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Il Palazzo Gherardi di Senigallia e il nobile cuore del Contino

Viaggio in uno degli edifici storici della città, da luogo di cultura a esempio di declino

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Palazzo Gherardi - foto di Moreno David

Quel palazzotto, enorme e severo, che guarda il fiume con un’infilata di finestroni imponenti e muti, non piaceva granché al giovane ‘contino’ Adolfo Gherardi.

Lui, emulo di Leopardi, come il suo conterraneo marchigiano si chiedeva, con sincero sgomento, se fosse proprio necessario che mio Padre e mia Madre si congiungessero e mi dessero la luce? La vita è un dolore per chi non sa vivere. Ne son felici gli stupidi e i bizzocchi.

Temperamento dolcemente malinconico, il piccolo Folfo. Così lo chiamava l’adorata madre Clementina, nipote del potentissimo Monsignor D’Angennes, confessore del Re Tentenna. Giovane che aveva bruciato la sua vita in qualche bagordo – sia pure, era ricco e spensierato – ma soprattutto in studi e composizioni poetiche, cullando quell’animo di soave gentilezza mascherata dietro una ‘vibrante e corrosiva autoironia’.

Adolfo Gherardi-Benigni di Montenuovo moriva di tubercolosi (o forse, più propriamente, di ‘mal francese’) il 22 agosto 1870, ad appena ventidue anni. Chiuso nella sua villa del Ghiretto, sulle colline di Ostra, porto sicuro nel vagare doloroso di un’anima inquieta. Alla sua morte, lasciò il Comune di Senigallia, sua città natale, erede di un enorme patrimonio: non solo i beni marchigiani ma anche l’eredità materna, cospicue tenute in Piemonte, un palazzo a Torino ed un teatro, il D’Angennes, che insieme al Regio era il tempio della lirica nel capoluogo subalpino ed a suo tempo era stato il focolaio dei moti risorgimentali del ‘21.

E poi, ovviamente, il freddo, neoclassico palazzotto in riva al fiume Misa, sopra i Portici Ercolani, quella ingombrante costruzione che marca ancora oggi un isolato a sé, oltre il vecchio Ghetto Ebraico e prima del Foro Annonario dove si commerciavano le derrate alimentari. Adolfo, prima di morire, redige un testamento e stabilisce che quel mastodontico scherzo dell’architettura, spropositato in una piccola cittadina rivierasca, dovrà essere destinato al progresso sociale e culturale dei ‘giovani meritevoli e senza mezzi’.

I senigalliesi di oggi, Palazzo Gherardi, se lo ricordano ancora per due motivi: fu il (Regio) Liceo Perticari, l’unico liceo classico cittadino e rinomato in tutte le Marche ma fu anche, sino alla sua chiusura, la sede della locale Biblioteca Antonelliana. Quanti pomeriggi estivi, uggiosi e piovosi, passati, proprio come il contino Adolfo, a scoprire la miniera del vecchio Mezzanino: si partiva con Verne sul Rio delle Amazzoni o magari alla caccia di una Meteora imprendibile; con Salgari si combattevano gli inglesi, riconquistando Mompracem palmo a palmo, quasi che quel polveroso Mezzanino si trasformasse, in effetti, nella soffitta della scuola in cui Bastian avrebbe incontrato, infine, l’Infanta Imperatrice prima che Fantàsia scomparisse per sempre, inghiottita dal Nulla Eterno.

Che ne è, oggi, di Palazzo Gherardi? Di quando in quando, l’ennesimo crollo. Qualche cornicione, dalle finestre austere che Adolfo non amava, cade giù per strada, creando non pochi problemi. Ultimi episodi di una lunga sfilza di deprecabili incurie che hanno condannato uno dei più begli immobili di Senigallia ad un lento, inesorabile ed impietoso declino.

Sin dal 2001 quando, a seguito del terremoto, fu dichiarato pericolante: si trasferì il Liceo, si spostò la Biblioteca. Ma non si fece nulla per rimetterlo in sesto. Rimane, tra le tante proposte, quella di utilizzare l’enorme edificio per farne un Museo per la Città, ricco di una Sala Conferenze ove sorgeva l’Aula Magna del Liceo e un intero piano dedicato all’immortale fotografo delle Marche contadine e dei Pretini, il maestro Mario Giacomelli.

Già, Mario Giacomelli. Il senigalliese con il sigaro sempre in bocca, la sciarpa nera, titolare di una tipografia ‘dietro al Corso’. Il sempliciotto di cui il MoMa conserva religiosamente gli splendidi scatti in bianco e nero. Ogni sabato mattina, o domenica, Giacomelli si recava al Cimitero Maggiore delle Grazie e – l’immancabile sigaro in bocca – deponeva una rosa rossa sul monumento funebre del contino Adolfo.

“Perché la rosa rossa è simbolo di nobiltà d’animo,” diceva, “e il Conte ha sempre protetto quelli come me, quelli poveri che hanno cercato di farsi una strada.”

Gaspare B. Cremonini

Commenti
Ci sono 2 commenti
Franco Giannini
Franco Giannini 2018-09-17 16:29:19
Una bella foto veramente, fatta con parole deI IERI, di OGGI e di quel DOMANI che dovrebbe essere solo presumibile, ma che però si evince da una certa forma di sospetto immobilismo... anche perché il problema sul "domani" immagino che, come è costume dei nostri giorni, non sia tanto quello del recupero dello storico Palazzo, ma su quale sia la priorità qualora dovesse prendersi un'iniziativa concreta. Immagino che questa verterà non certo sul chi prenderà calcina e cucchiara, ma su chi si impossesserà di un microfono per imputare di chi sia la colpa dell'incuria, di chi spetta l'onere dei lavori e chi quello di finanziarlo. Intanto il mondo dell' "Ultrà" politica, quella meno intelligente, ma più gestibile, una parte si schiererà dalla parte del Corso e un'altra in piazza Simoncelli, armati (fortunatamente) unicamente di fischietti, cappellini, e bandiere, per fare come sempre, solo tanto chiasso lasciando tutto come si trova. Allora un consiglio (anche perché non mi costa nulla!) quando passate sulla via gettate un occhio in alto, sui coppi e sui cornicioni... è tutto monitorato (o almeno dovrebbe!), ma non si sa mai...
favi umberto 2018-09-18 07:31:33
Bravo Cremonini e Bravo Giannini!
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