“La gestione del rischio idrogeologico è una macchina fatta di tanti ingranaggi”
L'ing. Stefano Mallucci: "Mi chiedo se qualcosa in più poteva essere fatto, in questi anni più che in questi giorni"
Premetto che non sopporto le polemiche sterili e, visto che non sono un avvocato e che non sono a conoscenza di tutti i retroscena, non ho alcuna velleità di accusare nessuno.
Scrivo queste righe soltanto con la curiosità di un ingegnere idraulico, l’umiltà di un ragazzo che è andato a studiare e a lavorare lontano da Senigallia, la tristezza di chi è tornato per la seconda volta in pochi anni a vedere e a dare una mano per pulire quello che resta dei sacrifici di chi invece è rimasto, e l’imbarazzo di chi vede i propri parenti e amici continuare a spalare fango mentre non può fare altro che scrivere perché nuovamente lontano.
Soprattutto, scrivo perché ho potuto verificare con i miei occhi quante cose, secondo il mio modesto punto di vista, non hanno funzionato. Anziché elencarle, atto che insinuerebbe delle accuse, vorrei solo presentare degli spunti di riflessione.
La gestione del rischio idrogeologico (come quella di tutti gli altri rischi connessi al territorio) è un sistema molto complesso, una macchina fatta di tanti ingranaggi che operano su scale temporali e spaziali molto diverse tra loro, che coinvolgono enti pubblici, privati e cittadini, e che devono funzionare tutti in sinergia per mitigare il rischio.
Ma cos’è il rischio? Già definirlo è difficile, Treccani ci prova con “Eventualità di subire un danno connessa a circostanze più o meno prevedibili”, ma questa definizione non aiuta chi ha la responsabilità di gestire un territorio. Molti ingegneri come me, che hanno il difetto di voler quantificare anche l’inquantificabile (perché le vite umane non hanno prezzo!!!), per provare a rendere maneggiabile un concetto così indefinito, definiscono il rischio in termini economici (€) come il prodotto tra il danno potenziale D, la vulnerabilità V del bene a rischio, e la probabilità di accadimento P di un determinato evento.
Si spera sempre che il termine D sia il più alto possibile (vorrebbe dire che la città è ricca!), quindi la gestione del rischio va operata cercando di minimizzare almeno uno degli altri due fattori (meglio se entrambi).
La probabilità di accadimento P non è solo responsabilità del fantomatico clima impazzito, si può ridurre in molti modi tramite interventi diretti e/o indiretti, tra i quali prediligo (per vari motivi che vi risparmio) le vasche di espansione e i canali scolmatori, i quali agiscono laminando il colmo di piena (ovvero impedendo il passaggio di una portata d’acqua sopra una certa soglia, definita in base alla capacità dell’alveo a valle). Non da ultimo, gli interventi di manutenzione ordinaria, quali il dragaggio degli eccessi di sedimenti dal letto del fiume e la pulizia periodica delle sponde dalla vegetazione, contribuiscono ad aumentare la portata transitabile, contribuendo così a ridurre il termine P. Ovviamente, la portata transitabile dipende anche dalle opere di attraversamento (alias ponti) che, secondo le Norme Tecniche per le Costruzioni e in termini di compatibilità idraulica, devono essere progettati con un tempo di ritorno pari ad almeno 200 anni (ovvero statisticamente sormontati in media una volta ogni 200 anni). Come è facile immaginare, per raggiungere questo livello di sicurezza si agisce limitando o evitando le pile (pilastri) in mezzo all’alveo, sopraelevando l’intradosso del ponte quanto più possibile (compatibilmente con le esigenze di transito) e, magari, evitando di sigillare i parapetti che altrimenti renderebbero l’effetto di sbarramento ancora più grave in caso di raggiungimento da parte dell’acqua.
Molti mi chiedono perché non vengono alzati gli argini. Certo, sponde più alte possono contenere più acqua, ma quando anche queste vengono sormontate (e, per quanto le alzi, può capitare) il danno è ancora maggiore perché un falso senso di sicurezza porta la popolazione a rendersi ancora più vulnerabile, credendosi erroneamente al sicuro. Quando si verifica una piena, il mio consiglio è sempre quello di considerare se il livello assoluto dell’acqua raggiunge quello dei tuoi piedi: in tal caso, anche se di mezzo c’è un argine, è meglio se ti consideri già bagnato. Infatti, quando l’argine viene superato, ci vuole pochissimo tempo affinché quel livello dell’acqua raggiunga tutto ciò che c’è intorno, provocando i danni che, purtroppo, ci stiamo abituando a subire.
Questo aspetto viene tenuto in conto nel fattore vulnerabilità V, che è una sorta di indice di resilienza, di fatto è una percentuale del bene danneggiato dall’evento. Per fare un esempio, la stessa vetrina di un negozio può passare da V=100% a V prossima allo 0% semplicemente disponendo di una paratia anti-alluvione certificata, annullando quasi totalmente il rischio nonostante gli elevati valori di danno potenziale D e di probabilità di accadimento P.
Attenzione: anche la consapevolezza della popolazione è un fattore che determina la vulnerabilità. La consapevolezza si acquisisce tramite la sensibilizzazione dei soggetti che si trovano nelle zone a maggior rischio (sia gli esercenti di attività economiche sia i cittadini, tramite eventi divulgativi, cartelli informativi, perché no anche simulazioni su larga scala, ecc..), fornendo i mezzi e le capacità per prevenire il peggio a livello di singolo individuo, divulgando in maniera efficiente le informazioni in merito ai servizi di allerta tramite sms, canali internet e social network (tutti già esistenti ma ancora poco conosciuti, soprattutto in una popolazione fatta sempre più di anziani, notoriamente poco avvezzi alla tecnologia).
Il calcolo del rischio può essere quindi approcciato in termini quantitativi, e deve essere fatto per fornire uno strumento decisionale fondamentale per gli enti preposti alla sicurezza del territorio.
I possibili interventi includono, oltre a quelli già citati, tantissimi altri (es. le briglie selettive per il contenimento dei tronchi durante le piene, il consolidamento degli argini, un’efficiente rete di monitoraggio di precipitazioni e portate), molti dei quali sono stati già valutati e ritenuti prioritari dall’Autorità di Bacino Regionale della Regione Marche con Delibera n.67/2016. Non sono io che devo dire quali e quanti siano gli interventi più appropriati per il nostro territorio (e nessuno me lo ha chiesto!).
Con il documento sopra citato (Assetto di progetto media e bassa valle del fiume Misa) viene anche stimata una portata massima transitabile nel tratto terminale del fiume Misa pari a circa 240 m3/s, a causa del restringimento dell’alveo e dei vincoli imposti dalle infrastrutture del tratto terminale, valore ben inferiore alla portata che si verifica statisticamente addirittura ogni 50 anni (circa 500 m3/s), figuriamoci rispetto alla portata duecentennale stimata intorno ai 590 m3/s che dovrebbe essere, tra l’altro, alla base del calcolo dei nuovi ponti. Alla luce di questi dati, risulta evidente che un intervento come le casse di espansione è quindi fondamentale, permettendo di togliere al fiume oltre 7 milioni di metri cubi riducendo il colmo di piena fino ai 240 m3/s, innocui per tutti gli insediamenti a ridosso del fiume, e in particolare per il tratto terminale da Bettolelle alla foce. Quando queste opere verranno terminate e messe in servizio sarà sempre troppo tardi ma, come si dice, “meglio tardi che mai” visto che le piene continueranno a verificarsi.
Il tema è molto complesso e richiede competenza, lungimiranza e responsabilità da parte della Pubblica Amministrazione tutta, che deve collaborare e superare con coraggio gli ostacoli di una burocrazia pietrificante; ma serve anche la collaborazione e la spinta di tutti noi cittadini ed elettori: siamo noi i primi a subire le conseguenze delle piene, quindi è giusto pretendere che venga fatto tutto ciò che serve per la nostra sicurezza. Una città la cui economia è basata sul turismo e su imprese familiari come Senigallia, già martoriata dalla piena del 2014 e da due anni di Covid, sarà costretta ad uno sforzo enorme per rialzarsi anche questa volta. E le famiglie delle vittime non avranno più indietro i loro cari.
Se avete avuto la pazienza di leggere fino a questo punto, vi sarete resi conto che queste non sono polemiche sterili, non sono accuse. Tuttavia, come tanti altri, mi chiedo se qualcosa in più poteva essere fatto, in questi anni più che in questi giorni; me lo chiedo anche affinché non accada più, perché sono stanco di assistere alla messa in scena del solito copione, un teatrino che apre le tende dopo l’ennesima tragedia e che vede gli attori di un’opera grottesca rinfacciarsi le colpe e cercare di smarcarsi da un evidente imbarazzo.
Un abbraccio a tutte le persone colpite dall’alluvione.
Stefano Mallucci
Condivido pienamente i sentimenti di Stefano.
Spero vivamente che dopo questa ultima sciagura i confronti futuri tra le diverse fazioni politiche servano a costruire perchè l'entropia politica prodotta in passato, nello specifico, è stata solo energia persa.
Forze opposte come ben sappiamo si annullano.
Le vasche di laminazione, quando il territorio lo permette, servono!
Lesson learned spero.
Poi noi italiano siamo fatti così.
I termovalorizzatori non vanno bene perchè inquinano (ndr non è vero perchè è da decenni che le emissioni di tutte le CTE italiane sono controllate).
Leggevo che paghiamo ad altre nazioni della Comunità Europea lo smaltimento dei nostri RSU e poi compriamo da loro energia l'elettrica prodotta in parte dai nostri stessi rifiuti.
In Italia contestiamo pure l'installazione delle pale eoliche offshore; in Sardegna qualcuno dice che non vanno bene perchè potenzialmente sono visibili dalla costa.
Anche nel suo piccolo Senigallia non è esente da inefficienze politiche, un esempio conosciuto da tutti è la realizzazione rotatoria bloccata da decenni. Chissà quanta anidride carbonica sarà ancora dispersa in città dalle lunghe file di auto incolonnate ai semafori dell'incrocio della penna.
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