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Qualche riflessione sulla sanità, non solo del senigalliese

Intervento di alcuni cittadini: "Il vero problema sono i soldi. E il rapporto tra pubblico e privato"

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La Sinistra in Festa 2017
L'ospedale di Senigallia

A nome del gruppo di cittadini che si incontrano per discutere del tema “sanità pubblica”, in questi giorni ancor più attuale vista la questione relativa alla paventata chiusura dell’U.T.I.C. dell’Ospedale di Senigallia, dopo il primo intervento del 21/08/2017, svolgiamo queste riflessioni ad alta voce e diamo alcuni dati a disposizione dei cittadini che intendono formarsi una propria opinione. Buona lettura.

DI COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO DI SANITÀ?

Non solo la domanda è legittima, ma a ben guardare è la sola che ci dovremmo porre: di cosa stiamo parlando? Di malati, di cure, di medici, di medicine, di assistenza, di ostetricia, di rianimazione, di Utic, di Uoc, di Uos, insomma di tutto fuorché del vero motivo di tanto parlare: i soldi.
Ossia quei mezzi simbolici di scambio che 1) la politica, 2) l’impresa, 3) gli operatori, 4) i bisognosi di cure, continuano a ignorare nel dibattito pubblico, malgrado le loro categorie siano sommamente interessate a: 1) come rastrellarli e spenderli, 2) come guadagnarli e farne profitto, 3) come camparci dignitosamente, 4) come farli bastare o come sopravvivere quando non ci sono.

1) La politica. Sono anni che governatori e governanti lavorano per consegnare la sanità pubblica ai privati. Loro negano, però lo fanno: e questo si capisce anche dal fatto che non parlano di soldi. Un pudore sospetto. Perché svendono ai privati? Perché il sistema sanitario non è roba loro se non per una quota unitaria di cittadinanza; perché noi tutti glielo abbiamo consegnato con il voto; perché adesso nessuno glielo impedisce. Lo fanno cedendo quote di mercato, dequalificando il pubblico a favore del privato, svendendo al peggiore offerente. In cambio di cosa? Di soldi. Perché adesso è ufficiale: imprenditori privati della sanità o interessati a gestioni sanitarie hanno sostenuto finanziariamente la campagna elettorale di Ceriscioli; e adesso lui stesso si tiene la competenza della sanità (in parte delegata, ma con cautela, al presidente della commissione sanità) in modo da poterli ricambiare con gli interessi per l’appoggio ricevuto.

2) L’impresa. Sappiamo che alcuni imprenditori hanno goduto di convenzioni favorevolissime e della sostanziale resa del servizio pubblico alla propria affermazione. Adesso si sono arricchiti e, consci della propria forza economica, sono diventati una lobby potente capace di orientare le decisioni politiche in modo risolutivo a proprio favore.

3) Gli operatori. Dipende. Quelli apicali in qualche caso riscuotono anche incentivi-premio per ogni azione di depotenziamento del settore pubblico e riduzione delle prestazioni di cui si rendono strumento; altri sostengono la sanità pubblica perché ci credono, senza trascurare, specialmente nei ruoli amministrativi, che un contratto pubblico è tuttora più rassicurante rispetto a uno privato.

4) I bisognosi di cure. Qui ci sentiamo di parlare in modo diretto, perché è a questo quarto stato che noi tutti apparteniamo. Per dire innanzitutto che a noi interessa poco o niente quello che fanno i partiti o il ceto prevalente. Affari loro. Si fanno finanziare dai privati? Perché no? Del resto i partiti (lo dice la parola stessa), malgrado sostengano di perseguire gli interessi di tutti, sono organizzazioni di parte e curano interessi di parte. Della propria parte. Lo devono però dichiarare: con la piena operatività della legge 13/2014 che elimina i rimborsi pubblici, i movimenti di denaro vengono registrati in un albo; e, grazie a una norma del garante, il consenso al trattamento dei dati deve essere esplicito. È ben vero che ci sono trucchetti che favoriscono l’anonimato, ma in termini generali non dovrebbe essere un mistero sapere chi aiuta chi; a quale scopo, invece, resta cosa non detta. Tocca a noi del quarto stato fare due più due. E se anche i responsabili della politica regionale e comunale negano serratamente che stanno lavorando per fare spazio alla privatizzazione della sanità, vediamo che l’azione di governo tende invece a indebolire le strutture pubbliche diluendone le qualità e le funzioni su un territorio vasto, in modo da lasciare campo alle private, almeno per la parte delle prestazioni che risulta più redditizia per i loro partner. Operazioni simili a questa hanno creato da tempo un terreno estremamente favorevole alle risoluzioni attuali e già portato risultati a chi vi ha interesse: dove andate voi se vi serve di fare in tempi ragionevoli un ecodoppler o un pap-test, se non a pagamento in una clinica privata?

Di cosa vogliamo parlare, allora, se non di soldi? La sola cosa che si sente dire è che il sistema sanitario deve risparmiare.
Anche qui bisognerebbe distinguere: forse gli alti costi della sanità sono dovuti a cattiva amministrazione; in questo caso il problema sarebbe spendere meglio, non meno. In un servizio gestito bene le economie servono per fare più cose e meglio. Ma risparmiare sulla sanità mai al mondo! Non è la salute la cosa più importante?

Consideriamo insieme qualche dato. La spesa sanitaria pro capite dell’Italia è stabilmente al di sotto della media europea (Rapporto Meridiano Sanità elaborato da The European House – Ambrosetti, 2015); nella classifica siamo quasi in fondo. La spesa sanitaria pro capite nelle Marche è al di sotto della media nazionale, di modo che la nostra regione si colloca al sedicesimo posto tra le ventuno regioni italiane. E se è vero che dal 2003 le spese sanitarie in Italia sono andate aumentando fino a toccare un + 38,1%, è anche vero che nelle Marche abbiamo avuto una dinamica meno intensa nell’aumento della spesa: il 35,6% (Confartigianato Marche 2014).

Il nuovo assetto a cui sta lavorando la Regione – per quanto ancora non ben definito – è invece orientato verso la concentrazione per quanto riguarda i servizi di alta specializzazione, ma di riduzione dei servizi sanitari di base entro l’area vasta. Le prestazioni sono distribuite e le patologie frammentate: gli ospedali di rete non sono effettivamente in rete: siamo noi a doverci spostare a Jesi, a Fabriano, a Senigallia. Più che una rete è un flipper. Nasceremo a Jesi. Il cuore ridotto a pezzi tra le tre città, a Senigallia solo riabilitazione. E tanto al privato. Il contenimento della spesa sanitaria avrebbe luogo gradatamente attraverso una riduzione dell’operatività del presidio locale e grazie (prego) alla contemporanea espansione del sistema privato convenzionato.

A questo proposito un’analisi costi/benefici chiarirebbe molte cose. Ecco perché chi ha bisogno di cure non si mette a ragionare in astratto se sia meglio la sanità pubblica o la privata. A lui interessa la sanità che cura e guarisce. E che infonde fiducia. In generale preferirebbe il pubblico che funziona. I gestori della cosa pubblica dialogano con i privati? Affari loro, purché contestualmente si ricordino gli sperimentatori della sanità da turismo e da asporto, di fare convenzioni in cui viene caricato sulle cliniche private un congruo numero di persone che non potrebbero affrontare le spese della sanità privata; e non si tratterebbe soltanto di indigenti, ma della maggior parte di noi cittadini attivi che paghiamo il Servizio Sanitario Nazionale e le addizionali regionali.

Perché questo è in effetti il problema del rapporto tra sanità pubblica e privata: che mai la privata si addosserà una spesa che non dà ritorni, e che sempre ci sarà un pubblico che compenserà le spese. Noi del quarto stato “bisognosi di cure” fino ad ora abbiamo contribuito per tenere in piedi un sistema sanitario comprensivo della salvaguardia della salute, della prevenzione delle malattie, dell’assistenza domiciliare e dell’interezza delle cure. La nuova situazione però produce un effetto piuttosto preoccupante: se prima il privato era sussidiario del pubblico, adesso è il pubblico a rendersi progressivamente sussidiario del privato. Fosse così (ma a quanto pare la direzione è proprio questa) tutti noi avremmo molta difficoltà a capire perché, e in quale misura, paghiamo un sistema sanitario comprensivo dell’utile d’impresa e poi lo paghiamo di nuovo come tariffa della prestazione. Non solo non avremmo abbastanza soldi per curarci: addirittura stenteremmo a capire la Costituzione Italiana, là dove scrive (art. 32) che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. È ben vero che, rispetto all’andamento delle cose, la nostra carta fondamentale sempre più ci appare amaramente e purtroppo un memoriale nostalgico o il taccuino di un sovversivo ingenuo e romantico di altri tempi.

 

da Riccardo Pizzi
Gruppo di Informazione sull’ospedale di Senigallia

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