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Senigallia: vittima ed omicida-suicida innocenti. Il reo è altrove?

Oggi forse più opportuno affermare che "la libertà sarebbe stata terapeutica...", se...

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La libertà è terapeutica-scritta su un muro

In una località come Senigallia, ritieni che fatti come quello accaduto, non possano mai avvenire. Ti dici, Senigallia è una piccola cittadina di provincia, ha iniziato a vivere il suo periodo estivo, turistico, festaiolo e magari sei anche pronto a leggere di liti ristrette ai locali dei suoi lungomari per problemi di musica elevata, per qualche bicchiere in più, per una precedenza nell’occupare un parcheggio.

Ma salire alla ribalta della cronaca nera per un fatto di sangue, non lo penseresti mai. Ed invece questo avviene quando, dove e come meno te lo aspetti e nel modo più tragico, perché anche incomprensibile.

Beh, incomprensibile è forse “avventurarsi” troppo nell’uso del buonismo. Spesso i sentori di un qualche cosa si presentono, si captano e magari ci si nasconde dietro il fatto che forse “certi atteggiamenti sono dettati da fattori caratteriali, che in fin dei conti, nel tempo, salvo qualche strepitio, qualche intervento delle Forze dell’Ordine, ma solo per tranquillizzare gli animi, non è avvenuto mai nulla. Poi se ne occupano anche i Servizi Sociali”… e qui purtroppo uno su mille, però, non ce la fa!.

C’è da immaginarselo ormai, la legge liquiderà anche questo omicidio, seguito immediatamente dal suicidio, come causato da futili motivi. E così Pilato, si sarà lavato le mani.

Una brava persona, Abele, è deceduta sotto la lama di un coltello piantato sul suo petto, senza neppure conoscere i motivi che hanno spinto a tanto la mano dell’amico dirimpettaio Caino.
Caino, quel tragico gesto, quelle urla della vittima e dei presenti, evidentemente lo hanno riportato per un attimo nella lucidità mentale, che in una frazione di secondo gli ha permesso di giudicare, comprendere la crudezza del reato appena commesso e perdendo nuovamente la ragione si autocondannava ad una pena che non gli avrebbe dato scampo: la morte attraverso un cappio al collo.

Quindi la vittima, in quanto vittima è innocente, l’assassino colto da raptus e quindi incapace al momento di intendere e volere si potrebbe considerare “innocente” (seppur virgolettato)  considerando la pena che si è auto inferta e che andrebbe a confermare, almeno in quel momento, un’eventuale mancanza di senno.

Quindi si potrebbe considerare come un caso chiuso. Ma invece no. E’ uno di quei fatti che proprio perché avvengono in una piccola cittadina dove tutti si conoscono, la cosa ti fa riflettere e ti lascia ancora più amaro in bocca di quanto magari identici fatti, li ascolti e li vedi in TV. Magari in città grandi e lontane, dove si pensa che questi eventi delittuosi avvengano con più probabilità, non li giustifichi, per carità, però non gli dai realmente il peso e l’attenzione che meriterebbero.

Ad esempio mi viene a mente quella carneficina eseguita senza motivo, con un piccone, contro 5 persone inermi, commessa dal ghanese Kabobo. Subito si parlo’ di emarginazione, del colore della pelle, di orrore per la perdita di 5 vite innocenti e di pazzia. Ecco appunto, di pazzia. Ma nel caso di Kabobo si parlo’ di “pazzia” come della solita mossa dei difensori per evitargli la pena dell’ergastolo. Ed allora si pensò, che la parola pazzia fosse usata solo a questo scopo. Come se ammazzare in quel modo 5 persone fosse la cosa più normale di questo mondo!.

Ma quello che è avvenuto a Senigallia mi ha, colpito maggiormente, proprio perché avvenuto in una sonnacchiosa cittadina, improvvisamente, all’ora di cena con la famiglia riunita e perché magari se non si conoscevano direttamente i personaggi coinvolti, magari conoscevi qualche amico di costoro che ti racconta che si c’era stata qualche parola, come spesso avviene tra vicinati, ma il problema era un altro. si racconta che l’omicida aveva qualche problema caratteriale, si parla disturbi, di isolamento, di emarginazione e… della presenza dei Servizi Sociali che si occupavano di lui.

Diceva Franco Basaglia: “Non è importante tanto il fatto che in futuro ci siano o meno manicomi e cliniche chiuse, è importante che noi adesso abbiamo provato che si può fare diversamente, ora sappiamo che c’è un altro modo di affrontare la questione; anche senza la costrizione“.

La costrizione, i manicomi, sono spariti, ma al loro posto per combattere la malattia mentale, il disagio psicologico sono stati messi a combattere una battaglia persa in partenza, per la carenza di mezzi e personale, armati solo di buona volontà e senso umano, questi Servizi sociosanitari che dovrebbero dipendere dalle ASL o dalle Aziende Ospedaliere.
Ma questa legge 180 del 13 Maggio 1978 , sebbene valida sul piano pratico e della dignità umana, non ha tenuto conto di alcune importanti questioni sul piano pratico:

“I pazienti venivano dimessi e in tempi successivi non più ricoverati in assenza pressoché totale di strutture territoriali.

Le famiglie, inadeguate o meno, sono state costrette a sobbarcarsi l’intera assistenza sanitaria e ancor oggi lo fanno (sono trascorsi oltre 26 anni…).

I pazienti più violenti o aggressivi sono stati equiparati a quelli più tranquilli e in assenza di cure, abbiamo assistito a una cronicizzazione della popolazione dei malati, in diversi casi a peggioramenti. I familiari, costretti a convivere con una persona spesso delirante e non in sé, hanno subìto anche gravi conseguenze per questo fatto.

I familiari sono stati incolpati d’essere la causa e colpa della malattia mentale; disturbi importanti non sono stati diagnosticati né curati per come dovevano esserlo.

Non ascolto delle famiglie: i Centri non rispondevano (e ancor oggi non lo fanno) alle istanze dei familiari – il familiare stesso è considerato alla stregua del paziente, non affidabile ed emotivo; il suo giudizio non conta, nonostante esso sia in prima linea”.

Ed ora che cosa si farà. Semplicemente nulla!. Come del resto sempre in questi casi. Il numero di visite sui giornali online, hanno toccato quelle punte di interesse che si riscontrano solo in questi casi. Nei bar i giornali cartacei sono ben stesi sui tavoli e vi si getta uno sguardo mentre si addenta il cornetto appena inzuppato nel cappuccino ed il barista nel contempo ti chiede se lo conoscevi e ti fornisce i particolari dettagliati che il cugino di un amico del cugino del custode del condominio in cui abita, gli ha fornito.

Alle amministrazioni, in casi simili, il compito di far osservare un minuto di silenzio nelle cerimonie pubbliche, intanto la giustizia seguirà “il suo corso” come è giusto che sia, i famigliari tra due giorni resteranno soli con il loro dolore, come continueranno a restare sole le persone con questa tipologia di malattia, come resteranno soli tutti coloro che nelle loro attività quotidiane avranno la sfortuna di trovarsi impreparati, di fronte a queste situazioni, come continueranno a trovarsi soli coloro che li devono “seguire” nei loro percorsi “curativi” e che quale arma hanno il TSO, con la speranza che arrivino sempre in tempo per attuarlo e chiudere la falla prima che sia troppo tardi, come forse nel caso menzionato.

La libertà, forse sarebbe stata più terapeutica SE questi malati avessero più cure ed attenzioni. I pianti dei coccodrilli sanitari amministrativi in questi casi, sono più condannabili degli stessi reati che vengono commessi.

Commenti
Solo un commento
melgaco 2014-07-07 17:18:06
Analisi giusta, soprattutto nella parte in cui si sottolinea come la famiglia diventa assistente sociale, quando invece dovrebbe essere assistita. Siamo di fronte al solito approccio buonista al problema. Un approccio che non fa altro che, di fatto, scaricare sulla famiglia del malato tutti i problemi. Lo Stato chiude il manicomio e fa il buono. Poi sono cazzi della famiglia, dei vicini di casa, di ignari passanti etc. etc.. La legge Basaglia ha rovinato la vita a una marea di persone (e non ha curato nessuno).
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