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Dopo il neorealismo: l’Italia della commedia e del cinema d’autore

Introduzione alla storia del cinema: neorealismo rosa, commedia all'italiana, Antonioni, Visconti e Fellini

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Una scena del film La Dolce Vita di Federico Fellini

Fu attraverso Coco Chanel (con la quale allora aveva una relazione) che Luchino Visconti arrivò a conoscere Jean Renoir, regista francese che lo iniziò alla carriera cinematografica chiamandolo a Parigi nel 1936 per fargli da capo assistente ai costumi sul set de “La Scampagnata”. In quest’ultimo film è possibile rintracciare qualche radice del Neorealismo, movimento di cui Visconti sarà uno fra i massimi esponenti. Il cineasta milanese infatti, una volta tornato in Italia ed entrato in stretto contatto con i collaboratori della rivista “Cinema” metterà in cantiere il suo primo film da regista: “Ossessione” liberamente tratto dal romanzo “Il postino suona sempre di volte” di James Cain.

Nel frattempo aderirà al partito comunista italiano, allora illegale. Nel 1948 sarà la volta di “La Terra trema”, film crudo quanto poetico che – trasposto con uno stile quasi documentaristico dal romanzo “I Malavoglia” di Giovanni Verga – si proporrà di fare una denuncia delle condizioni sociali delle classi più povere. Questo è uno dei pochi film italiani interamente parlati in dialetto dagli attori (peraltro tutti non professionisti).

Arrivano gli anni Cinquanta e la ripresa economica del paese fa sì che gli spettatori diventino sempre più insofferenti alle tematiche del Neorealismo, come la Guerra e la Povertà. Un pubblico questo che vedremo letteralmente impazzire per film meno crudi e drammatici, appartenenti ad un Neorealismo più blando, anche definito Rosa, questo per la grande importanza che ebbero le sue protagoniste femminili, formose e quasi sempre di origine popolare (molte uscite da Miss Italia 1947, del tutto digiune di recitazione) che negli anni successivi sarebbero diventate grandi dive del cinema italiano come Lucia Bosè, Gina Lollobrigida, Eleonora Rossidrago, Silvana Mangano, Sophia Loren, Silvana Pampanini, ma anche per il suo distinguersi come un cinema della speranza sulle orme del quale andrà a svilupparsi un genere cinematografico tutto nostrano di straordinario successo: la commedia all’italiana.

Tra le caratteristiche principali del Neorealismo rosa ricordiamo l’uso delle ambientazioni autentiche e di attori spesso non professionisti, il bianco e nero, il dialetto e la consuetudine di sfiorare questioni sociali; punti questi in comune con il Neorealismo più classico, dal quale si distingue totalmente nel momento in cui va a raccontare storie sull’Italietta che pur povera riesce ad uscire dalla crisi (del dopoguerra). I suoi esponenti più celebri furono Luigi Comencini, con i suoi fortunatissimi “Pane, amore e fantasia” e “Pane, amore e gelosia”, poi ancora Luciano Emmer e certamente Renato Castellani, che dimostrando una grandiosa abilità nel coniugare la commedia popolare ed i motivi realisti arriverà ad influenzare i registi maggiori della commedia all’italiana, uno a caso? Il milanese Dino Risi.

Quella della commedia non fu l’unica strada intrapresa dai cineasti italiani per dare l’addio al Neorealismo ed entrare a tutti gli effetti in un’epoca completamente nuova dal punto di vista tanto sociale quanto culturale. Dalla metà degli anni Cinquanta si iniziano ad affrontare anche tematiche esistenziali, e gli stili dei registi si fanno più introspettivi che descrittivi.

Ad imporsi in questo momento saranno tre grandiosi autori, che contribuiranno ad influenzare e modificare fortemente il cinema moderno: Michelangelo Antonioni, Federico Fellini e ancora una volta Luchino Visconti che dopo due grandiosi capolavori neorealisti come “Bellissima” (1951 – tratto da un soggetto di Cesare Zavattini con due interpreti d’eccezione come Anna Magnani e Walter Chiari, con il quale tenta di analizzare e denunciare la spietatezza del dietro le quinte cinematografico e della fama e brama di successo/ricchezza da parte delle classi meno abbienti) e “Senso” (1954 – ispirato ad un racconto di Arrigo Boito. Viene giudicato un “tradimento” dell’autore al Neorealismo a causa dell’uso del colore e dell’estrema cura del dettaglio scenografico) regalerà al mondo una delle perle del cinema mondiale degli anni Sessanta: “Rocco e i suoi fratelli”, un film che sceneggiato con i toni della tragedia greca dalle abili penne di Suso Cecchi d’Amico e Vasco Pratolini confronterà la miseria meridionale (un Sud ancora denso di valori) con la grigia civiltà industriale del Nord. Questo film provocherà enormi polemiche a causa di alcune scene ritenute eccessivamente crude e violente, come lo stupro di Annie Girardot, ma un altro motivo d’accusa sarà sicuramente la posizione politica del regista, spostata fortemente a sinistra, tanto da essere soprannominato Il conte rosso.

Anche Michelangelo Antonioni non impiegò molto tempo per imporsi come un autore di riferimento per tutto il mondo della settima arte; sarà con “Cronaca di un’amore” (1950) che il regista ferrarese segnerà una frattura con il Neorealismo aprendo una nuova stagione cinematografica. Nello stesso anno, esordisce sul grande schermo al fianco di Alberto Lattuada un giovane Federico Fellini, che già in “Luci del varietà” concentrerà uno fra gli elementi più ricorrenti e caratteristici del suo cinema futuro: il mondo dell’avanspettacolo ed il suo decadimento. I primi film da regista “solo” saranno “Lo sceicco bianco” (1952) ed “I Vitelloni” (1953).

A partire da “Lo sceicco bianco”, anche grazie alla collaborazione con Ennio Flaiano, il regista riminese inventa uno stile nuovo, completamente estroso, umoristico quanto onirico, una sorta di realismo magico che sarà la sua firma riconoscibile per tutta la carriera. Altri sodalizi felici per l’opera di Fellini, saranno quello con Tullio Pinelli (scrittore per il teatro incontrato negli anni ‘40, con il quale Federico firmerà come sceneggiatore i primi grandi successi di Aldo Fabrizi) e naturalmente quello con il compositore Nino Rota. Per ottenere il primo grandioso successo di critica e di pubblico tanto per Fellini quanto per Rota, si dovrà attendere il 1954, anno in cui uscirà “La Strada”, film premio Oscar, che si presenta come una sorta di road-movie fiabesco, in cui la povertà dell’ambientazione solo in apparenza si ricollega al disagio sociale dei film neorealisti. I tre personaggi principali: Gelsomina (Giulietta Masina, moglie di Federico Fellini), Zampanò (Anthony Quinn) e Il Matto (Richard Basehart, che l’anno successivo sarà nuovamente diretto dal regista riminese nel meno applaudito “Il bidone”) assumono i connotati della commedia dell’arte. Protagoniste del film, alla pari dei  tre interpreti sopracitati, sono le partiture rotiane che, melodrammatiche ed amare, immergono la piccola protagonista e la sua storia nel territorio del disincanto. La musica, che nei film di Fellini è sempre un’apparizione epifànica nella quale entrano in contatto il popolare ed il religioso, rappresenterà in tutta la carriera il medium preferito dall’autore per accedere alla dimensione dell’onirico e del fantastico che caratterizza la sua intera opera. Tanto “La strada” quanto “Le notti di Cabiria” (1957 – anche questo premiato agli Oscar ed anche questo interpretato dalla Masina), si imporranno come massimi punti di riferimento del cinema italiano.

« – Dimmi un po’ ragassolo, tu conosci un certo Mario che abita qua intorno?
– Qui de Mario ce ne so’ cento.
– Oh sì va bene, ma questo l’è uno che ruba…
– Sempre cento so’. »

Il 1958 sarà un anno molto importante per il Cinema Italiano. Mentre in America uscivano in sala “La donna che visse due volte” di Alfred Hitchcock, “L’infernale Quinlan” di Orson Welles e “La gatta sul tetto che scotta” di Richard Brooks, nel nostro paese vedeva la luce un grande capolavoro che rimarrà alla storia come il capostipite della Commedia all’italiana, il suo nome è “I soliti ignoti”, per la regia di Mario Monicelli. Scritto da Age e Scarpelli, una fra le coppie più fertili e geniali della nostro cinema, “I soliti ignoti” ritrae una Roma periferica e degradata, non ancora toccata dai processi economici del Boom. Grottesco e drammatico allo stesso tempo, il film di Monicelli adotta ancora una volta gli scenari tipici del neorealismo, come la povertà, la galera, la fame, la microcriminalità. Non a caso i protagonisti della vicenda sono proprio ladruncoli da quattro soldi, interpretati da tanti attori che già erano o presto diventeranno i volti eccellenti del cinema italiano: Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Renato Salvatori, Totò e Claudia Cardinale. Candidato agli Oscar come miglior film straniero, “I soliti ignoti” si prodiga di documentare la società italiana, non con l’intento unico di far ridere, ma con il profondo e nobile obiettivo di stimolare la riflessione lasciando un fastidioso amaro in bocca attraverso la risata.

A differenziare la Commedia all’italiana (che non può essere considerata un vero e proprio genere, ma piuttosto una particolare stagione cinematografica) da quella più leggera e disimpegnata tipica del Neorealismo Rosa sono: l’ambientazione prevalentemente borghese, la forte satira di costume, la critica all’attualità sociale spesso portata avanti raccontando storie con un’ambientazione scenica traslata in diversi contesti storici, il desiderio di porre l’accento sui vizi e le virtù dell’italiano medio (spesso e volentieri interpretato da Alberto Sordi), la tagliente ironia sulle contraddizioni della società industriale, l’amarezza di fondo che stempera i contenuti comici, uno sguardo attento al mutamento radicale della mentalità e del costume sessuale degli italiani e l’attenzione sulla realtà prodotta dal Boom economico (anche il cinema risentirà dei cambiamenti che andranno a modificare la società italiana), tra i temi: i nuovi rapporti con il potere e la religione, e la ricerca di nuove forme di emancipazione, economica, sociale, sessuale.

A livello meramente registico, la Commedia all’italiana (che prende il nome dal celebre film di Pietro Germi: “Divorzio all’italiana” del 1961, con Marcello Mastroianni e una giovanissima Stefania Sandrelli) non fu molto sperimentale, il punto forte di questi film erano infatti le sceneggiature, i dialoghi.

Tra i grandi autori della Commedia all’italiana, oltre ai già citati Mario Monicelli e Pietro Germi (nella cui opera, accanto ai toni umoristici sopravvivono pungenti critiche ai modi ed ai costumi della borghesia italiana), ricordiamo Dino Risi (uno fra i primi a documentare i cambiamenti sociali portati dal Boom, attraverso opere come “Il Sorpasso”, “I mostri” e “Una vita difficile”), Steno, Vittorio De Sica, Luigi Zampa, Luigi Magni, Antonio Pietrangeli (il cineasta italiano che più si dedicò ad approfondire la psicologia femminile con film come “Adua e le compagne”, “La parmigiana”, e lo struggente “Io la conoscevo bene”) Luciano Salce, Luigi Comencini e molti altri. Fra gli sceneggiatori ricordiamo anche Benvenuti e De Bernardi, Rodolfo Sonego, Sergio Amidei, Ruggero Maccari, Suso Cecchi d’Amico e naturalmente Ettore Scola che regalerà al cinema italiano strepitosi successi e grandi capolavori tanto come autore quanto come regista; per questo lo vogliamo ricordare citando alcune fra le sue opere più riuscite: “Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?”, “Il commissario Pepe”, “C’eravamo tanto amati”, “Brutti, sporchi e cattivi”, e “La terrazza”, film del 1980 che chiude la stagione della commedia all’Italiana sull’amaro bilancio esistenziale di un gruppo di intellettuali di sinistra.

Se, a proposito di volti e voci e quindi di interpreti, ricordiamo come precursori della Commedia all’italiana, grandi artisti come Aldo Fabrizi, Totò e Peppino de Filippo, come protagonisti a tutti gli effetti, oltre ai già citati interpreti de “I soliti ignoti”, citiamo Nino Manfredi, Ugo Tognazzi, Monica Vitti, Sophia Loren, Walter Chiari, Franca Valeri, Tina Pica, Leopoldo Trieste, Gastone Moschin, Carla Gravina, Michele Placido, Virna Lisi ed alcuni grandi divi d’oltralpe come Jean-Louis Trintignant, Catherine Spaak, e Philippe Noiret. In assoluto però, il volto più noto, quello più identificativo del filone è sicuramente il grandioso Alberto Sordi de “Un americano a Roma”, “La grande guerra”, “Il Vigile” e moltissimi altri titoli di successo, fra cui “Il medico della mutua” (1968) di Luigi Zampa il quale fu uno dei grandi film della Commedia all’italiana che per i particolari temi trattati, naturalmente di rilevante attualità sociale, sono riusciti a suscitare scalpore contribuendo ad animare dibattiti sulle tematiche proposte.

Negli anni ’60, mentre i noti autori della Commedia all’Italiana collezionavano numerosi successi, i loro colleghi più intellettuali regalavano al Cinema Mondiale nuovi grandiosi capolavori. Michelangelo Antonioni partoriva la sua celebre Trilogia dell’Incomunicabilità: L’Avventura (1960 – sequestrato per qualche giorno dalla magistratura per oscenità), La notte (1961), L’Eclisse (1962). Film questi accomunati dall’uso del bianco e nero, dalla presenza di Monica Vitti (allora compagna del regista) come protagonista o co-protagonista femminile, dalla feroce critica dei tempi moderni e delle malattie dei sentimenti tipiche del periodo: alienazione e disagio esistenziale. Attraverso i suoi film (anche i successivi) cerebrali e pessimisti, Antonioni entra a far parte della ristrettissima schiera di cineasti che creano sullo schermo il proprio mondo poetico: immagini ossessive, ricercate, più importanti dei dialoghi, che tradiscono una grandiosa maestria formale e una continua analisi dei sentimenti individuali, ritmo lento (con tempi morti fra un evento e l’altro), grande uso del finale aperto, personaggi presentati con freddezza spesso introdotti attraverso il paesaggio o viceversa. Con il suo stile severo ed antimelodrammatico Antonioni analizza in maniera intima e psicologica le classi sociali elevate, da lui ritenute indifferenti ed estranee rispetto al resto della società. Il grandioso successo di questi film in tutto il mondo, fa si che la MGM gli offra un contratto per tre film in inglese: Blow Up (1966 –  sequestrato per qualche tempo con la solita accusa di oscenità) Zabriskie Point (1970 – contestazione giovanile, critica alla società dei costumi) e Professione: reporter (1975 – crisi della modernità). Mentre “Blow Up”, il quale si configura come una riflessione sul rapporto arte e vita e sull’impossibilità del cinema (che intanto si interroga su sé stesso) di rappresentare la realtà, si distinse come un vero e proprio successo di pubblico e di critica, applaudito ed ammirato anche dai Big di Hollywood, gli altri due film “americani” si rivelarono due reali disastri finanziari.

Mi fanno male i capelli, gli occhi, la gola, la bocca!” (Deserto Rosso, primo film a colori di Michelangelo Antonioni – 1964 . La donna è l’antenna più sensibile di una nevrosi comune nel contesto della società dei consumi e della natura inquinata).

Al fianco della carriera del regista ferrarese si sviluppavano e si accrescevano anche quelle di Federico Fellini e Luchino Visconti. Quest’ultimo nel 1963 imbastì attraverso la macchina da presa una fedele illustrazione del passaggio della Sicilia dai Borboni ai Sabaudi, trasponendo fedelmente (senza tradire lo spirito scettico ed umano dell’autore) il romanzo “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Tra i suoi film successivi più meritevoli di attenzione ricordiamo quelli appartenenti alla Trilogia tedesca: “La caduta degli dei” (1969), “Morte a Venezia” (1971) e “Ludwig” (1972). Da non dimenticare nemmeno il precedente “Vaghe stelle dell’Orsa” (1965) e “Gruppo di famiglia in un interno” (1974).

La sua eccezionale ed estrema cura delle scenografie e delle ambientazioni è stata ammirata ed imitata da intere generazioni di registi, il primo fra tutti è forse Martin Scorsese, che ha omaggiato il maestro italiano in special modo nel suo film “L’età dell’innocenza” (1993).

In tempo di guerra Federico Fellini si sfama dipingendo caricature per i militari alleati, poi nel 1945 incontra Roberto Rossellini che lo invita a collaborare alla sceneggiatura di “Roma città aperta” e “Paisà”. Dopo alcune esperienze come sceneggiatore al fianco di Pinelli, ed una da co-regista assieme a Lattuada, Fellini, come già anticipato in precedenza, si rende autonomo dietro la macchina da presa, e gira alcune opere come “La Strada” e “Le notti di Cabiria” che lo rendono uno degli autori cinematografici più moderni ed apprezzati del mondo. A conferma della sua genialità, e a suggellamento di quella mastodontica notorietà piovutagli addosso, nel 1960 Federico Fellini mostra al mondo la sua ultima creatura: “La dolce vita”, affresco di una Roma frivola e decadente, priva di certezze morali e di decoro, tanto che la rivista cattolica dell’Osservatore romano definisce il film come Amorale ed Impuro. La sua Opera si fa così sempre più ricca di satira di costume, pur rimanendo costantemente velata da una sottile malinconia, tipica del suo stile onirico e visionario. “La dolce vita”, si dimostra un film picassiano, poiché abbandona gli schemi narrativi classici e tradizionali, desta scalpore, suscita polemiche a causa di certe situazioni fortemente erotiche e della sottolineata e rimarcata decadenza morale della società borghese (descrizione della vita orgiastica dei ricchi). I suoi film rimuginano sempre sugli stessi temi, adottano sempre gli stessi topic: il circo, le piazze deserte nella notte, il caffé-concerto, la strada, la spiaggia, la puttana voluttuosa, le parate, le feste, gli spettacoli, i matti, la figura materna, le albe tristi. Inoltre, emerge a più riprese nella sua intera filmografia, la fascinazione per certi comici come Chaplin, Keaton, Laurel & Hardy ed i Fratelli Marx.

Terminati i lavori per “Le tentazioni del dottor Antonio” (1962 – uno dei quattro episodi che costituiscono il film Boccaccio ‘70, al quale oltre Fellini, presero parte Monicelli, Visconti e De Sica) il regista riminese vive un periodo di scarsa ispirazione, che paradossalmente gli permette di partorire il suo film più moderno, sperimentale ed autobiografico: 8 ½ (questa pellicola viene dopo sei film interamente da lui diretti  più tre “mezzi” film, in quanto co-diretti con altri registi. Il titolo 8 ½ doveva essere provvisorio). Marcello Mastroianni viene riconosciuto a tutti gli effetti come il suo alter ego cinematografico; qui interpreta Guido Anselmi, un regista quarantenne molto affermato ritratto nel pieno di una crisi esistenziale che gli impedisce di portare a termine il suo prossimo progetto. La vena creativa del Fellini di questo periodo rivoluzionerà i canoni estetici del cinema.

Il 1965 sarà l’anno in cui il regista per la prima volta sceglierà di utilizzare il colore con funzione espressionistica, riportando sullo schermo la Masina, sua moglie, e confermando il suo aumentato interesse nei confronti del soprannaturale, tutto questo con il film tiepidamente accolto dalla critica “Giulietta degli spiriti”.

Dopo “Fellini Satyricon” (1969 – uno spettacolo grottesco che ricorda la commedia dell’arte e rinuncia alla narrazione lineare), “I clowns” (1970 – documentario), e “Roma” (1972), Fellini darà origine ad un altro dei suoi capolavori, anche questo premiato con l’Oscar al miglior film straniero: “Amarcord” (1973), incentrato, proprio come i due film precedenti, sul tema della memoria; in questa pellicola ci viene raccontata infatti la sua giovinezza, i suoi amici e gli strani personaggi che affollavano il suo paese. Nonostante appaia dunque come il suo film più autobiografico, il regista rifiutò sempre di riconoscere nella pellicola qualunque verità, qualsiasi riferimento alla propria esperienza passata, a personaggi esistenti, a fatti realmente accaduti, asserendo sempre che fu tutto frutto della sua immaginazione.

Il film che chiude il sipario nella carriera del regista, intitolato “La voce della luna” (1990) ed ispirato al romanzo “Il poema dei lunatici” di Ermanno Cavazzoni, è fra i suoi più poetici e satirici. Interpretato da Roberto Benigni e Paolo Villaggio, “La voce della luna” fa da coda ad una compagine di film critici e contestatori come “Prova d’Orchestra” (1979 – splendida metafora del disagio vissuto durante gli anni di piombo), “La città delle donne” (1980 – opera che suscita grandi polemiche sulla stampa e forti critiche da parte dei movimenti femministi), e “Ginger e Fred” (1985 – interpretato da Giulietta Masina e Marcello Mastroianni, è una feroce satira della cultura del consumismo e del mondo delle tv commerciali). “La voce della luna” è un’invocazione al silenzio contro il frastuono della vita contemporanea, un elogio alla follia e una critica alla volgarità dell’odierna civiltà Berlusconiana, un’accusa questa già sviluppata in Ginger e Fred.

Benigni e Villaggio sono due ricchezze trascurate. Ignorarne il potenziale mi sembra una delle tanche colpe che si possono imputare ai nostri produttori” Federico Fellini

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