Lo studio Cingolani-Giovenali e la sua storia: se ne è parlato a Senigallia
Testimonianza di Umberto Solazzi durante le giornate Mibact
Tra gli interventi della Giornata di Studio sulla Fotografia marchigiana, promossa dal Mibact e tenutasi a giugno alla Rotonda a Mare di Senigallia, si segnala quello di Umberto Solazzi, che ha contribuito, attraverso una preziosa testimonianza, alla ricostruzione della storia dello studio fotografico Cingolani-Giovenali.
L’intervento di Solazzi sarà in questi giorni pubblicato sul sito ufficiale del Ministero dei Beni culturali, nella registrazione video integrale, realizzata da Anna Mencaroni. Ecco il testo del racconto di Umberto Solazzi, che riassume storia, tecniche, sigla stilistica, evoluzione dell’importante studio fotografico senigalliese, attivo dagli anni Venti ali anni ottanta.
Solazzi racconta anche come la maggior parte del patrimonio, costituito dai negativi su vetro, artisticamente ritoccati a mano, sia stato prima messo in salvaguardia dall’alluvione e poi catalogato e restaurato dai fotografi Alfonso Napolitano e Patrizia Lo Conte. Gli storici materiali sono oggi conservati presso il laboratorio di restauro del Musinf, operante con la collaborazione della Fondazione Senigallia.
Ecco il testo dell’intervento di Solazzi: “Nel 2014 e precisamente il 3 maggio, come tutti sapranno, Senigallia è stata colpita dalla alluvione, dovuta alla esondazione del fiume Misa. Tra le abitazioni invase dall’acqua e dal fango, anche l’ex studio fotografico Cingolani – Giovenali dove era custodito un importante archivio fotografico che andava dagli anni ’20 agli anni ’80 del secolo scorso. La signora Giovenali ed il marito hanno rischiato la vita, rimanendo per diverse ore in balia dell’acqua e della melma. Sono stati poi salvati per fortuna, dai vigili del fuoco. Ma tutto il materiale fotografico e naturalmente anche tutte le suppellettili dell’abitazione sono stati sommersi dall’acqua limacciosa. Il prof. Bugatti, direttore del Musinf, che è il civico museo d’arte moderna, appena avvertito del fatto,conoscendo il rilievo storico dello studio fotografico, ha indirizzato sul posto un equipe di collaboratori esperti del settore fotografico per recuperare tutto quello che era possibile. Per alcuni giorni, immersi nel fango, questi hanno recuperato un immenso patrimonio fotografico della nostra città. Con pazienza certosina, Alfonso Napolitano e Patrizia Lo Conte, protagonisti in prima persona del salvataggio nel momento dell’alluvione, entrambi bravissimi fotografi, in uno spazio museale del Musinf, appositamente e rapidamente da loro adattato a laboratorio di restauro, hanno anche ripulito e ricostruito quasi l’80% del materiale, riconsegnando a Senigallia, una parte della sua storia, attraverso l’organizzazione presso il Musinf di quello che definirei il nuovo Archivio fotografico Cingolani – Giovenali. Si tratta di un vasto corpus di fotografie, che sono una vera e propria testimonianza visiva di un mondo e soprattutto di una città che non esistono più. Sono lo spaccato di una società e rappresentano quello che eravamo, le nostre radici rivissute attraverso volti, abiti o acconciature ricercate. Dallo studio fotografico Cingolani – Giovenali sono passate intere famiglie che venivano a farsi immortalare in occasione di grandi eventi, come matrimoni, comunioni o anniversari. E farsi fotografare dalla Cingolani era per allora una occasione importante, un vero e proprio status symbol.
Vi chiederete perché sono stato chiamato a sintetizzare questa storia e che cosa c’entro in tutto questo. La risposta è semplice. I miei primi dieci anni di vita li ho vissuti dentro quello studio fotografico perché mia madre dal 1942 al 1949 – io sono nato nel 1946 – lavorava come fotografa proprio li, insieme alla signora Cingolani. In seguito ha abbandonato la fotografia per lavorare nell’azienda di mio padre. Ma la signora Rina Cingolani, per me rimasta Tata, non avendo figli, si è presa cura di me, tenendomi con lei nel suo studio. Così ho avuto modo di vedere come si fotografava ‘in posa’; come si sviluppavano le lastre ed i rullini – oggetti ormai quasi sconosciuti – nella camera oscura; come si ‘ritoccavano’ i negativi prima di stamparli. Si trattava del procedimento antesignano dell’odierno Photoshop, solo che non si utilizzavanaturalmente il computer. Infine l’asciugatura delle stampe ed il timbro a freddo, compito che mi era stato affidato e che era di mia stretta competenza. ‘Attento alle dita’, questa la raccomandazione che mi rivolgeva la Tata nel compiere questa operazione. Paola Giovenali subentrò poi a mia madre, continuando a lavorare con la Cingolani, fino a che la signora Rina non decise che era tempo di andare a riposo. Andata in pensione nel 1962 a 71 anni, il 3 gennaio del 1964 – due giorni dopo il suo 73simo compleanno il marito, dottor Mario Sbriscia, la trovò sul letto priva di vita. Un maledetto infarto se la portò via. Lei che si vantava di non essere stata mai male quando lavorava. Eravamo in pieno boom economico e numerose famiglie anche del nostro entroterra continuavano a venire allo studio perfarsi fotografare dalla Giovenali, perché lei era la continuazione della Cingolani: l’arte di fotografare non era andata perduta. Lo studio fotografico era grande, una camera oscura blindata con due porte, per non fare entrare la luce; una stanza del ritocco, con due ritoccatoi con matite e pennellini, asciugatoio elettrico. La stanza per fotografare era enorme, circa dieci metri di lunghezza, tre di altezza e quattro di larghezza; il soffitto e una parete laterale di vetro, lo sfondo era bianco; se serviva scuro, si tirava una tenda di velluto nero. Nella stanza c’erano due gradoni di legno, finto marmo grigio dove venivano sistemati i gruppi, due ferma-testa per i protagonisti e se servivano, diverse sedie in stile Ottocento. Per avere più o meno luce viva, si tiravano le tende del soffitto o della parete. La luce artificiale quando serviva, era data da quattro lampade, due enormi e due più piccole. La posa era un rito con la Cingolani. Tale rimase con la Giovenali. L’unica cosa che cambiò in quello studio fu la macchina fotografica: da quella di legno con tendina e pompetta su tre ruote di ferro, a quella più moderna in acciaio, con maniglie e ruote di gomma. Negli anni ’70 la vita e le abitudini degli italiani stavano cambiando in modo veloce. Cosi anche gli studi fotografici classici lasciarono il posto al nuovo modo di fotografare: non più negli studi, in posa, ma direttamente nei luoghi dove si svolgevano le cerimonie; era il fotografo che andava ad immortalare l’evento. Addio ai vecchi taxi neri e verdi che accompagnavano gli sposi e addio alle manciate di confetti che gli sposi regalavano ai ragazzini fuori dallo studio fotografico. Lo studio rimaneva ancora per chi desiderava una ‘bella foto in posa’: il ritratto. Ma purtroppo ebbe vita molto breve. Chi non si adeguava chiudeva. Concludendo, quello che ci ha lasciato l’archivio Cingolani/Giovenali non è solo un pezzo della nostra storia della fotografia che va ad aggiungersi con merito alla storia fotografica di Senigallia, con la Scuola del Misa di Cavalli, Giacomelli, Ferroni, Malfagia, Gambelli; ma anche e soprattutto la nostra storia in un fermo immagine, il ritratto che parla al nostro cuore che fa riaffiorare i nostri ricordi, i nostri sentimenti. Un archivio che a pieno titolo può essere inserito nel progetto di ‘Senigallia città della fotografia’.
Guardi la fotografia, chiudi gli occhi … e vedi!”
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