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Per la rubrica “Screenshot”, elementi di linguaggio cinematografico: la fotografia

Alcune suggestioni di Stefania Piantanelli per avvicinarci a quegli aspetti del film che ci consentono di gustare meglio la visione

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Una scena di "Sussurri e grida"

Mi è capitato spesso, uscita da una proiezione, di sentir dire: “Non so stabilire se è un buon film, non sono esperto/a, magari se ne sapessi di più di regia o fotografia…”.

Partendo dal presupposto, per me essenziale, che un’opera come quella cinematografica, complessa quanto si vuole, va innanzitutto fruita con la pancia e con la testa – dunque vissuta in maniera soggettiva, e non con il filtro di competenze tecniche – penso che la prima cosa da sapere è se il film ci sia piaciuto o meno. Poi potremo analizzarne i motivi, che saranno sia soggettivi che oggettivi.

Edward Lachman sul set di "Carol"Il cinema nasce come spettacolo popolare – anche se, essendo una libera espressione artistica, ha esplorato molti orizzonti e si è lanciato in sperimentazioni talvolta ostiche da comprendere – e dunque ha senso partire innanzitutto dal proprio bagaglio emotivo e culturale per giudicare un film. Ma può aver senso anche ampliare quel bagaglio di conoscenza, se la curiosità ce lo suggerisce, per avere più strumenti di interpretazione dell’opera. Il cinema è un linguaggio multiforme, che ne utilizza e contiene molti altri, ed è proprio in questo che risiede la sua enorme potenzialità comunicativa.

Senza alcuna pretesa di esaustività, oggi mettiamo il focus su uno di questi elementi: la fotografia cinematografica – la scrittura con la luce, come si evince dall’etimologia, che sintetizza la peculiarità tecnica del cinema in maniera efficace e poetica. La fotografia cinematografica è semplicemente questo: l’illuminazione del set, la luce che entra nell’inquadratura. E poco importa allo spettatore, quanta abilità e quante ore di lavoro servano sul set per impressionare in modo corretto una pellicola, o per ottenere lo stesso risultato in digitale.  Non c’è virtuosismo tecnico che valga, se non è al servizio della narrazione che scorre sullo schermo, se non trasmette l’atmosfera e l’emozione che la storia richiede. È solo in questo modo che una capacità tecnica diventa linguaggio, che assume valore agli occhi del pubblico, e che ci autorizza a chiamare Autore, il Direttore della Fotografia.

Una scena di "Carol"Vi è mai capitato di sentirvi frustrati per una foto fatta a un tramonto, senza riuscire a catturare tutta la gamma dei colori del cielo, né quella sensazione impalpabile di presenza/assenza di una stella che sta scomparendo dietro la linea dell’orizzonte? Non siamo delusi perché verremo valutati da un punto di vista specialistico, siamo delusi perché quando mostreremo la foto non renderà esattamente l’emozione che ci ha fatto fermare e decidere di scattare. A me è capitato.

Quindi quando diciamo che un film ha un’ottima fotografia è perché ha saputo rendere l’atmosfera che era scritta sulla pagina di sceneggiatura. Giuseppe Rotunno, direttore della fotografia per Fellini, Visconti, Altman, diceva: “È facile scrivere un’alba livida, ma come fare a tradurla in immagini?”. Il grande lavoro del Direttore è proprio saper stare in equilibrio tra la competenza tecnica e la sensibilità creativa. Ed è per questo che un connubio ben riuscito tra Regista e Direttore viene spesso mantenuto a lungo.

Una scena di "Lontano dal paradiso"Ingmar Bergman e Sven Vilhem Nykvist  fecero 20 film insieme: ne cito uno su tutti,  Sussurri e grida, per la potenza visiva ottenuta attraverso tre colori, il bianco, il rosso, il nero. Ovviamente questo effetto non sarebbe stato possibile senza un lavoro di concerto con scenografo e costumista. La stessa cosa accade in Tutto su mia madre, di Pedro Almodovar, in cui gli arredamenti e i costumi in forti tinte pastello danno immediatamente l’idea del melò e sottolineano la cifra stilistica tipica del regista. Edward Lachman ha reso magnificamente le atmosfere dell’America borghese degli anni ’50 per Todd Haynes in Lontano dal paradiso e in Carol (quest’ultimo girato in super 16 mm per ricreare la grana di un 35 mm dell’epoca e per conferire una nota particolarmente  nostalgica e rarefatta alle immagini). E anche qui giocano un ruolo fondamentale i colori scelti per le scenografie degli interni e per i costumi. Vittorio Storaro, maestro di fama internazionale, ha curato la fotografia di quasi tutti i film di Bernardo Bertolucci ed è per me impossibile sceglierne solo uno come esempio. La lista potrebbe continuare a lungo, perché il cinema è un lavoro di squadra e quando è ben fatto ne esce un prodotto talmente armonico, in cui tutto fila così liscio, da apparirci semplice, eppure la semplicità è un risultato complesso da ottenere.

Storaro e Bertolucci sul set de "Il conformista"La fotografia cinematografica utilizza la giusta combinazione tra scelta del supporto (il tipo di pellicola o il tipo di sensore digitale), degli obiettivi (e dei filtri) e delle luci.  Può essere naturale, realistica, o può essere una fotografia pianificata nei minimi particolari, con lampade e accorgimenti di ogni genere. Entrambi i tipi di illuminazione possono risultare eccellenti, se hanno coerenza con la storia, se aggiungono valore ai sentimenti e alle azioni dei personaggi.

Per gustare meglio un film, è utile tenerci in esercizio e guardarne tanti, di tutti i tipi, e chiederci attraverso quali canali ci viene trasmesso un certo stato d’animo. Non sono solo le vicissitudini dei personaggi a coinvolgerci, ma anche il modo con cui ci vengono presentate, ad esempio con la musica o con il silenzio; con campi lunghi o con primi piani, e, naturalmente, con la luce che illumina quei volti, quei paesaggi, quelle stanze che ci portiamo nella memoria una volta usciti dalla sala.

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