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Colapietra: “il mio attacco all’università italiana? E’ piaciuto a molti docenti”

Parla l'autore del discusso volume "Il fallimento dell'università italiana"

Michele da Ale
La copertina del libro di Simone Colapietra

Nonostante a soli 21 anni abbia già alle spalle un volume di successo, tiene a precisare di non potersi fregiare del titolo di dottore, “anche se quando mi ci chiamano mi fa piacere”.

Simone Colapietra, il giovane laureando autore del libro “Il fallimento dell’università italiana” – presentato nell’edizione del 1° novembre – spiega a Senigallia Notizie i motivi che lo hanno spinto alla realizzazione dell’opera e le reazioni del mondo accedemico italiano.

Colapietra, in quale periodo della carriera universitaria ha maturato le convinzioni espresse e il desiderio di tradurle in un volume?

“In verità non avevo alcuna intenzione di scrivere un libro. L’ultimo anno accademico è stato ricco di riflessioni sulla crisi del sistema universitario italiano, e quest’estate mi sono reso conto di avere materiale sufficiente per pubblicare un libro. L’opera, dunque, è frutto di una lunga gestazione costituita da riflessioni sui problemi pratici dello scempio universitario. Il motivo per cui ho deciso di pubblicare un libro? Beh, come dico sempre, qualcuno doveva pur fare questo sporco lavoro di denuncia”.

Quale è stata la reazione dell’ambiente universitario a questa pubblicazione?

“Il libro sta facendo molto discutere anche a livello nazionale. Ci sono alcuni docenti che ignorano o disprezzano l’opera, ma ce ne sono altri (tanti per la verità) che la apprezzano e la consigliano ad amici e colleghi. Sono stato invitato in molti atenei a presentare il libro. Quindi sono molti i cattedratici (dai docenti ordinari ai ricercatori) che condividono pienamente le mie idee. Il libro è stato anche recensito in riviste di rango accademico”.

Ha trovato difficoltà ed ostracismi tra gli editori per pubblicarlo?

“Il libro è un saggio. Purtroppo gli italiani leggono molto poco, e quei pochi che leggono preferiscono una lettura di svago; quindi si vendono molto di più i romanzi e le altre opere di narrativa. Considerando che il tema da me trattato non è proprio divertente, alcuni editori non lo hanno ritenuto appetibile, ma poi ne ho trovato uno serio (Cerebro) che mi ha voluto pubblicare e – come abbiamo constatato – il libro sta vendendo alla grande in tutta Italia”.

Nel realizzarlo, ha fatto leva soltanto sulla propria esperienza diretta o si è documentato tramite testimonianze orali di amici, semplici conoscenti, o fonti d’altro tipo?

“Ho reperito report di fonti autorevoli come la Corte dei Conti e un’indagine All-Ocse sull’analfabetismo dei laureati. Qualche accenno l’ho fatto anche a saggi già pubblicati in questa materia da illustri docenti. L’aspetto pratico invece ha fatto riferimento alla mia esperienza e a testimonianze di colleghi universitari che studiano in varie zone d’Italia e all’estero. La critica è al sistema universitario, non a qualche ateneo in particolare. Nessuno si senta pizzicato, dunque, a meno che non sia ancora un esaltato pro sistema 3+2”.

Mi elenchi – riassumendo il suo libro – gli aspetti più evidenti che rendono l’università italiana fallimentare tanto da affermare che “non conviene assolutamente laurearsi”.

“Ce ne sono vari, ma in sintesi:
•    Primo, il sistema 3+2. Il valore delle lauree e della cultura è stato deteriorato. Le specialistiche non servono a nulla se non a ripetere esami già sostenuti in malo modo alla triennale.
•    Secondo, il sistema dei crediti: non è possibile quantificare il sapere.
•    Terzo, la facilità delle lauree post-riforma. Rendendo l’università accessibile a tutti molti hanno preferito laurearsi; così, oggi non abbiamo più figure professionali come sarti e pasticcieri, ma abbiamo un esercito di laureati disoccupati. È questa la tesi innovativa del libro: l’università è parzialmente complice della disoccupazione, anche se, sia chiaro, non è compito dell’università creare posti di lavoro.
•    Quarto, e questa è la cosa più importante, l’università non dà più una preparazione culturale. Ormai è una raccolta punti (crediti) e una corsa ad ostacoli a tempo. Rischiamo di avere una moltitudine di laureati “vuoti”. Il tempo per approfondire è sempre meno, mentre gli esami sono sempre di più. Se sei all’università per amore della cultura ti viene il volta stomaco. Se sei all’università perché vuoi trovare un lavoro in giacca e cravatta ti stai sostanzialmente illudendo e stai perdendo tempo. Purtroppo sono le statistiche a parlare chiaro”.

È davvero convinto che il ritorno al vecchio ordinamento possa rappresentare una soluzione efficace a molti dei problemi esposti?

“L’università pre riforma-scempio aveva sicuramente grandi problemi. Indubbiamente, però, un laureato del vecchio ordinamento non può essere paragonato a un laureato specialistico di oggi. E’ una questione di sapere: in passato l’università era la roccaforte della cultura, oggi invece si propinano conoscenze (in)utili spendibili subito in ambito lavorativo. Se il vecchio ordinamento non è migliore possiamo comunque affermare con certezza che il 3+2 è doppiamente fallimentare: ha ammazzato la cultura e non ha avvicinato i giovani al lavoro, come invece si auspicava. Il 3+2 ha scimmiottato i sistemi anglosassoni prendendo il peggio di tutto. Reintrodurre il ciclo unico e smantellare il sistema dei crediti già sarebbe cosa buona e giusta, anche non volessimo chiamarlo ritorno al vecchio ordinamento. Basti pensare che molte facoltà hanno abbandonato il doppio ciclo e offrono un solo corso di studi di 5 anni (che è comunque annacquato rispetto ai vecchi 4 anni e impregnato dal sistema dei crediti)”.

Lei contesta la “produzione in serie di laureati”, preferendo una società “nella quale ognuno occupi il proprio posto con verità, compresi analfabeti ed ignoranti”: non pensa che il problema della società attuale nasca, più che da un numero eccessivo di laureati di bassa lega, come mi sembra di scorgere tra le parole del libro, da un mancato legame tra università e lavoro che permetta davvero di valorizzare la propria esperienza di studio e di non ridurla a mero e interminabile parcheggio?

“Il mondo accademico e quello professionale devono rimanere ben distinti. L’università deve formare delle persone culturalmente, non professionalmente. L’esperienza si fa sul campo. Certamente, ci sono mestieri per i quali è necessaria una laurea; in passato erano tre: il giurista, il prete e il medico. Oggi siamo passati all’estremo opposto! Ci sono corsi di laurea iperspecializzati del tutto inutili. L’università si è arrogata la formazione professionale che, lo ripeto, non è di sua competenza. Anche se le università fossero collegate con le aziende, sarebbe ugualmente facile capire la falla che vive la nostra economia. Se servono, ad esempio, 100 unità e l’università ne sforna 1000 non esiste soluzione al problema. Quindi, per quanto possano essere legati forzatamente i due mondi, l’eccesso dei laureati c’è e si fa sentire. Un paio di domandine semplici che aiutano a sciogliere i nodi: perché in passato per fare l’infermiere bastava un corso post-diploma e oggi invece serve una laurea? Perché per fare il commercialista bastava il titolo di ragioniere e oggi serve una laurea specialistica? A voi le conclusioni.
No, non conviene laurearsi”.

Commenti
Solo un commento
Michele 2012-11-02 12:20:07
Lavoro in una grande Azienda e in modo indiretto ho assistito molte volte a colloqui di lavoro nonchè alle selezioni dei curricula nella mia e in altre aziende più o meno grandi di Senigallia. Tristemento vi dico che la prima fetta che viene scartata sono i laureati, costano troppo, non sanno lavorare, pretendono troppo. Questo secondo chi seleziona.
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