Riqualificazione stadio Bianchelli di Senigallia: “Impianto soffocato da centro commerciale?”
L'ing. Stefano Bernardini torna ad invitare a un'approfondita riflessione e ad attente valutazioni sull'intervento urbanistico
Bisogna avere la costanza di ritornare sull’argomento, anche a costo di ripetersi. L’ho detto a botta calda e lo ripeto adesso che l’intervento urbanistico-edilizio sull’area dello Stadio Comunale “Bianchelli”, il cui iter amministrativo-procedurale è stato avviato, non può non portare ad una approfondita riflessione e ad una attenta valutazione, con il corollario di tutti i dubbi del caso.
Già impressiona l’uso dei termini, improprio e per lo meno ambiguo, con il quale viene presentata l’operazione urbanistica. Riqualificazione urbana quando in realtà si costruisce o addirittura si opera una trasformazione d’uso ex novo dell’area, Rigenerazione Urbana quando in realtà non c’è da riattivare un’area dismessa o da valorizzare un vuoto urbano, Rivitalizzazione urbanistica senza che si veda alcuna traccia, per l’area d’intervento e per il quartiere su cui insiste, di questa nuova vita ripristinata o stimolata che sia.
Si può comprendere la voglia di usare parole acchiappa-attenzione, ma alla fine il risultato è sempre quello di appiattire tutto sull’unico minimo comune denominatore, il più banale, della Trasformazione Urbanistico-Edilizia.
Quando si parla di ri-qualcosa significa che su quell’area esistevano degli equilibri urbanistici che sono venuti meno, ed in più esistevano degli usi, delle necessità, delle richieste anch’essi venuti meno. L’Area in questione è classificata come Zona di Attrezzature e Servizi Sportivi, anche se una parte di essa viene utilizzata, ormai da quasi vent’anni, come un parcheggio (ma che sempre un servizio pubblico è).
Viene da domandarsi allora se gli usi, le necessità e le richieste di utilizzo sportivo e/o a parcheggio siano venuti meno e se gli equilibri urbanistici, dettati da tali usi dell’area, siano anch’essi venuti meno fino alla necessità di essere sostituiti. Cosa avrebbe fatto saltare questo equilibrio? E quali soggetti e quali fattori hanno smesso di sostenerlo fino a far decretare la loro rimozione?
Nel caso del rapporto fra spazio-società-ambiente su cui si sono costruite le forme della città da ripensare, e su cui allocare nuovi contenuti/contenitori, questo è senz’altro il primo e generale aspetto da chiarire. Ma su questo versante specifico da parte di chi di dovere, non è stata fatta trapelare nessuna informazione.
Quando un’amministrazione ritiene ammissibile una proposta di riconversione urbana (o presunta tale) presentata da promotori privati deve valutarla nel suo insieme e tenere ben presente l’individuazione dell’interesse pubblico che giustifichi la ri-pianificazione dell’area interessata.
E viene spontaneo chiedere dove verranno recuperati gli spazi dei servizi pubblici che qui, in quest’area, si perdono per poter fare mantenere inalterata la quota degli standard urbanistici cittadini. I progetti di riqualificazione sono normalmente proposti dai privati, con una trasformazione di aree di loro proprietà, economicamente conveniente a cui seguono i relativi piani attuativi che hanno natura negoziale.
Qui invece abbiamo un’area di proprietà pubblica, con ben definiti servizi pubblici, sulla quale un privato propone la costruzione di un servizio che classificare come pubblico sarebbe a dir poco forzato. Il privato fa il suo lavoro beninteso, avrà fatto i suoi studi di mercato e avrà valutato l’interesse economico e pertanto, considerato l’impegno finanziario che mette in campo, gli vanno augurate le migliori fortune. Ma è la Parte Pubblica che in questa negoziazione mostra tutta una allarmante, quanto disarmante, debolezza.
La Parte Pubblica in questo caso somma la proprietà dell’area e la potestà conformativa dell’area. In termini terra a terra potremmo dire che è lei che ha in mano le carte del gioco. Ma, considerato il ”favor” assegnato al privato con il cambio di destinazione d’uso a suo favore dell’area e considerato il “favor” concesso al privato con l’incremento davvero notevole dei volumi edificatori (quasi un tutto pieno) rispetto agli standard realizzativi attuali, non si può dire di certo che il risultato che l’Ente Pubblico porta a casa, in termini di opere pubbliche a suo favore, possa essere catalogato nel novero dei successi travolgenti.
Gli Accordi di Programma, e i relativi Project Financing, sono in deroga al Piano Regolatore e già questo una certa attenzione dovrebbe richiederla, tanto più che il nostro PRG ha una cartella clinica non particolarmente esaltante (basta tornare indietro alle vicende di qualche decennio fa).
Nello schema di accordo è necessaria l’individuazione dell’interesse pubblico da parte del Comune ed è necessario il contenuto costituito dallo scambio tra i volumi edificatori concessi e le opere pubbliche a favore dell’amministrazione “con scambio fra le parti leali, non sleali né ineguali” come recita la giurisprudenza amministrativa.
Ma in questo caso come è stato misurato l’interesse pubblico? E come sono stati definiti i parametri dello scambio, tanto più che sono stati fatti “a monte” della Variante e non “a valle” di essa? Problema questo che, ricadendo sulla potestà pianificatoria dell’Ente Locale, sembrerebbe mettere in discussione non solo l’imperatività delle scelte urbanistiche ma anche la potestà discrezionale della pubblica amministrazione.
Predeterminare in astratto i termini di scambio (economici a carico del privato o a vantaggio dell’amministrazione) ha incontrato recentemente qualche giudizio negativo da parte della giurisprudenza amministrativa. La predeterminazione in astratto dei benefici ed oneri rovescia difatti il principio della pianificazione poiché il contenuto del progetto urbano è determinato dall’equilibrio economico-finanziario dell’intervento e non dalle concrete esigenze del territorio.
Un esempio l’abbiamo avuto dalle ultime notizie trapelate: prima doveva essere un semplice Supermercato che si sposta da una parte all’altra della città, ed ora siamo già invece all’aggiunta di svariati negozi (li hanno chiamati di vicinato ma questi sarebbero tutta un’altra cosa) che fanno pensare ad una realizzazione di uno Shopping Mall vero e proprio.
E poi ancora quell’impianto sportivo che chi come me ha ormai diversi anni sulle spalle se lo ricorda come un impianto polivalente, con le corsie per l’atletica e financo quel terrapieno in terra battuta che era l’ultimo rimasuglio di una curva policentrica per gare ciclistiche, e che ora viene ridotto ad un impianto chiuso e soffocato, con un ingresso laterale seminascosto, in corrispondenza di una ex porta di servizio. Quanto prima invece aveva un ingresso monumentale con l’inconfondibile pennone dal rigore razionalista e che adesso viene ridotto quasi a simbolo fallico.
E poi si è detto che questo intervento va a beneficio del Centro Storico. Avremo modo di vedere se è così. Intanto alla densificazione di questa area fa riscontro la desertificazione delle vie e dei vicoli del Centro Storico, dove le uniche serrande che restano alzate sono quelle dei bar, delle pizzerie , delle paninoteche. Che vanno bene nei Grandi Eventi ma che non alzano il tono alla vita di tutti i giorni di chi abita al Centro.
Già, e bisogna dirlo, la Variante del Centro Storico – nonostante la firma di un archistar – ha prodotto interventi di recupero e riqualificazione residenziale tanto minimali da configurarsi come prodotti di laboratorio della gulliveriana isola di Laputa e la riqualificazione di Piazza del Duomo non ha fatto da traino, come era stato preventivato, all’apertura di nuove negozi e botteghe (ce li ricordiamo i toni roboanti di chi vaticinava un volano inarrestabile per le micro-economie). E pertanto adesso non basta buttarla su un cielo trapunto di stelle (artificiali), che sarà bello, per carità, ma che però è fine a sé stesso.
Se l’operazione di trasformazione urbanistico-commerciale dell’area in oggetto sarà supportata dalle libere dinamiche di mercato avremo modo di vederlo presto. C’è da augurarselo, anche perché avere tra qualche anno un catafalco vuoto in quella zona centrale sarebbe un grosso problema urbanistico-edilizio e sociale, e pertanto alla Società che si è impegnata in questo investimento vanno augurati i migliori successi imprenditoriali.
Però, per concludere, non si può non rilevare come, in una operazione di Programmi Integrati di questo tipo, non è il Piano Regolatore a dettare le regole del gioco ma il Contratto fra le parti e come, in una operazione di questo tipo, non sia la potestà dell’Ente Pubblico a decidere la conformità del suolo quanto invece la parte privata.
Avevano ragione gli esperti di Diritto Urbanistico degli anni 90 del secolo scorso quando, all’apparire dei primi Programmi Integrati, sostenevano che in urbanistica non ci sarebbe stato nulla di più invariante delle Varianti. Purtroppo è l’urbanistica in cui la parte pubblica molla i pappafichi e va verso la deriva.
da Stefano Bernardini
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