Un gesto che ora eseguo meglio. Un ritratto di Luciano Montesi
Prende il via su Senigallia Notizie la rubrica "Ritratti" a cura di Enrico Carli
Comincia con questa intervista la rubrica Ritratti curata da Enrico Carli.
Storie di imprenditori, artisti, artigiani e professionisti che hanno un progetto, un’idea per il presente e per il futuro. La città si racconta attraverso le persone che ci vivono e fanno qualcosa, anche di piccolo, perché questa comunità sussista e possa fornire svago, cultura, introiti e il cambiamento di cui abbiamo bisogno in un momento di ricerca verso una società più sostenibile.
Allora, Luciano, sei una personalità eclettica, fai e hai fatto molte cose, da dove cominciamo? Diciamo dal progetto più vicino che ti vede oggi coinvolto, quindi dal Corto Circuito Cinema Festival… ma partiamo da un po’ prima, visto che il solo Corto Circuito esiste già da un po’. Quando inizia la tua passione per i cortometraggi?
La mia passione per i cortometraggi ha una data molto precisa per me. Ricordo perfettamente – era il 1993, quindi quasi trent’anni fa – che organizzavo allora con un’associazione che si chiamava Avanzi, era il tempo della trasmissione Avanzi, nel giardino di Palazzo Augusti, davanti alla caserma dei carabinieri, un festival estivo che durava due mesi, tutte le sere. Si chiamava “Bravo”.
Lì per la prima volta scoprii, grazie alla collaborazione con Fiorangelo Pucci del Fano International Film Festival, Antonio Rezza e i suoi cortometraggi, che mi sbalordirono, mi spiazzarono completamente e mi incuriosirono molto. Da lì, pian piano, anche assistito e accompagnato da Fiorangelo, mi sono avvicinato a questo mondo, che è un mondo variegatissimo, ricchissimo. Gli autori di cortometraggi sono un tipo di creativi particolari, è un linguaggio a sé stante, molti sostengono che uno fa i corti perché non ha i soldi per fare i lungometraggi, ma invece sono due modalità di fare cinema completamente diverse.
Il lungo ha un grande respiro, c’è una narrazione lenta, il corto è molto sintetico, arriva immediatamente, il linguaggio è forte, fresco, creativo, ricerca originalità, poi nel finale ad effetto spesso c’è il senso del film. Sempre più persone si avvicinano a questo linguaggio, un po’ perché oggi si fanno film e filmini con i telefoni eccetera. Da questo punto di vista vedo che il cortometraggio ha un grande futuro davanti – tutto il cinema, naturalmente, che è una grandissima industria – ma il cortometraggio riserverà delle sorprese… Così abbiamo cominciato questa rassegna, ci piaceva l’idea del Corto Circuito per diversi motivi.
Corto Circuito quando nasce?
Come festival, come rassegna, nove anni fa, questa è l’ottava edizione, l’anno scorso abbiamo saltato causa covid-19 e quindi… Le idee chiare erano due: il corto circuito della scossa elettrica, naturalmente il gioco di parole sul corto-barra-metraggio ma anche il circuito-pista, il far girare, fuor di metafora, far conoscere e circuitare i cortometraggi che sono un po’ come le poesie… sono più quelli che li fanno che quelli che li guardano.
Immagino sia importante un circuito di questo tipo, altrimenti all’infuori dei festival chi vedrebbe i cortometraggi?
In Italia ci sono millecinquecento festival/concorsi di cortometraggi, e questi insieme al nostro sono gli unici posti dove è possibile vederli. Poi da quest’anno, sulla base della nostra esperienza al fiume, abbiamo avuto delle idee.
Adesso stai parlando come presidente di Confluenze?
Io sono presidente di Confluenze pro-tempore, perché i presidenti cambiano ogni due anni… quest’inverno abbiamo fatto un lavoro di manutenzione ordinaria di un tratto di fiume, quasi due chilometri, tra Vallone e Borgo Passera, un lavoro bello, fatto bene; i risultati che intravedevamo – perché avevamo un’idea precisa di cosa volevamo ottenere, non un passare di ruspa ma un lavoro sostenibile e accurato – sono stati tutti raggiunti, e allora abbiamo anche pensato di ingaggiare dei registi per girare cortometraggi che avessero come spunto il fiume, poi se di fiction o documentari questo non importa. Quattro di questi registi hanno risposto e il risultato si vedrà in un appuntamento di Corto Circuito Cinema Festival, il 15 luglio al teatro La Fenice. Quindi per noi tutto ciò è una sintesi che sta all’origine di Confluenze, che è una parola che già rimanda al fiume e che è il centro del nostro esistere.
A questo proposito, come nasce l’idea di Confluenze?
Nasce nel ’95, quando per la prima volta organizzammo un lavoro di manutenzione del fiume tra Vallone e Bettolelle con i volontari, su tre chilometri e mezzo del suo corso; in un mese cento persone hanno fatto un lavoro di manutenzione ordinaria su tutte e due le sponde, e anche allora fu un lavoro straordinario e girammo un video con TVRS, un lavoro professionale per quei tempi, tutto in analogico… Insomma nasce da lì. Poi attività con le scuole, progetti, passeggiate. Il film si chiamava “Ritorno al fiume”, perché erano gli anni dell’abbandono, perché i privati confinanti non se ne potevano occupare più e si era accollato tutto la Regione e il risultato era l’abbandono totale, uno stato d’incuria permanente da cui questo intervento e questo riscoprire un ambiente come quello del fiume.
Per me era un luogo di bagni, di giochi da bambino, ma anche di infrattamenti da adolescente, perché è un posto molto accogliente anche a questo fine (ride). E poi ci piace questo nome, questa metafora, confluenze, perché le acque di due fiumi confluiscono, si uniscono e fanno un po’ di percorso in comune; poi magari si disperdono di nuovo, quindi ci piace l’idea di incontrare altre associazioni, altre persone, di fare insieme un po’ di percorso.
Insomma circuiti, confluenze, già queste parole rendono un disegno comunitario…
Ma sai è un disegno che prende corpo strada facendo. Io non sono un teorico delle attività, a volte facendo impari delle cose, cambi modelli, aggiusti il tiro, abbandoni qualche idea, il fare esperienza per me è molto più importante delle chiacchiere.
Torniamo ad oggi. A ieri due luglio per la precisione. Serata di inaugurazione del festival Corto Circuito Cinema in un giorno in cui però alla stessa ora giocava l’Italia agli Europei. Com’è andata?
È stata una sofferenza questa concomitanza della partita dell’Italia… Ci ha portato via un ottanta percento di pubblico. Ieri sera poteva essere una serata strepitosa, ma è andata comunque molto bene, c’era molto pubblico. Se posso aggiungere una cosa ho l’impressione che le persone, e io mi metto fra queste, facciano ancora fatica ad uscire di casa, lo stimolo deve essere più che forte altrimenti uno non si muove, resta a casa. Le conseguenze della pandemia, naturalmente. Il lockdown, il distanziamento…
Per rimanere in tema, come ti sembra appunto la situazione post lockdown da un punto di vista di ripresa? Le cose cambieranno?
Non so se mi va di parlarne. Questo martellamento televisivo continuo comincia a infastidirmi, e non perché non sia giusto nel contenuto, ma nelle modalità, il bombardamento a tappeto, continuo di questa informazione lo trovo… avvilente, fiaccante.
Passiamo ad altro. Che qualità ti piace maggiormente negli altri e quale ti da più fastidio?
Negli altri una qualità che mi piace è l’entusiasmo. Cioè dialogo volentieri, mi interfaccio e collaboro con piacere con persone che hanno entusiasmo, poi se condiviso sui temi anche meglio. Una cosa che ultimamente sopporto poco è… forse una certa critica sterile, quelli che di fronte a qualsiasi buona notizia dicono: “Sì, ma… però… Sai qual è il problema? Il problema è che…”. Quando qualcuno comincia a interloquire così poi il dialogo diventa faticoso. A me piace non creare problemi, ma risolverli, è il mio stile, forse per esperienza di vita, non so.
L’ultima canzone che hai cantato in auto, da solo o in compagnia.
Forse è un po’ scontato, ma in questi giorni mi capita di ascoltare e cantare Battiato… canzoni che hanno segnato, per quelli che come me hanno una certa età, la nostra stagione più florida, più ricca, diciamo tra i quaranta e i cinquant’anni… Sono consapevole di aver vissuto allora dei bei momenti e ogni canzone mi ricorda questi momenti, soprattutto della mia vita privata. Anche le canzoni di Fleurs, che sono canzoni di altri che Battiato ricanta a suo modo.
Facci qualche titolo.
A me piacciono I treni di Tozeur o… Voglio vederti danzare. E poi vabbè, La cura, penso che abbia per molte persone una valenza particolare. Fleurs: ha fatto tre album così, e sono poco ascoltati. Battiato rifà De André, Lauzi, Charles Aznavour, c’è molta melanconia e musica anni settanta.
Tu sei stato anche un maestro elementare, giusto?
Sì, sono in pensione da due anni, ho approfittato della Quota 100 dopo quarant’anni di lavoro.
Un lavoro che hai svolto con passione oppure… ?
Sì, è un lavoro sicuramente molto più gratificante di altri mestieri, oltre che meno gravoso sul piano fisico. Sul piano del coinvolgimento e, diciamo così, dello stress psichico, è un lavoro gravoso. Ho visto molti colleghi che dopo un po’ di anni non dico che hanno cominciato a perdere l’equilibrio ma… ogni tanto si sbarella. Perché capita che in pochi minuti devi dare venti risposte flash ad altrettante istanze dei bambini, una sollecitazione continua che richiede uno sforzo di attenzione e concentrazione notevole. Non è un mestiere leggero ma è un bel mestiere: con i bambini ci si arricchisce; io penso che sia uno di quegli aspetti della vita che mi ha aiutato a mantenere la voglia di giocare, di scherzare, di ballare.
Un sutra buddhista citato da Emmanuel Carrère nel suo ultimo libro recita così: “L’uomo che si ritiene superiore, inferiore o anche uguale a un altro non capisce la realtà”. Non capisce la realtà. C’è qualcosa da capire?
Be’, se uno la butta sul metafisico o sul filosofico la realtà è qualcosa che sfugge… Uno si costruisce delle immagini, che poi sono o spazi fisici o rapporti umani, sempre circoscritti, a dieci chilometri da lì altri, o anche lo stesso soggetto, potrebbero avere una percezione delle realtà totalmente diversa. È molto complesso il discorso sulla realtà, sia definirla sia come affrontarla. La realtà potrebbe essere anche la somma delle nostre esperienze. È un po’ complesso, è un terreno su cui barcollo.
C’è qualcosa che volevi fare da bambino e che non hai fatto?
Non avevo un’idea precisa da bambino di ciò che volevo essere da grande. Sono nato al Filetto in un casale dove abitavano più famiglie, i miei erano casanolanti, cioè gente che andava a lavorare a giornata nei campi e che viveva in due stanze col pavimento di terra battuta, e io sono nato in queste circostanze. Sono uscito perché hanno chiamato la levatrice dopo sei giorni dal giorno in cui a mia madre si erano rotte le acque, quindi sono rimasto sei giorni “a secco” dentro la pancia di mia madre, per cui hanno chiamato la levatrice per salvare la madre perché il figlio era dato per morto.
E io invece no, son venuto fuori. Siamo sopravvissuti entrambi e tra l’altro una curiosità è che io nasco nel giorno del ventunesimo compleanno di mia madre. Festeggiamo il giorno del nostro compleanno insieme. Una cosa che a volte un po’ mi inorgoglisce è che le famiglie dei miei genitori erano per tradizione famiglie di contadini e io sono stato il primo ad essermi laureato. E quindi a partire da questo fatto, da dove vengo e come sono stato allevato, mi ritengo fortunato, probabilmente in quel contesto storico uno non poteva fare di più. Le esperienze di vita, la cultura, la politica, viaggiare, incontrare le persone, avere una bella figlia, bella come persona oltreché affascinante (la figlia, sopraggiunta nel corso di questa intervista, è accanto a lui e gli sorride).
Hai praticamente risposto alla prossima domanda, che era questa: sei stato determinato, fortunato, un po’ e un po’ o né l’una né l’altra cosa?
Fortunato per quello che ho appena detto: io sono un testimone che la mobilità sociale esiste, che nella mia generazione c’è stata la possibilità che un figlio di gente povera riuscisse in qualche modo ad affermarsi. Dopodiché, ogni cosa che ho conquistato me la son dovuta prendere con le unghie e con i denti, cioè non mi ha regalato niente nessuno. La determinazione è importante, perché non arriva niente per caso. No, non arriva niente per caso.
Non ci occupiamo di astrologia, ma dalla tua risposta alla domanda che segue si può capire come percepisci il tuo percorso: in quale dei quattro elementi ti identifichi in questo momento? Aria, acqua, fuoco o terra?
Io sono un segno d’acqua, ma in questi giorni di brezza mi godo tantissimo l’aria. Un’ora fa, al mare, mi dicevo, ma che bella che è l’aria, l’aria fresca, che ti accarezza… La terra mi fa faticare molto. Il fuoco… sì, ogni tanto mi prendono delle vampate. In che cosa mi identifico? È impossibile identificarsi in un solo elemento, uno sarebbe un moncherino, se fosse solo un fuoco perpetuo, e che è l’inferno?! C’è un po’ di tutto in ognuno di noi, sicuro.
Tu che sei stato un maestro, hai avuto dei maestri di vita?
Finalmente rendo pubblica una mia consapevolezza. Io sono consapevole di aver imparato anche solo una sola piccola cosa da tantissime persone, anche da persone che in questo momento ricordo male per brutte vicende, però un piccolo gesto l’ho imparato anche da quella persona. Non dico questo per dire “ah, impariamo da tutti… “. È vero che impariamo da tutti, perché è verissimo, però ho acquisito questa consapevolezza nella somma di tanti piccoli gesti quotidiani, anche come affetti il pane, come pulisci un oggetto, come ti siedi, come fumi una sigaretta, anche come tieni in mano una sigaretta. Mi rimanda a un amico, a una persona che ho incontrato, quindi sono veramente tanti. Non so se posso dirli maestri. Quando suonavo la batteria avevo dei grandissimi maestri come Mauro Mancini, Massimo Manzi e Mauro Mencaroni, e da loro ho preso tanto per ciò che riguarda quell’esperienza. Per il resto non saprei. Per ciò che riguarda come vivere in generale, come dicevo, molte persone che ho incontrato mi hanno lasciato anche un gesto che ora eseguo meglio.
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