I medici, la professione e la legge sul suicidio assistito
Dr.Olivetti: "I medici non sentono il bisogno né la necessità di una nuova legge"
Da Ippocrate in poi (“…non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale…in qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati e mi asterrò da ogni offesa e danno volontario e da ogni azione corruttrice sul corpo degli uomini o delle donne, liberi o schiavi.”), la misteriosa relazione che lega il medico al suo Paziente, è stata fondata sulla sua “natura solidale”, orientata alla tutela della vita della persona ed al tentativo di alleviarne la sofferenza legata alla malattia, indipendentemente da fattori o circostanze esterne (potere, censo, etnia o cultura, gravità della patologia o possibilità di guarigione).
E’ questo “imperativo categorico”, totalmente laico, che per secoli ha guidato la professione medica, e che ne determina ancora oggi il fascino, come testimoniato dalle recenti dichiarazioni del Dr. De Coppi, chirurgo italiano del Great Osmond Street Hospital di Londra che, coinvolto nella cura delle gemelle siamesi senegalesi (Marieme e Ndeye) ha detto: “Noi esistiamo per salvare la vita non per uccidere, … abbiamo rispettato il desiderio dei genitori. Non ce la siamo sentita di richiedere al giudice di togliere la patria potestà. Sono loro che dovranno vivere con le gemelle. Ripeto non è un problema tecnico, siamo tutti padri di figli che amiamo”.
Tale orientamento al bene, in qualsiasi circostanza, rende il medico un riferimento sicuro per il malato e per la comunità, e la sua figura non riducibile ad un ruolo meramente “tecnico”: il paziente certamente richiede competenza e professionalità, ma sempre ed insieme a questo, anche l’assicurazione che quanto gli viene proposto sia per il suo bene.
E’ questo compito “aggiuntivo” che rende ragione di un antico (ma sempre più vero) detto popolare: che per fare il medico occorra una “vocazione”, cioè una disponibilità ulteriore (oltre la “tecnica”) ad entrare in rapporto con la persona malata, a condividere con lui le difficoltà del momento, in qualche modo a soffrire lui, in una prospettiva di un bene maggiore.
Un medico deve accettare ogni giorno questa sfida.
Questa relazione unica ed integrale con il paziente, è una risorsa indispensabile per praticare la professione e per reggere nel tempo la continua necessità di applicazione, studio, dedizione, empatia.
Il grande medico (oltre che Santo) Dr. Giuseppe Moscati, pose nella sala anatomica dell’Ospedale “Gli Incurabili” di Napoli questo motto: “Morte sarò la tua morte” ( Mors ero tua mors)” per ricordare a se stesso ed ai suoi allievi la grandezza della professione, ed insieme la necessita’ di dover sempre, per combattere il limite umano, infondere al malato una indispensabile speranza: che la malattia e la morte non sono l’ultima parola sulla vita dell’uomo.
Lo sviluppo delle conoscenze e della tecnologia in medicina, insieme al modificarsi del contesto sociale e culturale (in sintesi con l’avvento della “modernità”), hanno determinato due fenomeni assolutamente positivi: da un lato la capacità della medicina di risolvere patologie sempre più complesse (creando pero’ nuove condizioni di patologia cronica prima sconosciute), dall’altro una sempre maggiore partecipazione dei pazienti a decidere, insieme al medico, l’opportunità e la disponibilità a percorsi terapeutici, talvolta molto impegnativi.
E’ il cosiddetto “consenso informato”, divenuto ormai una pietra miliare nella pratica professionale, esso non solo non va contro una relazione medico –paziente così come descritta, ma addirittura la identifica come condizione indispensabile per una buona medicina. Questo è essenzialmente il contenuto principale della recente Legge 219 che introduce, solo all’interno di tale relazione di cura, la tematica del testamento biologico.
Chi oggi afferma in modo esasperato l’autonomia del paziente, sino a ritenere necessaria una nuova “legge” sul suicidio assistito, invocando anche in medicina una nuova “tavola di valori” (sull’onda delle cosiddette battaglie sui diritti civili), non comprende cosa significhi esercitare la professione medica, e tende a corrodere la natura “solidale” della relazione medico-paziente, nell’illusorio tentativo di eliminare il limite dalla vita, e la drammaticità delle domande che esso suscita.
Ogni medico sa bene, al contrario, che anche nelle “battaglie “che perde, c’è qualcosa che “vince” il limite: l’accoglienza, la condivisione, l’amore, la fraternità.
Questo è il primo compito a cui il lavoro medico provoca. Non è diventando “padroni dell’ultima ora” che se ne attutisce il dramma per il malato, diventarne “padroni” solo consente un’estraneità ed una solitudine disumane.
In un bellissimo pezzo tratto dallo Zibaldone, Leopardi indicava con un esempio “medico” il contrasto fra un approccio ideologico del reale (“ragione”) e “natura” (realismo ed apertura a tutti i fattori della realtà): “…Questo malato è assolutamente sfidato e morrà di certo fra pochi giorni. I suoi parenti per alimentarlo, come richiede la malattia, si scomoderanno realmente nelle sostanze: essi ne soffriranno danno vero, anche dopo morto il malato… Che cosa dice la nuda e secca ragione? Sei un pazzo se l’alimenti. Che cosa dice la natura? Sei un barbaro e uno scellerato se per alimentarlo non fai e non soffri il possibile. E’ da notare che la religione si mette dalla parte della natura.”
Il nostro lavoro quotidiano, a diretto contatto con persone malate, suggerisce, paradossalmente, che l’aspetto più sistematico che definisce la condizione umana non è tanto quello di essere “segnata” da un limite invalicabile, la morte, di cui la malattia ed il limite fisico sono come un segno. Esiste un altro dato, assai più evidente: la domanda, il desiderio di “guarire”, o in qualche modo, superare, e vincere tale limite. La domanda, cioè, che tale limite non definisca completamente ciò che siamo.
E’ questo grido, spesso inespresso e sempre implicito, che lega il medico al malato, ed il malato all’altro malato, che rende ragionevole ed affascinante tutto quello che oggi facciamo: assistenza, ricerca, utilizzo della tecnologia.
Solo una professione “forte” perché consapevole del proprio compito, potrà continuare a rispondere in modo integrale, cioè professionale ed umano insieme, ai bisogni dei malati. Per questo i medici non sentono il bisogno né la necessità di una nuova legge (né dal Governo né dalla Consulta), essendo la relazione tra loro ed i pazienti, già adeguatamente normata dal codice deontologico.
Dr. Giuseppe Olivetti
Ufficio della Pastorale della Salute Diocesi di Senigallia
Dr. Giuseppe Olivetti, punteggiatura a parte, non le sembra un atteggiamento un filino presuntuoso arrogarsi il diritto di parlare a nome e per conto di un'intera categoria (quella dei medici)?
Sarebbe così gentile da indicarci chi - e in quale sede - le avrebbe conferito questa autorità?
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