La tradizione della vintora, nella campagna senigalliese
Il ricordo di Marco Giardini
Ormai la trebbiatura è terminata un po’ ovunque e, da quanto risulta, il raccolto dalle nostre parti è stato molto buono e il valore del grano sufficientemente remunerativo.
Un tempo (fino agli anni settanta circa del secolo scorso) la trebbiatura in certe località di montagna terminava ad agosto inoltrato.
Sembra un sogno, eppure in questo mezzo secolo si è passati dalla falcetta manuale (lavoro massacrante con schiene rovinate) alla falciatrice trainata dai buoi e, per sommi capi, alla mietilegatrice per giungere alla potente trebbiatrice computerizzata attuale. Dalle “pecorelle” (covoni) di grano, ai voluminosi rotoli (balle) di paglia di oltre quattro quintali. Tanto fotografati dagli amanti del paesaggio rurale.
In questa occasione però vorrei dedicare un ricordo di quegli anni alla cosiddetta Vintora. Soprattutto per onorare il faticoso lavoro dei nostri antenati (in campagna allora viveva e lavorava circa il settanta percento della popolazione italiana) e il ruolo della donna.
Durante la lunga giornata lavorativa nella stalla (vacche, pollaio, porcilaia, ecc.), nel campo, nel cortile, di casa e in cucina, dalle quattro del mattino fino alle dieci di sera, erano previste piccole soste per il sostentamento fisico, tra queste, dalle nostre parti, la più nota era la cosiddetta “vintora”. Una sosta che rappresentava quasi un rito, prevista tra le ore diciassette e diciotto circa, esattamente a venti ore dall’ave Maria scandita all’imbrunire della sera precedente dalla campana della chiesa parrocchiale.
Lo spuntino (vintora) giungeva nel luogo di lavoro con un cesto (la canestra) portato in equilibrio sulla testa dalla donna di casa addetta a questo compito (spesso la moglie del capoccia), con una spara (involto di panno a forma di cerchio tra il capo e il cesto), mentre nelle mani trasportava la brocca per le bevande (acqua spesso rinforzata con l’aceto).
La merenda veniva consumata da tutti, insieme ai membri della famiglia, giovanissimi e anzianissimi, con i vicini di casa e i braccianti dei paesi, che aiutavano i contadini a fare determinati lavori stagionali, sopra a una tovaglia stretta e lunga normalmente di colore bianco, che si stendeva a terra all’ombra di un albero o di una siepe.
Il pasto era composto da genuini prodotti di stagione: pomodori, cetrioli, sedano e cipolla, accompagnati da un paio di fette di pane e una (UNA) fetta a testa di salame o di lonza. A volte quando c’erano (sì perché la natura non assicurava sempre il prodotto …nemmeno oggi) si arricchiva il tutto con una fetta di cocomero e di melone. Era un’occasione per scambiare alcune parole e rinnovare la stima e la vera amicizia tra le persone, un fatto sul quale oggi ci sarebbe molto da riflettere.
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