Senigallia Notizie intervista John Roesch, storico Foley Artist della Warner
Per la rubrica Screenshot Giulia Betti ci trasporta in California
Oggi Screenshot vi trasporta in California, negli studi della Warner Bros, per discutere di uno dei più antichi mestieri del Cinema con uno dei più importanti Foley Artist d’America, John Roesch, conosciuto per essere stato il “rumorista” di film come Matrix, Fight Club, Il Cavaliere oscuro, Inception, Il miglio verde, ET, Io sono leggenda e tanti altri capolavori del grande schermo americano. Buona lettura intelligente!
Buongiorno John, iniziamo con qualcosa di spiritoso. Se un bambino le chiedesse di descrivere il mestiere del Foley Artist con un indovinello, cosa si inventerebbe?
JR: Molto semplicemente gli direi: “Lui si diverte quando emette dei suoni e li corrisponde alle immagini che vede. Se Lui fa il suo lavoro come dovrebbe essere fatto, quindi in maniera perfetta, tu non riesci nemmeno ad accorgerti della sua esistenza. Chi è?”
Ottimo! Accostiamoci ora a qualcosa di più serio. E’ noto a tutti che ad oggi i computer abbiano preso il sopravvento sulla manualità praticamente in tutti i campi. Anche nel suo John, sono fortemente sfruttati i suoni “precampionati”, raccolti in apposite “librerie” di effetti, che non sono andati a sostituire il lavoro del Foley Artist, ma non possiamo di certo negare che lo abbiano snellito di parecchio.
A tale proposito lei ha sempre detto che i suoni precampionati non riusciranno mai a sostituire quelli da voi prodotti poiché i vostri sono “unici e personalizzati”.
Allora le chiedo: Non ha paura che le nuove tecnologie arrivino un giorno a riprodurre a loro volta suoni unici e personalizzati?
JR: Le risponderò in maniera molto concisa Giulia, io sono convinto che questo mai potrà accadere e sa perché? Perché George Lucas vuole il suono migliore per i suoi film. E tanti altri registi come lui. Ogni suono è riproducibile in maniera ottimale, ma la sua precampionazione non sarà mai perfettamente cucita addosso all’immagine alla quale deve essere applicata. Un suono prodotto da una macchina non si “meccia” perfettamente con il movimento o la sorgente interna al film.
La prima volta che vidi un “docu-video” sul mestiere del Foley Artist ero con una bambina. Io fui realmente divertita nel vedere due ragazzi prendere a testate vegetali d’ogni genere, camminare in maniera buffa, aprire e chiudere porte sostenute da un piedistallo in mezzo al nulla, cadere di proposito, prendere a pugni brandelli di carne appesi al soffitto. La bambina, al contrario, non era affatto divertita, anzi, aveva assunto una smorfia tra lo stupito e lo sconcertato. Poi disse qualcosa di simile a “Allora è tutta una bugia” e delusissima prese e se ne andò in camera sostenendo che non le era affatto piaciuto ciò che aveva appena visto. Riesce a spiegarci il perché di questa reazione?
JR: Mi ha fatto molto sorridere questo racconto. Ma vedi, la risposta è molto semplice. I bambini hanno una visione bianco e nera del mondo, non ce l’hanno profonda come la nostra. Per loro vedere una cosa del genere è sorprendente, naturalmente in senso negativo, perché venire a contatto con le cose realmente come stanno può essere uno shock per i più piccoli, ma poi si cresce e ci si addomestica al pensiero che gran parte di ciò che ci circonda sia finzione.
Un Foley Artist è spesso chiamato “Foley Walker” o “Stepper” poiché uno degli elementi più importati del vostro mestiere è proprio la riproduzione del suono dei passi degli attori. In una sua veloce video-intervista al MPSE Award del 2013 ha detto che quella dei “footstep” è di gran lunga l’area che più preferisce del suo mestiere. Le va di raccontarci come mai?
JR: Fare il Foley Walker è molto complicato perché è un po’ come fare l’attore. Devi anche tu interpretare quel personaggio, devi dare un’anima a quei passi e per questo è molto difficile, perché i passi devono sembrare vivi, devono sembrare suoi, ma in special modo devono fondersi con la scena.
Se hai l’esigenza di rappresentare un persecutore, se devi interpretare una persona che va al patibolo, o un indagato o un bambino che ha paura.. tutto ciò deve trasparire, ma allo stesso tempo l’artefazione deve continuare ad essere impercepibile.
Non molto tempo fa mi è capitato di leggere che non le piace lavorare per la televisione, è davvero così?
JR: E’ vero, non amo particolarmente lavorare per la televisione, per vari motivi. Uno di questi è perché in Tv non ci sono molti soldi e questo è un grosso punto a suo sfavore.
Non centra il mio guadagno personale, tutt’altro, il fatto che non ci sono soldi fa si che ci sia poco tempo a disposizione per lavorare e di conseguenza è impossibile essere perfezionisti come lo si è nel Cinema.
Detto ciò, va di conseguenza che il lavoro che farei per una serie televisiva non mi premierebbe. E poi noi siamo un gruppo di tre persone, due “Foley Artist” ed un “Foley Mixer”, ed il lavoro combinato di una squadra come la nostra è molto più concreto e molto più creativo rispetto a quello di una persona sola, perché tutti e tre, in maniera differente, portiamo un contributo alla realizzazione del prodotto audiovisivo e la televisione, come può immaginare, non sempre può permettersi un così folto team.
Lei e la sua collega Joan Rowe siete stati due fra i numerosi “genitori” di ET, lessi in una sua intervista che usaste la gelatina per ricreare lo “squishy sound” dei movimenti del corpo del piccolo extraterrestre. Come vi venne l’idea?
JR: E’ una storia molto buffa quella che mi chiedi di raccontarti. Io e la mia partner Joan Rowe stavamo consumando il pranzo in una mensa, ed era stato ordinato il Jell-O, un famoso dolce americano a base di gelatina di frutta. Nel momento in cui il cameriere, dopo averlo portato, lo appoggiò al tavolo con poca delicatezza, la gelatina emise un suono particolare. In quel preciso istante io e la mia collega ci guardammo, fu simultanea la cosa. In quel momento capimmo che era proprio quello il rumore che stavamo cercando… e poi se posso dirla tutta, a me ET ha sempre ricordato una gelatina.
Riguardando il discorso che tenne in occasione del ricevimento del suo MPSE’s Career Achievement Award (premio alla carriera) nel 17 Febbraio 2013, rimasi molto colpita da una sua affermazione che cito testualmente “Il mio successo non è il Mio successo” e di lì incominciò a ringraziare la sua famiglia, gli amici, i collaboratori per il prezioso contributo che essi diedero allo svilupparsi della sua carriera.
Pensieri come il suo vengono spesso confusi con banali frasi di circostanza, ma io so che non è questo il caso. Vuole raccontare ai nostri lettori, qual’è il suo pensiero sulla questione?
JR: Io ho imparato una cosa nella vita Giulia, che non si fa mai niente da soli. Che dietro ogni cosa, in special modo dietro ad un successo c’è sempre un lavoro di squadra.
Quando si è presenti per un amico, disponibili per un collaboratore, partecipi per un parente e lo si aiuta nel momento del bisogno, la vita diventa molto più ricca ed è più soddisfacente fare parte del mondo.
Perché alla fine, cosa ci rimane nella vita nonostante tutto se non l’amore che ci lega alle nostre persone care?
Ha assolutamente ragione John.
Io credo che ci siano dei momenti nella vita in cui non si può far altro che ringraziare e di certo questo è uno di quelli, perché lei mi ha dato l’opportunità di conoscerla ed intervistarla, ma sopratutto mi ha reso possibile toccare con mano l’umiltà che contraddistingue le persone veramente grandi da quelle presunte tali.
Io ringrazio tutti i giorni prima di andare a dormire, per la vita che ho e le occasioni che mi vengono date.
Finché avrò qualcosa per cui ringraziare continuerò a gridarlo. Quando invece non avrò più nulla per cui ringraziare, ringrazierò per aver avuto nella vita l’opportunità di farlo.
Quindi cari lettori, non fate di voi persone “precampionate”, lottate per fare delle vostre, delle vite uniche e personalizzate.
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