Senigallia: viaggio al centro della crisi
Un tempo fucine operose, ora capannoni semi-deserti nel solco tra le province di Ancona e Pesaro Urbino
La Strada della Bruciata è un solco netto tra due province. Quella di Pesaro e quella di Ancona. Nelle mattine di Novembre quando il sole e la nebbia fanno a lotta per capire chi è più "ignorante", questa vecchia e solitaria strada che costeggia il fiume Cesano assume contorni fiabeschi e spettrali.
D’un tratto il sole passa tra gli alberi con le foglie umide e scintillanti, di colpo invece è di nuovo nebbia che ammanta quel posto di grigio e contorni sfocati.
"In un’immobile campagna con la pioggia che ci bagna… il sole è un lampo giallo al parabris" diceva Paolo Conte quando guardava Genova con gli occhi del contadino piemontese. Ed è proprio così.
E quando il sole si affaccia di nuovo, vedo le colline di Giacomelli brulle e deserte, popolate solo da qualche quercia, risplendere dei colori dell’ocra. Quando lottano sole e nebbia è sempre così da queste parti. Si passa dal bagliore alla scala di grigi in meno di un secondo.
Poi si arriva alla fine di questa strada verso quella zona ancor più a cavallo tra due province e tra due mondi che solo qui si intersecano. In questo luogo si intrecciano cinque comuni e non si sa mai bene di preciso dove ci si trova. Ad un certo punto il deserto di case e di macchine di pochi metri prima diventa un ricordo, per fare spazio ad una delle più classiche zone industriali dei nostri tempi.
Una serie di capannoni e officine piantate li, sul bordo della Pergolese come fossero un assemblaggio di costruzioni Lego. Un vecchio casolare con le galline che scorrazzano, vicino ad una fabbrica di mega-yacht o ad un’azienda iper tecnologica.
Ma in questa zona non c’è la vitalità delle fucine operose e delle aziende che tritano lavoro a pieno regime. Tranne qualche realtà in controtendenza, qualche picco di eccellenza, la maggior parte delle fabbriche sono vuote. Vado vicino a due o tre capannoni, mi affaccio e vedo al di là dei vetri impolverati e opachi, macchine in disuso coperte frettolosamente da teli cerati e attrezzature e materiali vari gettati lì come se chi li ha lasciati in quel posto non vedesse l’ora di mettere la parola fine ad un brutto film.
Sono i famosi "capannoni di Tremonti", figli di uno sviluppo industriale scriteriato e senza regole. Molti di questi fabbricati si sono svuotati, ma altri non hanno mai visto al loro interno un macchinario o un bancale.
Un monumento all’incapacità di pianificazione industriale che affonda le radici nella demagogia e nelle norme ad effetto di questo ventennio devastante che abbiamo alle spalle.
Entro in qualche azienda a fare il mio lavoro invernale e trovo da parte di tutti grande cortesia. Ma quando mi accolgono avverto da parte degli interlocutori, siano essi produttori di salami o di scarpe piuttosto che fabbricanti di parquet in legno o di infissi, uno sguardo d’impotenza.
Davanti ad un caffè mi confidano: "Avrei bisogno, ma adesso non è proprio il momento", "So che mi sarebbe utile ma questo è davvero un brutto periodo".
C’è depressione, quasi disperazione, ma tutti lavorano e lottano con grande professionalità e con autentico spirito solidale.
Mi reco in un officina, al centro di un gruppo eterogeneo di capannoni di diverse grandezze. Lavorano il legno. Mi accoglie un signore sulla sessantina con un camice blu e la matita rossa dei falegnami nel taschino. Gli parlo di informatica e di cose distanti da lui anni luce. Si sforza di capire e mi capisce. Ma poi mi indica col dito un uomo sulla trentina che lavora alacremente a degli assi di legno a dieci metri da noi.
"Una volta qui eravamo in cinque oltre a me e mio fratello. Non ho mai avuto bisogno del computer. Ho solo il fax perchè il computer non sapremmo proprio nemmeno come accenderlo, ma abbiamo sempre avuto tantissimo lavoro. Ora siamo rimasti solo noi e quel ragazzo laggiù. Se facessi bene i conti dovrei mandare via anche lui, perchè in qualche mese pagato il suo stipendio e i contributi non rimane niente per noi. Ma ha due figli piccoli e un mutuo di vent’anni. Con che faccia vado a dirgli che domani non deve venire al lavoro?"
Lo guardo bene e vedo che i suoi occhi si arrossano e che le lacrime premono per uscire.
Quell’ultimo dipendente è la voglia di non alzare bandiera bianca davanti a quel vecchio fax silenzioso.
Qui in questi luoghi nessuno grida "Si salvi chi può", conosco questa gente orgogliosa e giusta.
E’ la mia gente in mezzo alla quale sono nato e cresciuto a due chilometri da qui. Se si affonda, si affonda tutti assieme.
Di certo nella moltitudine, qualche imprenditore senza scrupoli che non guarda in faccia a niente e a nessuno può esserci, ma quello che avverto io guardando negli occhi a queste persone, è una profonda onestà, una grande professionalità e un verace spirito solidale.
Se si affonda si affonda tutti assieme.
Eppure mi giro attorno e vedo delle opere assolutamente di eccellenza come solo i nostri artigiani sanno realizzare.
Abbiamo maestri del legno, del ferro, della meccanica e di mille altri settori che tutto il mondo ci invidia, ma allora perchè abbiamo fatto questa fine?
Perchè chi lavora è rimasto in braghe di tela e gli speculatori della peggior risma sono invece in qualche ufficio a contare i soldi o a scommettere sul baratro di un paese da dietro un pc?
Tutti ci abbiamo messo del nostro ma la politica ha probabilmente le responsabilità maggiori.
Mi auguro per lo meno che gli artefici di questo disastro paghino pegno e spariscano al più presto dalla circolazione. A destra come a sinistra.
Siamo una grande nazione, siamo una grande regione, siamo un grande popolo.
Gente divisa tra vanga e officina, che è in grado di piantare pomodori o costruire una scala a chiocciola con la stessa maestria.
Siamo stati da modello al mondo e ora dobbiamo osservare inermi il nostro declino.
Mi invade una profonda tristezza, ma anche un’insopprimibile fiducia che con le nostre forze ce la faremo. Lo vedo negli sguardi della gente delle fabbriche, che saremo duri a morire e, se perderemo, sarà dopo aver dato tutto.
E’ quasi ora di pranzo e imbocco la strada del ritorno tra capannoni che sembrano quasi pachidermi addormentati in questa placida valle.
Pochi metri e sono di nuovo in una strada che mi ricorda quella che imboccarono Benigni e Troisi in "Non ci resta che piangere".
Un titolo che in questa mattina di metà Novembre mi sembra calzante come niente altro. Mi piacerebbe varcare un passaggio a livello e ritrovarmi a Frittole tra capitani di ventura, madonne e messeri.
Ma sono qui e ora ed è questo il nostro tempo.
Un tempo in cui paghiamo il prezzo di colpe non solo nostre.
Un tempo in cui la soluzione dei problemi è invece tutta a nostro carico.
Dobbiamo trovarla per noi e per i nostri figli.
Il mio viaggio è quasi finito.
Gli alberi e l’amena campagna novembrina di poco prima sono già diventati periferia urbana.
Il mio viaggio è quasi finito ma domani ricomincerà con nuove facce e nuove storie ognuna diversa dall’altra, ma ognuna allo stesso modo importante.
Un viaggio meno avventuroso e fantascientifico di quello di Jules Verne.
Un viaggio molto più terreno.
Un viaggio al centro della crisi.
di Simone Tranquilli
Bravissimo lui a scrivere, bravissimi voi a pubblicare....chapeaux!
Complimenti Simo,
non un articolo, ma un commovente racconto da non archiviare nella rubrica Cronaca, ma in quella di Politica, sciagurata politica! Per comprendere la realtà del nostro Paese i nostri politucoli, dovrebbero privarti del lavoro che stai facendo, per rendersi conto dove siamo sprofondati e senza la certezza di aver toccato il fondo! E' stato con un malinconico piacere che ho letto queste tue suggestive e veritiere "immagini". Spero solo che anche qualche altra coscienza refrettaria possa aver fatto altrettanto. Ma so anche che la mia è solo una pia illusione!!
Bravo, proprio bello. Ha detto più questo articolo di mille pagine di economia. Grazie anche a 60019.it
Complimenti a Simone e complimenti a tutta la Redazione per i sempre migliori contenuti della testata.
Che Quilly sappia scrivere bene non è una novità. Ma il senso di tragedia mi pare volutamente esagerato.
D'altronde nel 2011 come può non essere in crisi un'azienda guidata da un imprenditore che non sa usare il comuter?
Dici: "Tutti ci abbiamo messo del nostro ma la politica ha probabilmente le responsabilità maggiori." Dare la colpa alla politica mi pare un po' troppo facile.
C'erto non è un momento facile, ma tocca a noi fare il primo passo, inventare nuove possibilità di lavoro e soprattutto evitare di piangerci addosso e di lasciarsi andare al pessimismo.
Ragazzi non sono un giornalista ma un edicolante. Ho scritto le mie impressioni e le mie sensazioni. Non aspettatevi un De Bortoli o un Gramellini.
Bello veramente, letto tutto d'un fiato, ma poi chi sono De bortoli e Gramellini?
:-)
... non servono.
Complimenti hai disegnato la situazione attuale con una poesia.
Per Fax: tocca a noi a fare il primo passo?
Noi chi?
Non vado oltre perchè cadrei presto nello scurrile ....
Leggo del qualunquismo... inotlre "piuttosto che" è un'avversativa.
In estrema sintesi... la colpa della crisi è delle banche, oltre ogni ragionevole dubbio. Il culo invece è sempre il nostro.
Si è buttato giù Berlusconi per mettere al suo posto gli inventori della crisi.
Cambiare tutto per non cambiare nulla!!!
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