Il Neorealismo, quella famosa Primavera
Introduzione alla Storia del Cinema: 1943 - 1955. L'Italia devastata dalla guerra, canta attraverso il cinema la sua desolazione
Quando ci riferiamo al Neorealismo, non possiamo parlare di corrente nel senso più classico del termine, piuttosto sarebbe giusto definirlo un “fenomeno cinematografico”, una spinta culturale che ha avuto un’enorme influenza a livello internazionale, un Movimento sorto spontaneamente e non codificato, nato e sviluppatisi in Italia durante il secondo conflitto mondiale e nel suo immediato dopoguerra.
I Cineasti neorealisti, tra i quali ricordiamo principalmente Luchino Visconti, Roberto Rossellini, Vittorio De Sica, e Giuseppe De Santis, furono molto influenzati dal realismo poetico francese, dopotutto Visconti, così come il suo collega Michelangelo Antonioni lavorarono in stretta collaborazione con Jean Renoir (La grande illusione, La regola del gioco, La cagna). Elementi tipici del Neorealismo sono rintracciabili anche in alcune opere di Alessandro Blasetti, massimo regista italiano del cinema di propaganda fascista assieme a Mario Camerini. Non a caso, fra i tre film che fanno da preludio al Neorealismo, assieme a “Ossessione” (1943) di Luchino Visconti ed “I bambini ci guardano” (1944) di Vittorio De Sica vi è proprio “Quattro passi fra le nuvole” (1942), di Blasetti.
I temi principalmente sviluppati dalle opere del movimento in analisi sono il Senso etico di fratellanza nato dall’antifascismo, la Speranza, il Riscatto, il Desiderio di lasciarsi il passato alle spalle ed incominciare una nuova vita, la Frustrazione, la Povertà e naturalmente la Disperazione, legate alla situazione economica e morale del dopoguerra italiano.
I soggetti rappresentano la vita dei lavoratori e degli indigenti impoveriti dal conflitto. Erano sempre storie contemporanee, ispirate a fatti di cronaca, ad eventi reali, a problemi sociali tipici dell’epoca come quello raccontato da Vittorio De Sica ed il suo fedele sceneggiatore Cesare Zavattini in “Ladri di Biciclette” (1948) o da De Santis in “Riso Amaro” (1949). Quest’ultimo, annoverato tra i film manifesto del Neorealismo riuscì a destabilizzare parte della critica cinematografica di allora per via dei suoi “espliciti” contenuti erotici. La pellicola di De Santis pone l’accento sul processo di contaminazione dei costumi che investì il mondo contadino, influenzato dalle spinte industriali e capitalistiche d’oltreoceano; la musica da ballo importata dall’America che anima i momenti di svago della comunità ne è appunto un esempio. Protagonista del film è una certa cultura popolare mutuata dal fotoromanzo e dal cinema di genere americano.
Forse nell’immaginario internazionale i film simbolo del Neorealismo italiano sono due fra i più importanti titoli di Roberto Rossellini, tali “Roma città aperta” (che dopo aver riscosso una risonanza mondiale, consacrerà internazionalmente il regista a portavoce del Movimento) e “Paisà”. “Roma città aperta” (1945) racconta la lotta morale degli italiani contro l’occupazione tedesca della capitale, puntando i riflettori soprattutto sul ruolo compiuto dai giovanissimi durante la guerra, personaggi questi, che il Neorealismo (specialmente quello di De Sica e Zavattini) amerà particolarmente: “bambini come osservatori della realtà, modello per gli adulti e unica speranza per un futuro migliore”. “Paisà” invece, del 1946 (opera che vede un Federico Fellini in erba come co-sceneggiatore ed aiuto regista) è la testimonianza diretta di un drammatico evento storico, raccontata con un andamento documentaristico ricreato grazie all’ampio utilizzo della voice over e delle immagini di repertorio ad introduzione delle vicende narrate. Girato quasi interamente in ambienti autentici, con attori non professionisti e personaggi che si esprimono usando la loro lingua madre in dialoghi pressoché incomprensibili, “Paisà” vuole proprio rappresentare il rapporto tra i civili italiani ed i militari alleati all’insegna di una comunicazione difficoltosa, ma non impossibile.
Rossellini, a differenza di Luchino Visconti (grande regista di teatro, i cui film sfoggiano costumi e scenografie sontuose, una recitazione marcata ed una musica travolgente) fu sempre un regista anti-spettacolare. Il suo unico obbiettivo era restituire umanità a quella che gli pareva essere una società in disfacimento. Amava la commistione di toni, la narrazione episodica, le ellissi temporali ed i finali aperti.
“Scoprire la realtà circostante”, questo era uno dei fini del Neorealismo. Cesare Zavattini infatti voleva un cinema che rappresentasse il dramma nascosto negli eventi quotidiani, e che si limitasse a pedinare un individuo per novanta minuti della sua vita, seguire il “passo lento e stanco dell’operaio” questo è appunto ciò che accade in “Ladri di biciclette”, il film che esemplifica forse meglio di tutti la crudeltà della vita nel dopoguerra.
Tra le caratteristiche principali del movimento ricordiamo quella che il critico cinematografico francese André Bazin definì la “Tecnica dell’amalgama”, ovvero l’utilizzo di attori non professionisti presi dalla strada accanto ad attori professionisti di grande fama. Poi ancora l’utilizzo di commenti musicali di stampo melodrammatico per sottolineare lo sviluppo emotivo di una scena, le riprese in esterni e non in studio (Cinecittà era divenuta inagibile a causa della guerra), brusche variazioni di timbro emozionale, finali aperti, un uso massiccio di ellissi, l’enorme importanza di cui vengono rivestiti i dettagli e le micro-azioni (non c’è una vera distinzione fra scene madri e momenti di passaggio. Le scene intense vengono attenuate mentre situazioni e comportamenti ordinari vengono rafforzati), ed uso del doppiaggio. Nonostante si pensi alle produzioni neorealiste come povere ed improvvisate, queste si basavano su sceneggiature tutt’altro che abbozzate, presentavano un montaggio classico, fluidi movimenti di camera, un nitore impeccabile e l’azione scandita su più piani.
Molti dei più grandi capolavori del Neorealismo hanno come teatro dell’azione una Roma devastata dalla guerra, connubio tra le macerie e la splendida architettura della città eterna.
Il Neorealismo portò con sé nuove storie, nuovi volti, nuovi modi di girare, spiegando a tutto il mondo che era possibile fare un cinema differente. Era la politica del Cinema Verità, quella che mette in crisi il concetto di Fiction: gli attori che interpretavano quelle storie recitavano sé stessi perché, proprio come gli spettatori, avevano vissuto esattamente quelle situazioni. Uno dei contributi più importanti del Neorealismo, fu proprio aver abbattuto la frontiera tra Reale e Finzionale. Il Neorealismo non chiuse gli occhi difronte alle scene forti, fece protagonisti delle sue opere donne violentate e bambini pieni di pidocchi, e così facendo, ovviamente, creò un enorme imbarazzo nella nostra classe politica che trovava inammissibile mostrare al resto del mondo un’Italia tanto degradata, ed anche la Chiesa cattolica condannò molti di questi film per l’anticlericalismo e per il modo in cui venivano trattati argomenti come il sesso. Pure la Sinistra non accettava la visione pessimistica e la mancanza di un’ esplicita dichiarazione di fede politica da parte di questi autori e dei personaggi delle loro storie.
Nel 1949 entra quindi in vigore la “Legge Andreotti” (Giulio Andreotti era l’allora segretario allo spettacolo) con l’obbiettivo di rallentare l’avanzata dei film americani (poche opere neorealiste furono popolari al grande pubblico, poiché gli spettatori si lasciavano attrarre più volentieri dai numerosi film americani in circolazione) ma anche per frenare gli imbarazzanti eccessi del Neorealismo, il quale si esaurirà attorno alla metà degli anni Cinquanta (trasformandosi in Neorealismo Rosa o aprendosi a contenuti più fantastici e magici) continuando tuttavia ad influenzare sensibilmente alcuni registi successivi come i giovani della Nouvelle Vague francese, ed un grande artista italiano come Pier Paolo Pasolini, che con i suoi “Accattone” (1961) e “Mamma Roma” (1962) ripropose gelide e grigie analisi della povertà urbana. Gli ambienti fotografati sullo sfondo, intrisi di selvaggia violenza e di inquietante onirismo, facevano da teatro a vicende di persone comuni, interpretate spesso da ragazzi di strada non professionisti messi a recitare accanto a grandi attori, una a caso: Anna Magnani. Ciò che distingue queste due opere di Pasolini da quelle appartenenti alla tradizione neorealista sono: l’uso di inquadrature composte in modo da ricordare certi dipinti rinascimentali, volti che alludono a famosi soggetti della storia dell’arte ed una sintassi filmica sgrammaticata.
“Molti dicono che il neorealismo fu un bisogno di risparmiare: non è vero, fu un bisogno di dire la verità, il coraggio di dire la verità, e quindi portare la macchina da presa non più nelle vecchie costruzioni di cartapesta di Cinecittà, ma nella vita, nella realtà dove vivono gli uomini, dove veramente vivono gli uomini.”
Vittorio De Sica
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