La prima al Teatro La Fenice: io c’ero e sono sopravvissuto
Le astrazioni, le introspezioni e i commenti della Piaga di Velluto a "Il Velo Nero del Pastore"
Non è facile fare una recensione a qualcosa di incomprensibile. Si rischia di passare per stolidi utenti del teatro, fissati con i classici, nemici della sperimentazione e di tutto ciò che è "liberamente ispirato". Ispirato da chi e soprattutto perché, verrebbe da chiedersi. E’ più facile fare la cronaca, si potrà sempre dire "io c’ero e sono sopravvissuto".
Se per farsi male è sufficiente un cacciavite da 50 centesimi, con una serata a teatro da soli otto Euro il dolore può risultare insopportabile e richiedere alcuni giorni di elaborazione e sedimentazione. Ma la "prima" della stagione teatrale alla Fenice è un’esperienza che va raccontata e condivisa, perché ha coinvolto ottocento ignari spettatori allettati da una "prova aperta" in offerta speciale. Dato che il lavoro teatrale nel frattempo è partito per una tournèe, ci sarà gente che spenderà di più per farsi del male, ma questa è una magra consolazione.
Andiamo in ordine, altrimenti sembro il regista de "Il velo nero del pastore", lavoro teatrale presentato in anteprima la settimana scorsa alla Fenice. Un lavoro tratto da un racconto di N. Hawthorne, la storia di un reverendo che per tutta la sua vita indossa un velo nero sul viso, a causa di una colpa mai espiata. Il teatro è pieno e il pubblico è caldo, perché ha dovuto fare per mezz’ora sala d’attesa nel foyer a causa di inspiegabili problemi tecnici. Ci si aspetta un solido lavoro teatrale, un’introspezione sulla natura umana e i suoi complessi meccanismi, magari condotta con dialoghi difficili ed articolati, ma l’inizio fa subito venire qualche sospetto.
Una persona, probabilmente il regista, rivolge un breve saluto al pubblico delle prime file, dato che non è microfonata e non ha alcuna intenzione di farsi microfonare. Pensando di perdersi uno snodo vitale dell’Opera, il restante pubblico rumoreggia e si scatena un frenetico tam-tam fra quelli che hanno sentito e quelli che devono leggere il labiale col binocolo. Le interpretazioni vanno da un ennesimo problema tecnico a un invito a spegnere i cellulari, passando attraverso le scuse anticipate per quello che andrà in scena.
Stabilito, per via transitiva e tradizione orale, che il breve prologo rappresentava un ringraziamento verso coloro che hanno messo a disposizione il teatro per questa prova aperta, il lavoro teatrale può incominciare. Si comincia con una specie di candeliere sul palco, le cui lampadine, ad intervalli regolari, esplodono una dopo l’altra. Le esplosioni sono talmente ben sincronizzate che, con uno sguardo all’orologio, dopo una decina di minuti sono perfettamente in grado di prevedere l’attimo della successiva esplosione. La potenza del teatro, la sua magia.
Esaurite le lampadine, fa il suo esordio una schiera di veli che celano tutto il palco e una musica assordante di tipo proto – industriale, una specie di pressa – troncatrice a vapore dell’800, ma più molesta e assolutamente improduttiva. I veli vanno e vengono per lunghissimi minuti, al punto che il pubblico comincia a chiedersi che fine abbia fatto il Pastore, quando fa il suo esordio la cosa più interessante della serata.
Appare una donna bellissima in biancheria intima, guepière e reggicalze, un autentico schianto di ragazza con delle grandi ali a farfalla, che si muove sensuale e sinuosa per altri lunghissimi minuti. Stritolati fra la splendida visione e il clangore della pressa ottocentesca, abbiamo tutto il tempo per dare un’interpretazione del ruolo impersonato dalla ragazza. Forse è la Natura, con la sua forza sensuale, forse è l’Amore, leggero ed etereo, o la Bellezza, vana ed effimera. O il Peccato, irresistibile e disponibile. Nel dubbio io scelgo l’opzione Gnocca, l’essenza tutti questi concetti.
Il balletto si protrae a lungo, al punto che si spera che accada qualcosa, il burlesque siderurgico incomincia a stufare e si aspetta l’inevitabile bruto che si porterà via la ragazza, una svolta drammatica di cui si sente il bisogno. E invece appare un cavallo morto, portato in scena da due uomini, che lo depongono ai piedi di Gnocca. Fortunatamente il cavallo è finto, ma ben realizzato, e il fatto che si possano apprezzare queste cose la dice lunga su quanto tempo si abbia per fare astrazioni ed introspezioni. Dopo un breve riposo il cavallo viene portato via, mentre Gnocca continua la sua interpretazione, che ormai è diventata un misto fra una sessione di pilates e un corso di aerobica in una fabbrica di trattori. Questa è l’ora della svolta, pensa il pubblico, tutto l’incomprensibile è accaduto, ora i nodi verranno al pettine.
Al povero pubblico ingenuo viene in soccorso un uomo che si avvicina a Gnocca con un bastone, lo spezza e abbandona la scena. Provo invidia per lui, ha fatto la sua parte e può andare al bar per farsi una birra, mentre noi dobbiamo restare lì, ostaggi di Gnocca e di quel clangore infernale. Pochi minuti dopo avviene l’evento principale del dramma, la Catarsi ferroviaria. Una gigantesca locomotiva irrompe in scena e travolge Gnocca senza alcuna mediazione. E’ un momento spettacolare, inconsulto come tutto il resto, ma spettacolare. La locomotiva è molto fisica, il pubblico viene avvolto dal fumo di scena, succede qualcosa.
La Natura è violata, l’Amore tradito, la Bellezza sfregiata, il Peccato redento, ma forse è soltanto Gnocca che ha preso una tranvata risolutoria. Non lo sapremo mai, non c’è tempo per elaborare il lutto. La scena si riapre con una specie di gigantesco acquario riprodotto con le luci di scena, accompagnato dal solito clangore metallurgico che non ci ha mai lasciato soli. Abituato a tutto e provato nel fisico, frugo nella mia mente in cerca di pensieri solidi e sensati. Devo girare il materasso sul lato invernale, è tutto quello che mi viene in mente, mentre per altri lunghissimi minuti assisto alle evoluzioni dell’acqua.
Ormai non ci sono più speranze di avere un comprensibile esito della vicenda, il regista è andato troppo in là. Probabilmente sarà già andato al bar a farsi una bevuta, alla faccia di quegli ottocento gonzi che gli hanno riempito il teatro. E quando gli ricapita una serata così.
di La Piaga di Velluto
Perfetta recensione: è stata una delusione totale!!! Come è possibile? Chi ha scelto questo spettacolo?
Buongiorno alla Piaga di Velluto! La seguo sempre con grande attenzione, ma questa volta con più concentrazione del solito, perchè io ed un mio amico siamo andati a vedere lo spettacolo. Spettacolo allucinante, incompresibile, assurdo e per nulla interessante ed intrigante. L'arte concettuale, estremizzata a questi livelli, raggiunge un valico non definibile e non accettabile secondo me. Io ho letto la novella di Hawthorne e mi aspettavo una cosa fuori dagli schemi, ma questa è stata una esagerazione. Dovevano fare come all'Opera (o come quando acquisti un mobile da Ikea), darci almeno un libretto con le spiegazioni. 8 euro (mi perdoni il regista) che sarebbero potuti essere spesi in un modo assolutamente migliore, fosse altro per il clangore assordante prodotto durante lo spettacolo che mi ha rintronato la testa per almeno due ore. Comunque, meravigliosa critica della Piaga di Velluto, con la sua divertentissima lettura mi ha ricompensato della cifra spesa!
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