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La letteratura non esiste. Ritratto di Daniele Garbuglia

Prosegue la rubrica "Ritratti" curata da Enrico Carli

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Daniele Garbuglia

Prosegue la rubrica “Ritratti” curata da Enrico Carli. Storie di imprenditori, artisti, artigiani e professionisti che hanno un progetto, un’idea per il presente e per il futuro. La città si racconta attraverso le persone che ci vivono e fanno qualcosa, anche di piccolo, perché questa comunità sussista e possa fornire svago, cultura, introiti e il cambiamento di cui abbiamo bisogno in un momento di ricerca verso una società più sostenibile.

A poco più di cinquant’anni hai già alle spalle una cospicua bibliografia. Ai libri pubblicati con la Casagrande, piccola casa editrice di Bellinzona, ovvero Home, Musica leggera e La vita privata, va aggiunta l’altra tua produzione, i libri per ragazzi incentrati sulla famiglia Soqquadro. Da poco è uscito il tuo ultimo romanzo “per adulti”, edito con la SEM di Milano, Fare fuoco, che narra di una piccola cellula terroristica nell’Italia degli anni settanta. Sei tu che scegli le storie e il registro o sono loro che ti scelgono?

Intanto grazie per questa conversazione che come spesso capita è un momento privilegiato per pensare alle cose che uno fa e soprattutto scrive. A me verrebbe da dire che sono un po’ le storie che ti vengono a trovare. Uno ha molti progetti in testa, e magari li tiene nel cassetto per anni, poi a un certo punto quando si passa alla fase della realizzazione il progetto viene al novantanove percento tradito. La scrittura, nel suo farsi, in qualche modo accade; e questo è anche il fascino della scrittura, in quanto ti permette di vivere qualcosa di completamente imprevedibile.

Per quanto si progetti e pianifichi, la scrittura poi va un po’ dove vuole. Ti presenta personaggi a cui non avevi pensato prima, ti fa andare in posti dove non saresti mai andato. Rivendico, ecco, la sorpresa della scrittura. Una cosa a cui tengo molto e che in certo modo qualifica il mio lavoro di scrittura, è il lavoro di revisione. Dopo un primo momento di apertura totale alla scrittura, accade questo fenomeno per me sempre sorprendente: che nella fase della correzione, della riscrittura, c’è una sorta di felicità quando le parole si incastrano nel modo giusto. Le storie ti vengono a trovare; accadono nel momento della scrittura, e poi c’è un lungo, lungo lavoro di ripulitura e… ascolto della musica interiore.

La prima stesura quindi la butti giù rapidamente senza prestare troppa attenzione alle parole esatte?

Di solito sì. Poi io non ho un metodo vero e proprio. È molto episodica la mia scrittura. Quindi dedico alla fase iniziale il tempo che ho, e ogni volta che interrompo diciamo una sessione di scrittura getto dei ponti verso la successiva: sono arrivato qua; devo andare lì.

Un po’ come faceva Hemingway, che quando finiva un capitolo metteva sempre l’incipit del successivo dimodoché il giorno dopo sapeva come ripartire… 

Esatto. Non ti trovi di fronte la pagina bianca ma una pagina un po’ abbozzata. Questo per me che scrivo magari dopo una settimana o periodi anche più lunghi è fondamentale per tenere il ritmo.

Nei tuoi romanzi c’è una qualità molto rara negli scrittori italiani contemporanei, mi riferisco a una sorta di silenzio che accompagna la narrazione al di là delle parole che usi per portarla avanti, parole semplici, piane, che descrivono accuratamente eppure sotto alle quali permane questa desolazione che è la cifra del tuo stile. Naturalmente questa è una mia interpretazione. Se colgo nel segno, come hai trovato questa voce che si sgretola a poco a poco rivelando l’abisso sottostante?

Allora… (grande sospiro). Mi vengono da dire due cose. Nel mio ultimo romanzo, Fare fuoco, la cosa è sicuramente più consapevole. Le frasi sono molto spezzate, quasi che tra l’una e l’altra ci sia una sorta di silenzio. E secondo me è proprio questo che dà al lettore la possibilità di meditare le frasi, piuttosto che andare veloce e spedito. Per me per esempio sono molto importanti i particolari. Diceva Michel Houellebecq che per lui scrivere è descrivere. In qualche modo anche a me capita questo.

I particolari, la descrizione, danno un respiro diverso alla narrazione. E poi io sono un accanito lettore di poesia, e anche se non è una conseguenza diretta il mio orecchio è allenato a un certo tipo di musicalità, ed è quello che perseguo nella narrativa anche se sono due ambiti diversi. È un’educazione al ritmo, ma soprattutto mi verrebbe da dire all’osservazione, e quindi è l’occhio il protagonista principale della scrittura. Forse viene anche da qui questa sorta di essenzialità dello sguardo.

Quindi neghi che ci sia una filosofia esistenziale dietro il tuo lavoro di scrittore – e che anche se non t’investe come padre, marito e cittadino, lo fa però come artista?

Ma guarda, questa è una cosa su cui… sospendo il giudizio. Io mi definisco un artigiano della scrittura. È ovvio che non sono né uno scrittore né un lettore ingenuo, tutt’altro, ho sempre mille problemi, mille domande, sia dal punto di vista formale sia da quello della tradizione… Ho molti turbamenti, teorici e anche pratici. Però tengo la scrittura in un ambito artigianale, mi interessa il più possibile essere fedele a quelli che sono, diciamo, i miei fantasmi interiori.

Io ho sempre, come artigiano, l’ossessione della forma. Mi sorprende sempre vedere come in altre forme di arte, arte contemporanea, architettura, musica, si riesca ad ottenere un linguaggio che tiene conto della visione del mondo che può venire dalla scienza, dalla fisica quantistica, e quindi si problematizza la forma, mentre nella narrativa sembra ci sia una specie di… pigrizia. Tant’è che la maggior parte dei libri che escono potevano uscire che so, cento anni fa. Cioè scriviamo ancora come Flaubert.

L’ultimo tuo romanzo è uscito nel 2020 in pieno lockdown e tu hai fatto solo presentazioni in video, da casa tua. Immagino sia stata un’esperienza nuova per te, e con un nuovo editore di maggiori potenzialità che ti avrebbe, in circostanze normali, portato in giro per l’Italia per presentare il libro. Come hai vissuto questa costrizione in una fase per te di fiero rilancio?

L’ho vissuta come una necessità. Abbiamo fatto di necessità virtù. Questo aspetto delle presentazioni a distanza inciderà sul futuro: da una parte si perde il contatto fisico ed è un grosso limite, dall’altra si arriva a una quantità di potenziali lettori impensabile. Quando abbiamo fatto la prima presentazione in video abbiamo avuto più di ventimila visualizzazioni. Dal vivo ci vorrebbero forse anni. Probabilmente si andrà verso una forma mista di presentazioni dal vivo e in video. È ovvio che dal vivo si crea un’intensità diversa, però vedo anche il positivo in tutto ciò.

Tu hai una famiglia numerosa e sei l’unico maschio in casa, com’è essere padre di tre ragazze e scrittore? Quando trovi il tempo per scrivere e il silenzio necessario alla concentrazione? Ci sono delle regole che in casa devono rispettare quando sei chiuso nel tuo studio?

(Ride). Questa è una domanda curiosa. Io lavoro a cinquantaquattro chilometri di distanza da qui, quindi la mia zona franca è l’andata e il ritorno in macchina. Lì ho tutto il silenzio che mi occorre per raccogliere le idee. Per me la fase di preparazione può durare anni. Non ho delle regole, ormai le ragazze sono grandi però, ecco, a posteriori non lo so quando ho scritto i miei libri. E poi avere una famiglia così ricca mi porta a venire a contatto con tantissimi ragazzi e ragazze e sono continuamente stimolato anche dal punto di vista linguistico. Magari a volte è anche “irritante”… Mi riferisco al loro gergo. Io per esempio non ne posso più della parola “raga”. A volte quando fanno i compiti insieme ci sono più raga nell’aria che parole tradotte in greco o latino. Ovviamente non scriverò mai un “raga” in un mio testo ma, a parte questo, è uno stimolo continuo.

Alcune parole si odiano a prescindere anche se poi servono per riportare il linguaggio che usano i giovani?

C’è una sorta di antispam, per me, in questi casi, proprio non riesco a farle entrare – anche se ritengo fondamentale lasciarsi provocare e sorprendere di continuo. Ripeto sempre una frase di Luigi Ghirri che per me è un manifesto poetico: “Niente di antico sotto il sole”. Ed è così; credo che per ogni scrittore tutto sia occasione di sorpresa.

Il contrario di ciò che diceva l’Ecclesiaste, “Nulla di nuovo sotto il sole”. 

Ghirri è molto interessante in questo ribaltamento di prospettiva. Lo sguardo è aperto come il suo otturatore di fronte alle cose dell’esistenza. Anche verso le cose impoetiche o apparentemente banali.

Chi legge i libri che in Italia non si leggono?

Mi viene da dire che ci saranno generazioni future che saranno curiose di andare a vedere cosa si scriveva in questi anni. Adesso è un po’ difficile… è vero che si legge poco, ma è anche vero che i social sono veicolati attraverso la scrittura e la lettura; è un tipo di narrazione diversa ma non per questo meno interessante. È un periodo secondo me molto ricco. Credo che ci sarà sempre una minoranza curiosa, attenta a ciò che viene scritto o che è stato scritto.

Io, per anni, mi sono dedicato alla lettura di una sorta di linea minore del novecento. Mi interessava leggere scrittori che erano fuori dal canone, non per un vezzo ma perché trovavo lì una vivacità che non trovavo altrove. Delfini, Silvio D’Arzo, Bilenchi… ma anche a ritroso, Tozzi per esempio. Senza nulla togliere alla grandezza dei “classici”, ovviamente.

Della serie esiste anche altro oltre quello che ti propone l’antologia.

Esatto. E in questa sorta di ricerca di pepite d’oro trovo anche consolazione per quello che viene scritto ora. Se uno è fedele a se stesso, ai propri fantasmi e alla propria storia, al di là del successo immediato trovo che ci sarà sempre qualcuno curioso che magari ti verrà a cercare.

Perché non si scrive solo per il successo, no?

Che cos’è il successo? È avere molti lettori. Quindi credo sia un’ambizione legittima da parte di chi scrive. Io ambirei ad avere molti lettori. Mi piacerebbe che quello che scrivo potesse arrivare a più lettori possibili. Però ecco non ne faccio una ragione di vita, a vent’anni ho scelto di fare un altro lavoro per mantenermi e del resto non faccio il letterato a tempo pieno.

Torniamo alle idee da cui nascono le tue narrazioni. Natalia Ginzburg ha scritto che quand’era giovane pensava continuamente alla scrittura, non pensava ad altro, se incontrava qualcuno si chiedeva come poterlo infilare in un suo racconto, se le succedeva qualcosa sapeva che l’avrebbe trasfigurata in una narrazione. Poi, da adulta, pur continuando a scrivere, non pensava più per niente alla scrittura, semplicemente quando sentiva che era arrivato il momento si metteva alla macchina per scrivere e lavorava a una storia. Quante delle tue energie mentali sono impiegate nell’edificazione della tua immaginazione?

Direi così: escluse le occupazioni pratiche quotidiane, lo spazio mentale è occupato quasi interamente da questo. Per me funziona così, in quanto indeciso cronico prima di decidermi a scrivere una storia passa tantissimo tempo, ne ho sempre quattro o cinque in testa che mi sembrano meglio di quella che ho scelto. Quindi per me la fase più difficile in assoluto è quella di dire: ecco, questa è la storia.

Poi subentra un’altra fase. Quando hai deciso e ti metti a scrivere una storia quella funziona un po’ da calamita, attrae pensieri, sguardi, del tutto inattesi che in quel momento ti si ripresentano. È come se tu concentrassi un’energia fortissima in quel momento che ha la forza di attirare tutto ciò. È una fase molto densa, e come tale mi occupa molto tempo.

Nel tuo romanzo breve La vita privata un uomo si risveglia senza immagine. Non si vede più allo specchio, anche la moglie non lo vede e così il figlio, ma lui può parlare e loro sentirlo. Praticamente è un uomo invisibile. Non c’è quasi traccia nel tuo libro di una critica alla società contemporanea dove le immagini hanno un ruolo preponderante, sembra anzi un’apologia del vedere, dell’osservare attentamente la vita laddove non si deve più preoccuparsi del proprio aspetto; però allo stesso tempo c’è un’impostazione classica, kafkiana, e il protagonista senza immagine vive un’odissea privata in cui i punti di riferimento di prima sono sovvertiti e lui si è tramutato forse nella nullità che sentiva di essere. Di che trauma avremmo bisogno oggi per osservare di più le cose senza giudicarle?

(Segue un lungo silenzio). Non lo so. Ma ti posso dire come nasce l’idea del libro che citi. Ricordo bene che ero a una fiera dell’editoria, in mezzo a tantissime persone, e mi sono sentito davvero invisibile, e su questa sensazione precisa che ho avuto ho cominciato a ragionare a lungo. Mi sembrava interessante osservare quest’uomo sparito nella sua quotidianità. Il racconto è scandito in una sola giornata, dal mattino alla sera, una lunga giornata vissuta da questa entità che è ormai solo sguardo. Per cui anche qui riconduco la risposta a un lavoro artigianale sulle idee. Io non saprei dare una risposta teorica alla domanda che mi poni, però per me, in quel momento, è stata un’epifania, l’occasione di aprirmi a questa sensazione vissuta sulla mia pelle e lavoraci su fino a una costruzione narrativa.

Da bambino avevi molta immaginazione e pensavi già di impiegarla attraverso le parole?

Direi di no. Vengo da una famiglia molto semplice, in casa mia non c’erano libri per bambini. Mia madre era casalinga e mio padre netturbino, per cui erano delle persone semplici da questo punto di vista.

Non c’erano libri di narrativa in casa?

Credo che il primo libro di narrativa lo comprai io da adolescente. Era un inedito di Ignazio Silone, Severina, uscito postumo. Per me fu un’apertura verso qualcosa che era del tutto da esplorare. Poi tornai in libreria e chiesi al libraio se ci fossero riviste di letteratura, e lui mi indicò questa Linea d’ombra, che da allora fu per me una guida alle cose da leggere. Per esempio ricordo che nell’ottantaquattro il premio Nobel fu un poeta cecoslovacco, Jaroslav Seifert, e io ero molto orgoglioso perché grazie alla rivista che lo segnalava l’avevo già letto e amato. È stata una conquista passo passo, un tassello dopo l’altro. Ho cominciato a scrivere poesie, fino ai vent’anni più o meno, poi mi sono reso conto che essendo nato a Recanati la poesia era una strada impraticabile. Un suicidio in partenza.

Perché tu nasci a Recanati e in seguito ti sei trasferito a Senigallia.

Sì, ma gli anni della mia formazione li ho passati a Recanati, e lì su ogni palazzo ci sono le iscrizioni con i versi di Leopardi, perciò era un continuo confronto perso in partenza. E allora ho in qualche modo torto il collo alla poesia e cercato di trovare la mia strada.

Ti sentivi magari anche scontato a fare il poeta a Recanati.

(Ride). Era veramente ridicolo. Ridicolo. L’immaginazione, comunque, è davvero un ambito strano. La scrittura per me è un insieme di pensiero, vissuto e immaginazione. Ma non mi verrebbe mai di mettermi a scrivere qualcosa di completamente inventato. Non avrei mai potuto scrivere Harry Potter!

Eppure hai scritto della famiglia Soqquadro.

Quando le mie figli erano bambine mi era venuto da scrivere queste storie che erano quelle che gli raccontavo la sera. Però anche lì c’erano molti miei ricordi, per esempio uno dei più riusciti del ciclo era Ma dove vanno le bidelle d’estate?, che era una cosa che mi chiedevo da bambino. C’è sempre questo coniugare un vissuto, anche mentale, con l’aggiunta di un pizzico d’invenzione.

Se vuoi puoi mandare un messaggio a qualcuno attraverso questa intervista. Anche cifrato. Se non vuoi, puoi sempre parlarci della condizione in cui verte oggi l’editoria in Italia. Per quello che ne sai tu.

Allora… mi viene da dire questo, saltando a piè pari l’invito a lanciare messaggi cifrati – anche se questo potrebbe benissimo essere un messaggio cifrato, in un certo senso (ride). Io credo che nella lapide posta sopra la mia tomba ci sarà scritto: “Visse di libri”. Scrivere libri, pensare libri, è la cosa che più mi piace. E devo dire che progettare dei libri è veramente un’esperienza esaltante.

Ho avuto la fortuna durante l’università di partecipare alla fondazione della Quodlibet, che è una casa editrice all’inizio molto donchisciottesca che adesso si è affermata come importante editrice di saggistica e narrativa. Il fare libri è un’esperienza completa. Quando uno fa un libro pensa alla copertina, al titolo, c’è tutta una serie di cose che determinano la qualità dell’opera, e a me pensare a dei libri di qualità mi far star bene. Quindi penso che comunque fondare una piccola casa editrice sia un gesto di civiltà e di impegno politico, a prescindere dai contenuti.

Che ne pensi del caso della Grafica Veneta, che stampa la maggior parte delle opere pubblicate in Italia, e che è oggetto d’inchiesta per caporalato? Sono stati arrestati nove cittadini pakistani e messi agli arresti domiciliari due dirigenti dell’azienda. I capi di accusa vanno dalla rapina all’estorsione, dal sequestro di persona allo sfruttamento di lavoratori stranieri.

La risposta immediata che verrebbe da dire è che sono dei malfattori. Quando si esaspera la ricerca del profitto, questi sono i risultati, comportamenti criminali, ignobili, tanto più su persone indifese, più vulnerabili e bisognose. Anche l’editoria, nel suo insieme, è un’industria e come tale soggetta alle tentazioni di usare scorciatoie per aumentare i guadagni. Di sicuro è una pagina molto triste, che va condannata e tenuta sempre davanti agli occhi, un invito a vigilare perché ciò non accada più.

Senti, ma se facessimo leggere ai ragazzi in età scolare qualche libro che non sia di Dante o di Manzoni? Inserire romanzi nel programma, intendo, magari da scegliere strada facendo insieme agli studenti. Non sarebbe già un modo per formare nuovi lettori? Tu quale o quali gli consiglieresti?

Ci sono molti insegnanti che sono curiosi, svegli, attenti al mercato dei libri, che per l’estate consigliano libri interessanti agli studenti. E poi ci sono quelli più… pigri, che si attengono al programma e non escono da lì. I ragazzi secondo me dovrebbero fare la fatica loro di andarsi a scegliere dei libri. I consigli che vengono dagli adulti, in genere, li coinvolgono poco. I libri belli sono adatti a tutti, ma nessun libro si deve imporre. Quindi c’è questa gratuità e questa libertà nella lettura. Ciascuno si deve andare a cercare i suoi libri.

Si dà sempre per scontato, l’ho fatto anch’io nella domanda precedente, che la letteratura sia una cosa importante che non vada perduta. Perché è così, tu che la pratichi sia da lettore che da scrittore lo sai? 

Mi viene da dire che la letteratura di per sé non esiste. Esiste il momento dell’incontro tra il lettore e il testo. Quella è l’esperienza vitale indispensabile in cui accade qualcosa di unico. Per me incontrare storie, personaggi, stare lì, è un’esperienza assolutamente irrinunciabile. Che poi il pregio enorme di quello che per praticità chiamiamo letteratura è che ti fa incontrare sulla pagina scritta qualcosa di vivo. Tu leggi Madame Bovary e sei lì, accanto a lei, che desideri, soffri; o leggi L’idiota e sei completamente assorbito dalla vicenda del principe Myškin. È un miracolo continuo, e come tale si dà a chi abbia voglia di aprirsi a questo.

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