Il posto dei tulipani neri
Un contributo sull'ICI "dovuta, non denunciata e non versata" relativa alle aree pertinenziali edificabili
Dunque, il comune perde circa la metà dei ricorsi contro gli accertamenti riguardanti l’imposta ICI “dovuta, non denunciata e non versata” relativa alle aree pertinenziali edificabili. Ricorrono e vincono in prevalenza i pezzi grossi (leggi: i Lanari), o le imprese rilevanti (leggi: SIRA, società che gestisce il Ritz); non la gente semplice che ha una piccola casa con giardino1.
La quale gente in realtà non ci pensa nemmeno a fare ricorso, perché tante sono le difficoltà che dovrebbe affrontare, tra spese, perdita dello sconto al 50% riservato a chi aderisce all’accertamento2, interessi maturati e pagamento dei legali. Non è detto, perciò, che, mancando il ricorso, ci sia riconoscimento della pretesa impositiva e non invece, pantografata, quella metà dei casi in cui il torto del Comune si è palesato a seguito delle sentenze della Commissione Tributaria Provinciale.
Sarebbe proprio ora che l’Amministrazione Comunale cominciasse a rivedere il fondamento degli accertamenti che manda, a partire da dove la vicenda è cominciata.
E la vicenda è cominciata nel 2009, quando una sentenza della Cassazione affermò che, ai fini ICI, andava considerata “parte integrante del fabbricato l’area occupata dalla costruzione, e quell’area che, per espressa dichiarazione del soggetto passivo dell’imposta […] ne costituisce pertinenza”3.
E già fin da allora non sarebbe dovuta mancare un’obiezione: in che forma si sarebbe prodotta questa autocertificazione, se nemmeno il Comune l’aveva mai prevista nei suoi formulari? Una prassi in realtà era invalsa, ed era quella che veniva praticata e accettata da entrambe le parti: se casa e terra si trovavano in particelle catastali diverse ma contigue, una graffa sul confine tra i due perimetri bastava a certificare la pertinenzialità di un’area rispetto all’altra; se la particella era unica, il problema nemmeno si poneva: era pertinenza e basta. “Indipendentemente dalla previsione fatta dagli strumenti urbanistici”4, certo.
Del resto nessun commercialista – della cui professionalità si serve molta parte dei contribuenti – ricevette mai comunicazione pubblica del fatto che fosse necessaria un’autodichiarazione di pertinenzialità; di modo che i clienti non si possono nemmeno rivalere su di loro per avere ricevuto un cattivo servizio.
Soltanto dopo il 2009, che è la data di quella sentenza, il Comune di Senigallia (come molti altri in Italia, ma non tutti) si accorge che i proprietari pagavano l’ICI come pertinenza della loro casa senza avere fornito espressa dichiarazione di pertinenzialità; ed è su questo appoggio tardivo e malignamente formale – la mancanza di un’espressa dichiarazione – che gli esattori comunali hanno fondato la gran quantità di accertamenti volti a riscuotere il pregresso fin dove lo si può riscuotere, ossia fino a cinque anni indietro. Erano somme pesantissime, capaci di ridurre i tanti piccoli proprietari di una casetta con giardino alla disperazione.
Infatti, molte di quelle aree che i proprietari e lo stesso Comune avevano considerato nei trent’anni che precedettero il 2009 come “pertinenti l’abitazione principale”, si trovavano adesso a dover pagare un’imposta corrispondente alla destinazione che il Piano Regolatore aveva loro assegnato, edificabile in gran parte dei casi; con l’aggravamento che il pagamento doveva partire da cinque anni prima, massimo consentito per riscuotere le somme non corrisposte.
Adesso penso alla casa di Giorgio, che si trova sul lungomare di Ponente: questa casetta ha il torto di essere piccola, e il suo giardino grande in proporzione, e per di più edificabile. Prima che fosse approvato il primo piano regolatore, quella casa era abitata da sua madre e prima ancora da suo nonno. Era del tipo delle casette costruite al tempo del fascio dirimpetto al mare. E non era stato certo lui a chiedere l’edificabilità di quell’area, né che quella parte del lungomare cadesse sotto l’occhio dei pianificatori. Si batté, anzi, con la sua associazione di naturalisti, per difendere il Lungomare di Ponente dalle eccessive costruzioni; e, per quanto lo riguardava, mantenne in modo durevole e coerente il pezzetto di terra a giardino, resistendo a più di un tentativo da parte di proprietari confinanti di convincerlo a costruire. In quel giardino arruffato di piante della duna costiera, Giorgio ha selezionato il tulipano nero PS95/1, dopo lunghi anni di lavoro.
Giorgio vive oggi di una piccola pensione: ecco perché, non potendo in nessun modo far fronte all’esazione dei riscossori comunali, perso per perso, ha preferito affrontare il ricorso. Ma con buona convinzione che gli fosse riconosciuta la ragione. L’esito, però, pubblicato nel novembre dell’anno scorso, è stato solo quello di sentirsi ripetere, stavolta nel corpo della sentenza del Consiglio Tributario Provinciale, che “l’elemento essenziale che permette di determinare se un’area deve essere considerata o meno pertinenza è la dichiarazione fatta dal soggetto passivo al momento della denuncia, indipendentemente dalla previsione degli strumenti urbanistici – questo secondo la ormai citatissima sentenza della Cassazione – ; con la precisazione aggiuntiva che “se l’area non è evidenziata come pertinenza dalla denuncia, come nel caso in questione, allora questa dovrà essere valutata in base alle previsioni del piano urbanistico adottato dalla Giunta comunale che, in questa situazione, ne ha sancito l’edificabilità”5. In altre parole il ricorso è respinto e lui deve pagare ogni anno come se avesse costruito un albergo. Più cinque anni di arretrati.
Ora io non mi sogno di controdedurre gli argomenti dei giudici, verso i quali osservo tutto il rispetto che loro si deve; desidero però sostenere le ragioni di un amico (e di tante altre persone che non conosco ma che si trovano nella stessa situazione) contro una perversa connessione di norme forzate e di poteri autocratici che oggi non lasciano scampo al cittadino che incappa nella loro rete.
A me pare infatti che non possa essere considerato “giusto” un sistema impositivo che costringe il contribuente a rinunciare al possesso di una piccola abitazione con giardino – un bene primario in ogni caso – in nome di un superiore bene comune quale sarebbe quello rappresentato dagli opportunismi interpretativi e ricattatori dei riscossori pubblici. E dunque mi chiedo: è forse a causa del bene comune che Giorgio probabilmente si troverà costretto a cedere ai costruttori il giardino che ha sempre mantenuto non edificato, e questo al solo scopo di coprire il debito che ha dovuto fare per pagare l’enorme supplemento di ICI per il quinquennio 2005-2009, supplemento che gli è stato richiesto in base a interpretazioni sopraggiunte a posteriori? Chiedere che la destinazione dell’area venga trasformata con variante in “verde privato”? Questo varrà per l’IMU, ma come le paga tutte quelle ICI pregresse che gli anno imputato? Coi tulipani neri?
Un’ulteriore domanda: se viene punita coi recuperi forzosi una supposta negligenza da parte di Giorgio (ma perché avrebbe dovuto sapere lui dell’autocertificazione necessaria se il Comune non ne sapeva niente e la stessa Cassazione ci arrivò soltanto nel 2009?), non si dovrebbe coerentemente imputare una negligenza ancora maggiore all’ente riscossore, che per decenni accettò per buona la sua dichiarazione senza muovere alcun rilievo? Questa loro negligenza quanto sarà costata nel tempo all’erario comunale?
In ogni modo si sarebbe disposti anche ad assolverli, se solo quei signori riuscissero ad ammettere che tanta recrudescenza, sul cittadino Giorgio e su altri che si trovano nella stessa situazione, non sia stata la conseguenza di una linea di condotta coerente e continuativa nella politica comunale, della quale lo stesso contribuente si sarebbe potuto valere; ma – qui sta la menzogna dell’intera operazione – questa esazione l’hanno raccolta alla fiera delle occasioni, dove si spillano soldi facendo ballare l’orso.
1) Per un’informazione generale sull’andamento dei ricorsi alla Commissione Tributaria Provinciale su questa materia si veda il Corriere Adriatico del 28 maggio 2013, Disfatta ICI e TARSU, il Comune perde otto ricorsi.
2) Già, ma come fa un’amministrazione seria ad abbonarti il 50% del dovuto a patto che tu accetti la sua proposta di conciliazione? Non dimostra una gran sicurezza di poter riscuotere, né troppa certezza che non ci saranno ricorsi vincenti…
3) Cassazione, sentenza n. 19638/2009.
4) La formula è contenuta nel “Diritto” che motiva la sentenza di cui alla nota 5.
5) Commissione Tributaria Provinciale di Ancona, sentenza 314/1/12.
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