
Dino Risi una volta chiese “Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra in realtà sto lavorando?”
Essere registi significa essere narratori. Significa raccontare la realtà tagliando via i momenti noiosi di quest’ultima. Significa essere capaci osservatori e scaltri dirigenti di una fondamentale indagine: trovare l’essenza dell’esistenza nei comportamenti più semplici e naturali delle persone, nei loro vizi, nei tic e nei difetti osceni. Significa vedere oltre il visibile, scavare oltre il margine per raggiungere il nucleo, il meccanismo del congegno.
Essere registi significa rubare immagini e derubare individui dei cacofonici rumori della loro mente andante. Rumori che son pensieri e quindi gesti ed atteggiamenti. Rumori che son paure e quindi vizi e pregiudizi. Rumori che son sogni e quindi visioni ed allucinazioni. Rumori che son ricordi e quindi sentimenti ed emozioni.
Fu questa soprastante, la riflessione che quel giorno mi convinse ad uscire di casa, nonostante fuori piovesse un gran freddo bagnato e sconnesso, di quelli che frustano violentemente sui corpi ambulanti controcorrente per pochi minuti e che poi si acquietano d’un colpo per raccogliere la forza di ricominciare.
Quel giorno mi incamminai verso la Metropolitana ed incominciai ad osservare. Non c’erano stimoli, o forse ero io troppo ingenua per non accorgermi di loro. Comunque continuai, convinta che prima o poi avrei trovato ciò che andavo cercando. Arrivò dunque, una volta salita nella carrozza, una telefonata. Era una mia collega che si trovava a pochi metri da me, in un seggiolino poco più in là. Mi aveva vista salire e voleva che la raggiungessi, lei era impossibilitata. Traducendo, aveva trovato una seduta libera e non voleva perdersela. La affiancai e mi spiegò che stava andando a trovare la nonna al centro anziani, per portarle asciugamani, fazzoletti a fantasia e canottiere di caldo cotone, come piacciono a lei, ricamate sul colletto e sui bordi. L’avrei accompagnata, le dissi. Stavo giusto cercando stimoli e quale migliore occasione di addentrarmi nella tana del Silenzioso Intervallo.
Arrivammo e ci accolsero tre suorine vestite di bianco, una giovane donna indiana con un velo e due infermiere che trasportavano da una stanza ad un altra un letto su ruote, agghindato di flebo e catetari. Quella vecchia signora distesa sul letto guardava in giro con sguardo beato come fosse colpita e affascinata, sembrava una dama nel suo Landò.
La nonna della mia amica, la signora Emma, si trovava nella camera della ricreazione. Erano appena le quattordici, e i meno incoscienti, come ogni giorno, passavano il tempo in questo grande spazio.
Entrammo presto e trovammo tutti questi omini imbacuccati ed imbambolati a fissare lo schermo televisivo. Se ne stavano inermi a subire le nefandezze perpetrate dalla sciocca presentatrice di un altrettanto superficiale programma contenitore pomeridiano. Quando mi destai in ascolto, ricordo che la signorina della tv stava parlando di una clinica che si proclamava di curare l’omosessualità. Nel suo salotto finto borghese vi era un’ampia coltre di aspiranti para-intellettuali: c’erano forse due o tre concorrenti di qualche reality, un fashion blogger e un prete in blue jeans. Cercavano di tener testa ai passati Moravia e Scalfari citando Wilde e Andy Warhol, il quale probabilmente in quel momento, quei quindici minuti di gloria televisiva concessi al social vip di turno, se li sarebbe affannosamente rimangiati.
Provavo pena per quel povero pubblico, gente anziana quindi inerme, ignorante della bruttezza di certo spettacolo televisivo di oggi, ignorante della dimensione social-pattumiera presa dalla civiltà odierna, ignorante presumibilmente anche del giorno, del mese e dell’anno corrente. Ignorante dello scorrere del tempo, perché vittima della risacca del Silenzioso intervallo, la vecchiaia.
Mi sembrava ingiusto che queste persone trascorressero i loro ultimi pomeriggi a guardare immagini vuote distrubuite in movimenti spastici e inconcludenti. Quali ultimi pensieri avrebbero potuto fruttare in loro? Quali ultime riflessioni avrebbero suscitato? Quali ricordi sarebbero stati toccati da certi discorsi blasfemi, non nel contenuto quanto nella forma? Mi faceva rabbia vederli subire passivamente quell’ignoranza senza potersi difendere. Come deboli locuste ignare della pioggia di pesticidi che come una piaga si stava imbattendo su di loro.
Allora vi domando, non sarebbe stato forse più bello e nutriente coccolare i loro ricordi e sentimenti con il Cinema? Il cinema della loro infanzia, quello che andavano a gustare tutti i pomeriggi nelle braccia del papà, in piedi sui gradini. Quello della loro giovinezza, e riportare alla mente quei baci scambiati al buio nei seggiolini, accompagnati dalle canzoni d’amore di un film Hollywoodiano. Il Cinema militante di quando erano un po’ più adulti ed arrabbiati, ma orgogliosi di vedere la loro realtà tradotta in immagini. Il cinema di denuncia sociale. Il cinema che racconta la storia del secolo scorso, la loro storia, quella storia della quale hanno fatto parte.
E poi si sà, il Cinema induce il dialogo, e non sarebbe forse bello starli ad ascoltare? Lasciarli raccontare di come loro stessi hanno vissuto il grande schermo, di cosa significava per gli italiani d’un tempo andare al cinema? Non sarebbe forse giusto starli a sentire e magari tornare a spolverare vecchi valori, aneddoti, ragionamenti? Forse ora si prediligerebbe spendere due ore per andare a godersi uno spettacolo piuttosto che impegnarle nello zapping tra i profili Facebook di gente sconosciuta.
Gli anziani, proprio come il Cinema nella sua totalità, sono bagagli di ricordi e saggezza, che siano essi stati contadini, operai, ragionieri o filosofi. Ognuno di loro sarà in grado di insegnare qualcosa, perché è con l’esperienza e l’esercizio che si diventa professionisti, e loro, è innegabile, sono professionisti di vita e di sopravvivenza.
Siamo proprio noi giovani ad aver più bisogno di questi oracoli a portata di palmo e dovremmo quindi fare ciò che le generazioni precedenti alla nostra, senza senno, hanno negligentemente evitato. Ascoltare i vecchi, interfacciarsi con loro, accudirli nel fisico e nello spirito per assorbire quella conoscenza e dignità che loro hanno e che noi abbiamo smesso di avere.
E’ perciò paradossale come l’Italia sia riuscita a mandare il suo cinema in un metaforico ospizio, ma non abbia pensato a come realmente farlo entrare in ospizi concreti, ridando ad esso un po’ di ossigeno e ai vecchi pazienti sollievo dalla soffocante bruttezza della solitudine, anche televisiva.
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