Autopsia di un cortometraggio premio Oscar
Se il film fosse una statua, l'idea sarebbe il picchetto di ferro che l'impala e la sostiene
La scorsa settimana, abbiamo dedicato l’appuntamento di Screenshot ad uno dei più grandi sceneggiatori italiani contemporanei, largamente attivo nel panorama cinematografico attuale, tale Massimo Gaudioso, fidato collaboratore di Matteo Garrone, Daniele Ciprì e Luca Miniero.
Il lavoro dello sceneggiatore, come abbiamo potuto apprendere, non è certamente più semplice o meno importante di quello del regista, ma spesso, troppo spesso, viene sacrificato nell’ombra degli applausi ad un director troppo famoso ed ammirato.
Ciò detto si riferisce naturalmente al pubblico che non mastica con disinvoltura la materia cinematografica, ma c’è da ammettere che ancora una volta troppo di frequente, quello dello sceneggiatore, e di conseguenza della sceneggiatura, è un peso sottovalutato persino da chi, il cinema un giorno lo vorrebbe masticare alla perfezione. Mi riferisco proprio a tutti quegli esordienti, che pretendono di saper far la verticale correttamente pur non avendo alcuna mobilità articolare, parafrasando: credono che conoscere la grammatica del cinema sia sufficiente per partorire un bel prodotto audiovisivo. E le storie, sono sempre più misere, banali e tronfie di luoghi comuni.
Alludo a quegli studenti o improvvisati registi, che ahimè non vantando un talento inappellabile, si dimostrano troppo autocompiacenti e boriosi credendo che una loro idea, nata per caso un giorno in un metrò, possa essere una base sufficientemente solida per costruirvici sopra una grattacielo. Ciò non dimostra solo una sciocca vanità, ma anche una scarsa conoscenza delle complesse fasi realizzative di un prodotto filmico (che sia un lungo, un medio, un corto, uno spot o un videoclip). L’idea, da sola, è come un chilo di grano accanto ad una gallina ed una mela, prima che ne esca un apple pie insomma, ce ne vogliono di passaggi!
Detto ciò, mi permetto di mostrarvi un cortometraggio tutt’altro che improvvisato, vincitore di una Palma d’oro, un premio BAFTA ed un Oscar. Il suo titolo è Omnibus (1992), la sua durata è di otto minuti, ed i suoi sceneggiatori sono Christian Rauth e Sam Karmann, che ne è anche il regista. Dopo la visione, analizzeremo la sua struttura, cercheremo di capirne i meccanismi ed il loro perfetto funzionamento, e commenteremo le scelte fatte dai due sceneggiatori. La versione che vi propongo è in francese, lingua originale del film, con sottotitoli in inglese.
E’ consuetudine, ma non regola naturalmente, inserire all’inizio del film un’ immagine che abbia affinità con la vicenda stessa, in questo caso un orologio, simbolo del tempo e del suo scorrere inesorabile a prescindere dai drammi o dalle necessità degli esseri umani.
Prima ancora dell’orologio vediamo entrare un uomo, che poi scopriremo essere il nostro protagonista, nell’edicola della stazione, prendere senza preventiva ricerca la rivista desiderata e consegnare alla commessa la cifra precisa per pagarla. Ciò, ci palesa in breve tempo e compiendo una scelta molto efficace (non dire con le battute quello che puoi esprimere con le azioni) il fatto che tale sequenza di gesti altro non sia che un’abitudine per il personaggio in analisi.
Ma facciamo un piccolo passo indietro e torniamo all’orologio, che ci viene appunto presentato subito dopo la scena del giornale, attraverso un character dolly (inquadratura tesa a focalizzare l’attenzione dello spettatore nei confronti di un personaggio. Consiste in una carrellata in avanti a stringere su di lui) eseguito con una carrellata effettuata variando la lunghezza focale dell’obbiettivo dotato di zoom. Stringendo sull’orologio, tutti ci attendiamo che scocchi il minuto, questo il regista lo sa molto bene e proprio per sorprendere le nostre aspettative sceglie di far coincidere lo spostarsi della lancetta con un rumore esagerato, che infatti non può essergli attribuito. Tale rumore è quello del treno che dopo una lunga frenata raggiunge la stazione e si ferma. Ecco un felice metodo per anticipare il prossimo protagonista non-vivente della vicenda: il treno, teatro di tutta l’azione.
Vediamo quindi i passeggeri salire nel veicolo, tra cui una signora anziana sulla quale la macchina da presa di sofferma un istante tradendone la successiva importanza. Il capostazione fischia ed il treno parte..
Finalmente ci addentriamo nella storia. Tutto ciò che abbiamo sino ad ora visto altro non era che immagini tese a stabilire un ambiente, un determinato periodo dell’anno e della giornata, un’abitudine, ciò che si potrebbe riassumere in “contesto”. Ora da una situazione generale, raggiungiamo la particolarità di un mondo estremamente personale, ed andiamo a conoscere il protagonista della nostra storia. Ancora non lo abbiamo mai visto in faccia, né lo abbiamo sentito dir nulla se non un anonimo “bonjour”, eppure sappiamo già molto di lui: status sociale, età (circa), sesso ed abitudine. Tutto ciò ci è stato suggerito ancora una volta dalle azioni, dai costumi, dalla scenografia, dalla fede al dito.
Siamo dentro il treno. Il giungere del controllore non distrae il nostro eroe dal suo da fare. Continua infatti indisturbato ad occuparsi dei suoi documenti e porge il biglietto dimostrando una certa dimestichezza con il gesto oltre che la sicurezza di aver adempito ai suoi obblighi di passeggero. Tutto è normale nella vita del nostro personaggio, completamente ignaro del risvolto che assumerà quella situazione, apparentemente consuetudinaria.
E’ nel momento in cui il controllore domanda al passeggero se abbia un complemento al biglietto, che subito percepiamo che qualcosa sta per accadere e che molto probabilmente ci sarà una “collisione” tra il passeggero ed il controllore, personaggio autorevole, che non a caso verrà dopo pochi secondi ripreso dal basso, tanto per motivi di realismo (è infatti il caso di una semi-soggettiva, cioè una visione con il personaggio in cui noi spettatori non vediamo esattamente attraverso i suoi occhi, ma gli siamo molto vicini tanto da rievocare tutte le sensazioni della soggettiva classica) quanto per motivi enfatici. Dal basso vengono ripresi i personaggi che sottomettono e si elevano al di sopra del proprio interlocutore.
Prima di raggiungere la semi-soggettiva del controllore vediamo il protagonista finalmente in faccia, da vicino e lo stentiamo parlare. Il regista sceglie di presentarcelo attraverso un primo piano, non solo per sottolineare il beat dell’attore che assume un aria stupita, ma anche per incominciare a farci entrare in empatia con un uomo al quale sta per accadere qualche cosa di considerevole. Diversamente da ogni altro giorno della sua vita sino ad ora, oggi, il suo abbonamento non risulta più sufficiente a coprire l’intera corsa del treno. E’ questa la così detta “cosa strana” che succede in una giornata normale: l’incidente scatenante.
L’incidente scatenante è la prima incrinatura rispetto alla routine. Pensiamo alle favole, l’incidente scatenante è quello che incomincia con “un giorno…”. E’ ciò che da avvio alla storia.
Sono passati pochi minuti ed abbiamo conosciuto tre dei personaggi della vicenda: l’eroe, il controllore e la vicina di posto, quella signora anziana già incontrata a pochi istanti dall’inizio del cortometraggio.
Questi ultimi due personaggi potrebbero apparire come i due antagonisti, ma in realtà, con l’evolversi del plot, assumono con chiarezza i tratti del Guardiano della soglia (il controllore) e del Mutaforme (la vicina di posto).
Il guardiano della soglia è, secondo la teorizzazione degli archetipi di Vogler (gli archetipi sono personaggi funzione, non ruoli rigidi. Possono essere sia positivi che negativi, sia fisici che metaforici, sia persone che oggetti. Ad uno stesso personaggio possono appartenere diversi archetipi), quell’esistenza/individuo che mette alla prova l’eroe creandogli difficoltà, sondandone così la volontà e rafforzandolo. Al principio può apparire come un nemico, ma può anche essere sorpassato o trasformato in alleato. Ferma il protagonista, riportandolo alle sue ferite, alle dipendenze ed ai suoi limiti che autonomamente si impone. Questi punti deboli dell’eroe sono riassumibili nella famosa “fatal flaw”.
L’anziana signora invece può, secondo certi punti di vista, indossare gli abiti del Mutaforme, poiché cambia, si traveste metaforicamente. E’ l’archetipo instabile, apparentemente amico, ma in realtà sleale. Questa è la figura alla quale Vogler attribuisce la funzione di seminare dubbi e suspense. Secondo la terminologia di Jung è l’elemento femminile nel corpo maschile (o viceversa), ed infatti, non a caso è una donna quella affiancata al protagonista della nostra storia, per sottolinearne la negligenza e la meritata multa e disgrazia. E’ il personaggio che stimola la crescita dell’imbarazzo dell’eroe, continuando ad ammiccare al controllore, sfuggendo alle implicite richieste di sostegno emotivo indirizzate da parte del protagonista, che di conseguenza si sente solo, inerme ed accerchiato. Ma la scelta degli autori di far prendere all’anziana le parti dell’autorità e non quelle del protagonista, non è una cattiveria gratuita, ma un’astuta scelta per far si che il pubblico impatizzi maggiormente con l’eroe.
E’ giunto il momento, quello del Plot Point. Il protagonista deve ad ogni costo scendere dal treno. Da ora sino alla conclusione avrà questo come obbiettivo. Un fine che non gli sarà semplice raggiungere, poiché non mancheranno gli ostacoli da superare e le prove da sostenere, come in ogni storia ben scritta.
Ci prepariamo quindi a lasciare il Primo Atto della nostra opera, ma innanzitutto facciamo un veloce recap per mantenere alta la concentrazione sulla struttura narrativa.
Abbiamo come prima cosa conosciuto il Mondo Ordinario del protagonista (la consuetudine, l’abitudine), poi l’Incidente Scatenante (mancanza del supplemento), e di conseguenza il Richiamo all’avventura (il treno non si ferma alla stazione nella quale deve scendere per recarsi al lavoro, ma lui deve scendere obbligatoriamente), siamo quindi giunti al Varco della prima soglia (l’eroe accetta la sfida, è il momento più difficile dell’Atto I, il suo vero inizio. E’ una soglia su cui ci sono i guardiani, esseri che cercando di fermare l’eroe e che sono ignorati, assorbiti, riconosciuti o trasformati in alleati, nel nostro caso il guardiano era anche colui che portava il messaggio dell’incidente scatenante). Sia chiaro che in un cortometraggio tutto è più compresso rispetto ad un lungo.
Si aprono le porte del Secondo Atto, quella porzione della vicenda in cui avverrà il vero sviluppo dell’azione. La prima sfida che l’eroe dovrà affrontare è convincere il controllore. E’ in questa circostanza che si rivela l’autentico carattere dell’eroe, scopriamo i suoi sentimenti, i suoi valori e le priorità. In questa fase l’Eroe incomincia a collezionare alleati ed a formare uno squadra. Se analizziamo la nostra vicenda vediamo che il protagonista esplicitando i suoi problemi e turbamenti mette a conoscenza il controllore del suo vero antagonista della sua vita (il datore di lavoro) e del dramma che conseguirebbe alla perdita del suo impiego. Il controllore, che prima aveva dimostrato compostezza ed impassibilità si fa più fragile e compassionevole e sentendosi osservato (giudicato, valutato) dagli altri passeggeri (opinione pubblica, coscienza) tesi a fruire come spettatori la loro conversazione, decide di aiutare il pover’uomo e diventa alleato dell’eroe. Egli da infatti una grossa (probabilmente l’unica) opportunità al protagonista di raggiungere il suo obbiettivo, ma ciò comporta scontrarsi con un altro ostacolo da superare, quello di convincere il signor Erol, il macchinista, a lasciarlo scendere.
Questa si configura come la Prova Centrale, poiché è per il protagonista la sola possibilità di non “morire” e salvarsi per poi ritornare al mondo ordinario. Solitamente nelle fiabe, ciò avviene sulla cinema della montagna, nella zona più profonda della caverna, nel cuore della foresta, nella parte più recondita d’una terra straniera, nel posto più segreto dell’animo dell’eroe, e non a caso, per quanto riguarda il nostro film, la prova centrale avviene nella cabina del conducente, cuore e cervello dell’intero veicolo.
Il protagonista sfrutta a suo favore il carattere palesemente anticonformista del guidatore, portando egli stesso a scontrarsi con i propri valori ed a rivendicarne l’autenticità. Il macchinista alza metaforicamente il pollice e determina la sopravvivenza dell’eroe. Acconsente a rallentare, permettendo a quest’ultimo di scendere. Questa è la Ricompensa per aver lottato contro gli ostacoli ed averli superati; potremo dir che gli è stata fornita la spada per sconfiggere il drago e liberare la principessa. Ora, non resta che affrontate la belva.
C’è però da dire che gli autori avrebbero potuto far accettare al macchinista di fermarsi, lasciando così scendere il protagonista, ma ciò non è stato fatto, secondo voi come mai?
Vi darò la mia versione personale, fatta di tanti perché. Il primo è sicuramente per accrescere la difficoltà delle prove, il secondo è per far prendere alla vicenda la rincorsa per un terzo atto che non poteva assolutamente essere banale, pena il fallimento del film, ed il terzo, sicuramente il più importante: per inserire l’elemento dell’Epifania nella storia, ovvero una rivelazione, un riconoscimento. Il personaggio infatti riconosce in se stesso un potere dimenticato, un’arma che era già nel suo bagaglio esperienziale, in questo caso particolare: il saper correre molto velocemente.
L’eroe, ai suoi stessi occhi appare meno fallito di quanto non fosse al principio della vicenda, ora vi riconosce una potenzialità che non a appartiene a tutti. Qui finisce il Secondo Atto ed inizia il Terzo.
L’eroe non è ancora fuori dalla “selva selvaggia”, ora è il momento della Prova Definitiva. Come teorizza sempre Vogler: seppure si è vinto, questo è ancora il momento difficile in cui l’eroe può morire, cioè fallire.
E’ giunta l’ora del Climax (il conto alla rovescia dei chilometri orari, la musichetta incalzante, il ritmo del montaggio accelerato, fatto di tante inquadrature di breve durata), ci si avvicina alla conclusione. Il nostro eroe riesce a scendere, corre veloce e non cade, il pubblico, quello diegetico, cioè interno alla storia (i passeggeri), festeggia assieme a lui applaudendo la riuscita della sua prova, ed in questo modo crea negli spettatori reali (noi), un abbassamento di tensione, permettendo così al Colpo di scena finale di funzionare molto meglio.
Sembrerebbe che tutto sia finito con lo sperato happy end, ma d’improvviso ecco una mano uscire dal treno, ed afferrare l’eroe in corsa per fagocitarlo nel vagone, convinta di aver compiuto un gesto buono, un gesto salvifico, ignara di aver rovinato definitivamente la vita del povero Jean Louis Martichou.
Il cerchio si chiude, la situazione finale è identica a quella iniziale. Questa, nella psicologia dello spettatore, appare la soluzione migliore, più rilassante. Tutto si è concluso simmetricamente. Ma come mai il risvolto preso nel finale ci appare comico (seppur amaro) e non tragico e drammatico?
La risposta è molto semplice. L’eroe smette di essere vittima inerme e passiva della cattiveria degli altri, nel momento in cui si adopera d’astuzia e diventa stratega. Nel momento in cui cerca di convincere il macchinista, il protagonista abbandona la maschera del debole per assumere quella dell’intelligente. Non è più sfortunato ed indifeso, ma vincente. Ciò è necessario per farci accettare con il sorriso e non demoralizzandoci, ciò che poi accadrà.
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