Intervista con il fotoreporter senigalliese Giorgio Pegoli – FOTO
"Sono proprio le immagini della guerra che fanno capire a tutti con immediatezza quanto sia preziosa la pace"
Appena varcata la soglia del negozio di fotografia di Giorgio Pegoli ci si sente catapultati dentro la storia stessa; dalle pareti fanno capolino soldati, paesaggi esotici, frammenti di guerra, bambini, popolazioni lontane. Ogni foto è contrassegnata da una data e un piccolo pezzetto di carta che la colloca in qualche remoto angolo del mondo; Vietnam 1978, Brasile 1981, India 1984, Cambogia 1988, Salvador 1989, Libano 1989, Iraq 1991, Giordania 1991, Palestiana 1991, Croazia 1992, Bosnia 1993, Ucraina 1993… è facile perdersi in questa mappa del globo che menziona tutti i conflitti che in un trentennio di attività sono stati documentati da Pegoli. Il fotoreporter ci snocciola una serie infinita di aneddoti per ogni scatto dandoci solo una vaga misura delle porzioni di vita da lui vissute, testimone consapevole, in prima linea, dell’orrore della guerra ad ogni latitudine.
Ecco l’esito della chiacchierata che il fotoreporter senigalliese, appena tornato dal convegno “Sul filo dei conflitti” svoltosi a Roma, ha rilasciato ai taccuini di Senigallia Notizie.
E’ appena tornato ( ndr: l’evento si è svolto in data 19/02/12) dal convegno “Sul filo dei conflitti” svoltosi a Roma dove è stato uno degli ospiti più illustri….come è andata?
Molto bene, al convegno hanno preso parte molti giornalisti di fama internazionale, reporter, fotografi: è stata una preziosa occasione per fare ancora una volta il punto su quella che è la situazione dei conflitti a livello mondiale. La guerra, a qualsiasi latitudine è sempre una piaga da debellare, ma è importante parlarne, prenderne consapevolezza perché solo così si può capire quanto preziosa sia la Pace. Oltretutto alla conferenza erano presenti individui che hanno vissuto quasi tutti in prima persona l’esperienza della guerra, l’hanno conosciuta sulla propria pelle, insomma parlano con cognizione di causa. Durante tutto l’evento sono state proiettate senza sonoro delle immagine filmate da me e dal mio cameraman durante le nostre ultime missioni nei Balcani: per descrivere un’atrocità complessa come la guerra le immagini diventano un ausilio indispensabile per cercare di fare capire cosa significhi veramente stare in prima linea, cosa significa raccontare la guerra. Ci tengo a sottolineare ancora una volta come anche in questa occasione il discorso che più ha animato tutti noi accorsi a Roma è stato la problematica riguardante i bambini che si trovano loro malgrado sui teatri di guerra di tutto il mondo “Bambini nelle guerre dei grandi”: qualche volta ci si sente impotenti, avvinti davanti agli orrori che abbiamo visto proprio perché a pagare alla fine il prezzo più alto sono quasi sempre loro.
La città di Senigallia sta diventando sempre più un epicentro importante della fotografia internazionale; questo grazie al contributo di diversi professionisti tra cui spiccano in assoluto il suo nome e quello di Giacomelli…cosa pensa al riguardo?
Sicuramente è un onore anche se le scelte stilistiche vanno in due direzioni completamente diverse. Giacomelli è un fotografo d’arte, tramite le immagini riusciva a immortalare la poesia della vita e in questo è stato uno dei più grandi esponenti mondiali. Io ho fatto scelte diverse; per me la fotografia deve raccontare, deve documentare, deve cercare di portare un po’ di luce in quei tanti coni d’ombra che spesso avvolgono i momenti più cruenti della storia dell’umanità, le guerre appunto. Il percorso che mi ha portato a diventare un fotoreporter di guerra parte da ben più lontano, sono stato da giovane anche fotografo di scena, insomma anche io sono partito dalla fotografia d’arte però c’era un’insofferenza in me, non mi sentivo completamente appagato. Vede, a mio avviso, un grosso limite della fotografia d’arte è la mancanza a volte di spontaneità: spesso lo scatto è rarefatto, costruito, preparato a tavolino, magari rifatto più volte fino a che non si è arrivati al risultato cercato. Questo è impossibile quando si è su di un campo di battaglia…ogni singolo scatto è rubato alla realtà e sarà irripetibile.
I costi delle attrezzature fotografiche negli ultimi decenni sono scesi vertiginosamente permettendo a molte più persone di avvicinarsi a questa forma di arte; a tutto questo si è aggiunto l’avvento del digitale che ha reso ancora più semplice lo scattare foto…il risultato è che anche a Senigallia spuntano aspiranti fotografi un po’ ovunque, quasi fosse una moda imperante del momento. Pensa sia un bene o un male per la fotografia?
(ndr: Pegoli sorride, apre un mobiletto e tira fuori delle vecchie reflex nikon piene di graffi, ammaccature, poi mi indica alcune foto che lo ritraggono in Perù, in Vietnam…al collo ha le stesse macchine.)
Il fatto che ci sia molto fermento e interesse verso il mondo della fotografia è una cosa positiva; ma come ogni passione richiede esercizio e abnegazione; non sono ammesse scorciatoie. Le mostro le mie vecchie compagne con cui ho visto tanti angoli del mondo per dirle che a mio avviso la fotografia è solo analogica. C’è chi sa scattare e chi no, il resto sono solo compromessi e surrogati.
Il suo primo reportage è stato in Vietnam nel ’78, l’ultimo in Bosnia nel 2010. In mezzo missioni in Ciad, Laos, Cambogia, Perù, Salvador, Nicaragua e via discorrendo. Insomma è stato un testimone consapevole dei più importanti conflitti degli ultimi trenta anni. Come è cambiata la Guerra e il modo di raccontarla?
E’ paradossale come la guerra sia mutata, sia sempre diversa e allo stesso tempo così uguale. Sono stato testimone di teatri completamenti diversi con protagonisti con storie, tradizioni e mentalità completamente diverse tra loro. Eppure l’orrore perpetrato, la distruzione, la paura diventa un minimo comune denominatore che azzera le differenze. Sono cambiate le armi, i modi di combattere eppure la guerra si porta dietro di se una circolarità spaventosa. E’ sconvolgente come ogni volta si riparta da zero, come gli errori fatti in passato non siano da monito per il presente. Ecco dove sta l’importanza del ruolo del fotoreporter, senza qualcuno che racconta, non ci sarebbe la memoria di quello che è accaduto e si perderebbe anche il più piccolo barlume di speranza di non incappare sempre negli stessi errori.
Sicuramente è cambiato anche il modo di raccontare la guerra, i mezzi di comunicazione sono cambiati, sono evoluti anche i canali di distribuzione che hanno reso possibile diffondere in maniera esponenziale le nostre testimonianze; ma è rimasta intatta la parte più vera, essenziale del nostro lavoro, quella fatta di coraggio, di voglia di vivere in prima linea, con i propri occhi quello che avviene.
Cosa consiglierebbe ad un giovane che volesse ripercorrere le sue orme e affacciarsi alla professione di reporter di guerra oggi?
Ci vuole coraggio, tanto coraggio. Bisogna essere motivati, capire che si sta rischiando la vita perché si vuole raccontare al mondo la verità, mostrare tutto quello che altrimenti non sarebbe documentato o denunciato. Ci vuole tanta volontà, ci vuole tanta correttezza e onestà con se stessi e gli altri. Bisogna imparare ad essere super partes da qualsiasi ideologia politica; essere testimoni consapevoli della storia significa anche questo. Nel corso delle mie missioni ho visto orrori perpetrati da nazioni o ideologie politiche completamente opposte ma ugualmente terribili e violente: El Salvador e la Cambogia ne sono un esempio.
La correttezza è l’unica moneta di scambio con le persone che ti affiancano durante le missioni, in special modo i soldati che spesso ci salvano la vita. Se fai il doppio gioco, non si dura molto a fare questo lavoro.
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