Serie TV, sì? Serie TV, no? Un’analisi di Stefania Piantanelli, con un occhio a Godard
Handmaid's tale (Il racconto dell'ancella): quando una serie tv è cinema di alto livello
“La televisione crea oblio, il cinema crea ricordi”, diceva all’incirca così Jean-Luc Godard negli anni Sessanta. Ma chissà cosa penserebbe oggi delle serie tv? Di quelle che compaiono nei dizionari di cinema e che con la televisione hanno ben poco da spartire?
È più o meno agli inizi del millennio che si sviluppa un nuovo modo di raccontare e un nuovo modo di fruire della serialità: non più quello che passa il palinsesto televisivo, bensì scelta individuale di cosa guadare e quando; non più attesa settimanale dell’episodio, bensì visioni-abbuffata (binge watching).
Ci sarebbe molto da dire sul nostro bisogno di alimentare dipendenze, o meglio, di sviluppare un’affezione duratura verso i personaggi, ma oggi preferisco entrare nel dettaglio di una serie che mi ha rapito cuore e mente, e che no, non crea oblio; risulta indimenticabile – sconvolgente a detta di molti – e lascia lunghi strascichi di riflessione.
Handmaid’s Tale è, insieme a Black Mirror, un esempio eccelso di quella serialità che ha che fare con un futuro distopico. Una società futura disumanizzata e angosciante ci è già stata ampiamente raccontata da letteratura e cinematografia (Metropolis; 1984; Fahrenheit 451; Arancia meccanica; Blade runner; Matrix, solo per citarne alcuni) eppure Il racconto dell’ancella, ideato da Bruce Miller, ha una perfezione di messa in scena che non gli fa temere il confronto.
Iniziamo dal linguaggio. La protagonista si chiama June, ma noi lo scopriamo solo più tardi, perché il suo nome è proibito e ci viene presentata come Difred. Difred indica l’appartenenza a Fred. E di Difred ce ne sono tante: Diglen, Diwarren, Diwayne, perché sono tutte handmaids, non più donne, ma ancelle, schiave numerate come bestiame e adibite a una funzione precisa: garantire la discendenza alla classe dominante, i Figli di Giacobbe (Giacobbe: colui che soppianta; interessante riferimento biblico insieme a numerosi altri).
A Galaad, capitale del nuovo regime monoteocratico, molte sono le cose vietate e altrettante quelle obbligatorie, a partire dal saluto: “- Sia benedetto il frutto. – Possa il Signore schiudere”, suggerendoci in una battuta la centrale importanza della gestione dei corpi femminili, destinati alla Cerimonia.
La configurazione di questo assetto sociale priva le donne di qualsiasi autonomia e le riconsegna ai ruoli tradizionali: ci sono le Signore dell’elite (privilegiate, ma non per questo più libere), ci sono le Marte, le Zie e le Ancelle. Ognuna è destinata a un compito specifico e ineluttabile; tutte sono controllate dai Custodi, i militari dell’ Esercito dell’Occhio. Grazie a pochi elementi linguistici veniamo trascinati quasi con ferocia in una situazione di straniamento e disagio che aumentano con il progredire della narrazione.
Margaret Atwood, dal cui romanzo del 1985 è tratta la serie, inventa una nuova lingua che si affianca a quella usuale, ricordandoci quale efficace strumento di potere sia il controllo della comunicazione. Con la censura e con l’imposizione di una precisa terminologia, si cancella la storia, quella individuale e quella collettiva: non possediamo più le parole per raccontare né per ricordare.
La sceneggiatura dimostra di aver colto la lezione del romanzo e offre dialoghi eccellenti sistemati in un impianto narrativo fatto di scoperte graduali, di flash back e colpi di scena ben calibrati.
Altrettanto potente e significativo è l’utilizzo dei colori, soprattutto attraverso la scelta dei costumi. Sono due le tinte dominanti, il rosso porpora e il verde/blu. Il colore caldo del sacrificio (ma anche della lotta) e il colore freddo del controllo dello status quo. A cui si aggiunge il bianco delle cuffie delle ancelle che suggerisce più assenza (assenza di volontà e pensiero, visto che sono collocate sulla testa) che purezza. In definitiva tutti/e portano una divisa, e nonostante il dualismo evidente tra dominanti e dominati, emerge un più generale annullamento dell’identità individuale in favore dell’omologazione e della subordinazione.
Attraverso uno stile elegante e un’ottima fotografia, passiamo dalla luce livida di scene crude e brutali, alla luce morbida di situazioni nostalgiche e delicate. Una regia sapiente, fatta di campi lunghi alternati a primissimi piani, in cui la camera indaga minuziosamente i volti e i silenzi, restituendoci ogni microespressione, entriamo nelle emozioni dei personaggi, sentiamo il loro terrore per la perdita della libertà e la flebile speranza di una rivalsa.
La storia di June (una straordinaria Elisabeth Moss) interpella le nostre coscienze, ci costringe a interrogativi inquietanti su un futuro così prossimo da apparire presente. Quale grado di umiliazione si può arrivare a sopportare prima di aspirare a una disobbedienza? A un riscatto?
La prima stagione di Handmaid’s tale fa venir voglia di leggere il libro in attesa della seconda e ci chiede di svegliarci: “Stiamo dormendo. Quando hanno incolpato i terroristi e sospeso la Costituzione non ci siamo svegliati. È temporaneo, dicevano…”.
Probabilmente questo genere di televisione a Godard piacerebbe.
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