L’Associazione di Storia Contemporanea di Senigallia replica alla consigliera Bernardini
"L'Accademia della Crusca sostiene tutt'altra cosa. Il femminile di consigliere comunale è "consigliera""
Non è nostra intenzione scendere nell’agone politico e nelle sue diatribe – ci basta la pessima figura fatta dalla classe politica nel corso delle ultime elezioni del Presidente della Repubblica –, ma solo fare una duplice precisazione in merito a quanto scritto dalla consigliera Anna Maria Bernardini nella replica alla consigliera Chantal Bomprezzi.
Lo facciamo in quanto storiche e storici, perché negli ultimi dieci anni abbiamo pubblicato una quindicina di volumi e saggi sulla storia delle donne nell’Italia contemporanea che ci hanno permesso di analizzare le questioni linguistiche connesse a quella che Norberto Bobbio ha definito (in “Elogio della mitezza”, 1994, p. 55) “l’unica grande rivoluzione del nostro tempo”, l’emancipazione delle donne appunto.
Premessa doverosa: la lingua è un fenomeno in continua evoluzione e quanto detto solo pochi anni fa può subire una serie di trasformazioni, cambiamenti e adattamenti.
Due sono i punti su cui intendiamo soffermarci. La consigliera Bernardini ha scritto che “Nei miei confronti, invece, si sono rivolti sempre appellandomi ‘Consigliera’, che francamente detesto, utilizzato nei miei confronti. Perché, tra l’altro, ha un tono che non mi piace affatto. E su questo so che la prestigiosa ‘Accademia della Crusca’ è del mio stesso avviso”.
Peccato che l’Accademia si sia invece ripetutamente pronunciata in modo differente, sostenendo che, a fronte di alcuni termini con uscita in -essa ormai entrati nell’uso comune (come professoressa, dottoressa, studentessa), nella maggior parte degli altri casi andrebbe preferita la semplice uscita in -a: quindi avvocata, sindaca, ministra e, appunto, consigliera.
La linguista Cecilia Robustelli, nota professoressa universitaria e componente dell’Accademia della Crusca da più di un ventennio, nel suo libro “Donne, Grammatica e Media” (2014) ha ricordato che la lingua italiana possiede un buon numero di forme femminili in -essa (alcune delle quali oggi in disuso come “ostessa, brigantessa”, etc.) cui si sono recentemente affiancate altre in -a (come appunto avvocata).
La ragione della diffusione di queste forme trova spiegazione nella condanna delle forme in -essa che la linguista Alma Sabatini aveva espresso nel 1987 proprio per la connotazione spregiativa e ridicolizzante che esse avevano assunto. Ma successivamente questa connotazione è andata perduta, facendo sì che al suffisso -essa venissero preferite le forme in -a. Pertanto, non c’è bisogno di cancellare le forme in -essa ormai entrate nell’uso (le più comuni restano “professoressa, studentessa e dottoressa”, e tra le meno usate ci sono “sacerdotessa, profetessa, poetessa” e alcuni titoli nobiliari come “duchessa, baronessa, principessa”), mentre per gli altri casi è preferibile la forma in -a, come appunto nel caso di “consigliera”.
Solo le forme “giudice, vigile, presidente” sono da preferirsi alle varianti in -essa (“giudicessa, vigilessa, presidentessa”) perché come per tutte le forme in -e ed in -ente, sono uguali per il maschile e il femminile (ibidem, pp. 48-50) . Diverso è il caso di “consigliere” perché, come sottolineato nel 1996 dal presidente della Crusca Giovanni Nencioni, “il femminile di consigliere comunale” è appunto “consigliera” in quanto il termine prima che nel vocabolario è stato “consacrato dalla saggezza popolare nel proverbio ‘la fretta è cattiva consigliera’” (Adnkronos, 22 novembre 1996). Basta aprire un qualsiasi Dizionario della lingua italiana in uso per trovare conferma del fatto che il femminile di “consigliere” sia appunto “consigliera”. Che poi questo termine possa non piacere è un altro discorso ma, come ha ricordato ripetutamente il linguista Giuseppe Antonelli (autore di diversi libri, tra cui “L’influenza delle parole”, 2020), diverse parole non solo non hanno incontrato un gran seguito, ma hanno stentato, e non poco, a entrare nell’uso comune.
Secondo punto, ha scritto la Bernardini: “l’espressione ‘maestrina dalla penna rossa’, credo, sia un modo del tutto ironico, per nulla offensivo o denigratorio, di rivolgersi ad una persona, in una sana dialettica politica, anche perché se, chi ha scritto la replica alla nota della maggioranza, avesse letto il libro “Cuore” di De Amicis, saprebbe di buon grado che la figura della ‘maestrina dalla penna rossa’ è una figura in assoluto del tutto positiva”.
Ebbene, siamo tra i lettori e ammiratori di “Cuore” libro uscito nel 1886; la “maestrina dalla penna rossa” è un personaggio letterario ispirato a uno storico: si chiamava Eugenia Barruero (1860-1957), era torinese e De Amicis l’aveva assunta come “personificazione” della giovinezza e soprattutto della missione che lo scrittore ligure affidava alla scuola, affinché questa, sulla scorta del monito di Massimo d’Azeglio (attribuito erroneamente ad altri), facesse davvero gli italiani, dopo che era stata fatta l’Italia, senza distinzioni di censo e di dialetti (Massimo Novelli, “La maestra immortale con la penna rossa”, in “la Repubblica”, 12 ottobre 2011).
Tuttavia, nel corso dei 136 successivi anni alla pubblicazione del capolavoro deamicisiano, l’espressione “maestrina dalla penna rossa” ha assunto una connotazione spregiativa e conformistica, diventando sinonimo di “saccente”. Infatti, lo scrittore e conduttore Gianluca Nicoletti usa l’epiteto “maestrina” per riferirsi alle persone che gli inviano sms segnalandogli “suoi piccoli errori grammaticali” pronunciati durante la trasmissione radiofonica “Melog”, sottolineando la pedanteria di molte di queste correzioni. Un’altra nota conduttrice, Lilli Gruber, si è beccata il titolo deamicisiano, dando origine nel 2008 a un altro neologismo, registrato dalla Treccani. C’è pure una “sindrome della maestrina dalla penna rossa”, un disturbo ossessivo-compulsivo che porta a correggere ogni errore grammaticale.
In conclusione, prima di rendersi interpreti del pensiero di enti di grande levatura e storia – l’Accademia della Crusca è stata fondata nel 1583 a Firenze – è opportuno informarsi con rigore e serietà.
Abbiamo aperto questa replica con una citazione di un mirabile libro di Bobbio e con lui intendiamo concludere. In quel libro, l’intellettuale torinese ha espresso un’altra riflessione che, visto l’oggetto del contendere, ci sembra importante rimarcare: l’unica “forza” propria dell’intellettuale è data dalla mitezza e ciò vale tanto più nella società attuale, connotata da un livello sempre più inaudito di violenza e di arroganza. Sulla scia di Bobbio, il suo “allievo” Pietro Polito, direttore del Centro Studi Gobetti di Torino, ha ricordato in un libro uscito l’anno scorso (“Un’altra Italia”, Ed. Aras, 2021, p. 177), che il più odioso tra i pregiudizi è il “mito della superiorità dell’uomo sulla donna oppure la leggenda dell’inferiorità femminile”, perché, mentre il pregiudizio “razziale e sociale” è rivolto da una maggioranza verso una minoranza, quello antifemminile è un pregiudizio che prende di mira una maggioranza, le donne appunto.
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