“Fabio Ridolfi ha preferito morire e questo non interessa a nessuno”
Pastorale Salute, Diocesi di Senigallia: "Tragico fallimento società di fronte al dolore di un uomo non è più nemmeno un tema"
È morto Fabio Ridolfi, il 46enne tetraplegico inchiodato a letto da 18 anni a causa di una improvvisa rottura dell’arteria basilare, “passato alle cronache italiane”, come ricordano freddamente le cronache medesime, “per esser stato il terzo marchigiano a chiedere (per poi ottenere) il suicidio assistito”. Gli altri due – sempre stando alle cronache – sono “Mario” e “Antonio”.
Fabio Ridolfi si è spento poche ore dopo avere revocato il consenso a nutrizione e idratazione artificiali ed essere stato sottoposto a sedazione profonda e continua per non soffrire. Ma si tratta della via che l’uomo “è stato costretto a scegliere per morire”, come hanno scritto con rammarico un po’ tutti i giornali, poiché lui invece avrebbe voluto accedere al suicidio medicalmente assistito, pratica legittimata dalla Corte costituzione in casi analoghi a quello di Dj Fabo (ricordate?).
“Come avrebbe voluto “
E in effetti, secondo la valutazione del Comitato etico dell’Azienda sanitaria unica Marche, Fabio Ridolfi aveva tutti i requisiti per poter richiedere di mettere fine alla propria vita con l’ausilio del servizio sanitario. Ma tra ritardi burocratici (40 giorni solo per scoprire che il suo appello al suicidio assistito era stato “accolto”) e soprattutto la mancanza di leggi e linee guida e protocolli necessari per passare ai fatti (con quale farmaco somministrargli la morte? E chi avrebbe dovuto farlo?), il tempo passava invano. Di qui la scelta di sospendere le cure e lasciarsi andare.
La famiglia ha chiesto “rispetto per la privacy” e funerali privati, ricorda Avvenire, ma evidentemente l’invito non valeva per i radicali, che si sono subito assicurati che il corpo di Fabio restasse – virtualmente e mediaticamente – ben esposto in piazza. Scrive la Stampa: “Fabio Ridolfi è morto senza soffrire, dopo ore di sedazione e non immediatamente come avrebbe voluto”, dichiarano Filomena Gallo e Marco Cappato dell’Associazione Luca Coscioni. “Da quattro mesi – ricordano – aveva chiesto l’aiuto medico al suicidio, rientrando nelle condizioni previste dalla Corte costituzionale, ma una serie di incredibili ritardi e di boicottaggi da parte del Servizio sanitario l’hanno portato a scegliere la sedazione profonda e la sospensione dei trattamenti di sostegno vitale in corso”.
Un “diritto” difficile
Del resto era stato lo stesso Fabio Ridolfi a chiedere l’assistenza di Cappato e soci in questa causa per la morte. Ed è stato lui stesso ad “aprire la porta della sua stanza dove vive immobilizzato da 18 anni, alla stampa e alle televisioni “, raccontava Repubblica la settimana scorsa; e lo ha fatto “per gridare, pur con la voce del computer, insieme al fratello Andrea e a Filomena Gallo dell’Associazione Coscioni: “Grazie al vostro menefreghismo sono costretto a scegliere la strada della sedazione profonda, per evitare di soffrire in modo disumano a causa delle vostre lungaggini burocratiche per ottenere il suicidio assistito”.
Certo, non sarà facile trasformare anche formalmente il suicidio assistito in un “diritto”, come già lo chiamano i giornali (con buona pace dei famosi “rigidi paletti” fissati dalla Corte costituzionale). C’è infatti il dettaglio non trascurabile che dovrebbe essere lo Stato a “fornire il servizio”, e mica si può obbligare i medici a prestarsi a una pratica del genere.
“Stato crudele e indifferente “
Tuttavia una soluzione s’inventerà. Male che vada, qualche volontario si troverà pure, una volta che sarà definitivamente metabolizzata l’idea che amore e pietà e compassione impongono di dare il colpo di grazia a chi lo chiede, senza lasciar passare tempo “inutilmente”. Del resto questa è già la cosiddetta narrazione mainstream.
Ha scritto sulla Stampa Maria Antonietta Coscioni augurando “buon viaggio” al “caro Fabio”:
“Lo Stato non è riuscito ad assisterti nel tuo suicidio che ti avrebbe portato alla morte in pochi minuti. Ti ha negato quella pietà a cui ha diritto ciascun essere umano. Ha mostrato un doppio volto, quello arcigno e quello dell’indifferenza, entrambi crudeli, nei loro effetti pratici. È lo stesso Stato, in un hospice nel tuo caso, che ti assiste per sedarti e poi “abbandonarti” in pochi giorni, all’eterno sonno”
Praticamente nessuno è sembrato chiedersi nemmeno per un momento cosa avremmo potuto fare per evitare che un uomo, uno di noi, si riducesse a preferire la morte alla vita. È diventato “ovvio” ormai che un’esistenza del genere non vale la pena di essere vissuta. Non vale la pena di soccorrere una persona ridotta come il “caro Fabio “, prendersene cura. Assistere significa sopprimere dignitosamente. Per non essere “crudeli” e “indifferenti” bisogna somministrare la morte senza indugi. L’unico rammarico è che purtroppo stavolta non c’è stata eutanasia né suicidio assistito. Peccato, sarà per il prossimo Fabio.
Cinquemila euro per lo “strumento infusionale”
Faceva notare l’altro Avvenire: “Seguendo lo stesso copione delle altre due persone (per loro i nomi di fantasia “Mario” e “Antonio”), anche Fabio aveva ottenuto il nulla osta del Comitato etico regionale che però non si è espresso su farmaco, posologia e modalità per darsi la morte. Il senso della risposta pubblica è che in assenza di una legge l’Azienda sanitaria non ha titolarità a farsi carico del procedimento. Nel caso di Mario, che vuole morire per via farmacologica, l’Associazione Coscioni ha promosso una raccolta fondi per acquistare lo “strumento infusionale” necessario al suicidio assistito, con 5 mila euro raggiunti in pochi giorni”.
Siamo pronti a mobilitarci e perfino a raccogliere “5 mila euro in pochi giorni” per il suicidio di un uomo, senza che questo susciti nemmeno più mezza domanda sul compito della civiltà verso di lui. Tanto meno si avverte il dolore per quello che sarebbe un tragico fallimento sociale (“meglio l’abisso del nulla che restare tra voi”).
Se l’ultima parola torna alla morte
Impossibile, davanti alla triste morte di Ridolfi e agli ancora più tristi commenti apparsi sui giornali, non pensare a quello che scrive Giancarlo Cesana nel numero di Tempi di giugno: “La proclamazione del valore del suicidio come diritto promosso dallo Stato getta un’ombra di disperazione su un’intera civiltà; la nostra, che sembra voler cancellare il suo fondamento senza averne trovato un altro, altrettanto forte e significativo”.
Come è possibile, infatti, che la civiltà che ha inventato la medicina e la cura dei malati sia tornata a pensare all’abbandono e alla morte come a una possibile e perfino auspicabile “terapia pietosa” per i pazienti inguaribili? “La situazione non è nuova, anzi è vecchia, molto “, osserva Cesana. Era la situazione in cui viveva il mondo pagano, che “affrontava la malattia come maledizione degli dèi“, qualcosa di minaccioso da sfuggire, allontanare, abbandonare:
“Gli ospedali furono fatti non perché si sapessero curare le malattie, ma per assistere per lo più moribondi, in condizioni di vita durissime per chi soffriva e per chi assisteva. Era avvenuto un grande cambiamento, si era diffusa nel popolo la fede cristiana. La promessa della resurrezione di Cristo aveva tolto alla morte l’ultima parola sulla vita. […] Adesso la fede se ne sta andando, nel popolo e soprattutto tra gli intellettuali e gli scienziati. I primi e forse più importanti effetti sono sulla concezione della vita, considerata bene materiale come altri, che non sopportano difetti di produzione e usura e quindi possono essere smaltiti o riciclati”.
Qualunque battaglia per la vita non può che partire da qui. Altrimenti non ci sarà “paletto” che tenga.
da Ufficio della Pastorale della Salute
Diocesi di Senigallia
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