Attenzione: leggendo questo articolo non vedrai più i film allo stesso modo
Vuoi essere il Dio di qualcuno? Scrivi una storia - VIDEO
Non può esistere un film senza il personaggio, che sia solo uno o che siano in molti, che sia umano, che abbia fattezze animali, che ruggisca, che voli, che sia una roccia, una casa, un’ ideologia, che sia reale o disegnato, il personaggio d’una storia è colui che compie o subisce un’azione, e senza azione non c’è storia, e non c’è narrazione. Non esiste il film, e tantomeno un motivo per farlo.
Partendo dal presupposto che il nostro personaggio debba essere un umano, tentiamo di immaginarlo, di contestualizzarlo, di comprenderlo. Sottomettiamolo ad un’autopsia per “guardare” e conoscere le sue peculiarità, le sue caratteristiche fisiche e psicologiche. Giriamogli intorno, alziamogli un braccio, frughiamogli tra i molari, annusiamogli i piedi, intervistiamolo, ipnotizziamolo, rubiamo dal suo intimo tutto ciò che è possibile razziare. Se vogliamo scarabocchiargli intorno una storia, noi dobbiamo essere il suo Dio onnisciente, conoscerne le abitudini, i fantasmi, le fobie, le paure. I desideri. Noi dobbiamo poter collocare lungo il suo cammino dei giusti ostacoli, gli affliggeremo delle pene adeguate volte a renderlo l’uomo che vogliamo che diventi. Il personaggio trasformato che esigiamo che sia. Un personaggio che non subisce evoluzioni o involuzioni rispetto all’inizio del film, è il protagonista d’una storia che quasi mai ha ragione d’esistere.
Tutti giudichiamo e siamo giudicati così pure tutti amiamo farlo ed abbiamo paura di esserlo.
Il giudizio nasce con l’uomo. L’uomo è un animale sociale, che sin dalle origini dei tempi sa di avere più possibilità di sopravvivenza se vive in gruppo, piuttosto che solo. Essere soli, abbandonati alla natura, vuol dire morte, se non certa, molto probabile. Quindi, da sempre, l’essere umano si impegna a rispettare le regole della comunità, e a distinguersi all’interno di questa in modo positivo, per ottenere il consenso degli altri membri ed evitare di essere isolato. Essere apprezzati diventa sinonimo così di essere protetti, quindi vivi.
La perenne ricerca di affiliazione, muove ogni nostro gesto ed ogni nostra scelta.
Cerchiamo di immaginare il nostro personaggio schematicamente: un cerchio bianco in un foglio senza tinta (per adesso). Da questo piccolo cerchietto facciamo partire una freccia che va a terminare in un altro bollino del nostro colore preferito. Quel bollino, ci rappresenterà lo “stato anemico” del nostro personaggio. Ossia, il suo Nirvana. Il suo contatto con la vera essenza e la natura. Immaginiamolo completamente nudo ed appagato immerso in un luogo non artificiale, senza altri individui accanto, circondato solamente da animali e vegetazione.
Ora intersechiamo su quella prima freccia tratteggiata poco sopra, un’altra freccia incidente che termina proprio nel punto di contatto fra le due. Questo secondo dardo virtuale raggiunge la nostra prima freccia, partendo da un altro bollino, questa volta nero. Questo terzo bollino rappresenta un secondo individuo, che non è il nostro personaggio, ma che si interfaccia con lui apportando nella sua “esistenza” un’opinione, un giudizio. Sarà questo “giudizio” a convincere il nostro protagonista ad abbandonare d’istinto il suo essere naturale, il suo stato anemico, per disegnarsi addosso una personalità che non gli è propria, ma che rappresenta ciò che vuole che il secondo individuo pensi come sua.
Se pensiamo ad un individuo come ad uno Stato, rintracceremo al suo interno due fazioni politiche avverse, una protesa al “cambiamento dell’identità” per raggiungere il fine di “essere amati”, mentre l’altra – l’opposizione – controbatterà proponendo la “restaurazione e la salvaguardia della identità naturale dell’individuo” con l’obbiettivo di mantenere intatta la propria autostima.
Ogni essere umano possiede le due fazioni ed ogni personaggio e persona avrà nell’arco della sua esistenza diversi governi. Quando l’uno quando l’altro, tanto il partito della “approvazione sociale”, quanto quello della “difesa identitaria” comanderanno su di noi, sui nostri gesti, le nostre azioni e scelte. Fluttueremo così tra due indoli opposte, toccandone gli estremi o rimanendovi al centro, quella “depressiva” sotto il governo dei primi, e quella “narcisistica” sotto il potere dei secondi.
Se tutti i film ci descrivessero il protagonista e gli altri personaggi, le loro storie, i loro background, i loro caratteri e le attitudini attraverso una voce narrante, varrebbe la pena ascoltare un audiolibro, se lo facessero mostrandoceli con una classica narrazione per immagini, significherebbe riprendere tutte le esistenze dei characters dalla loro nascita sino ad oggi, e ne risulterebbe una soap opera piuttosto che un film. Se ci venissero invece trasmesse totalmente attraverso dei dialoghi, questi risulterebbero quasi sicuramente irrealistici e l’opera sarebbe definita fra gli addetti ai lavori: “un film telefonato”, il che rimanderebbe ad una pessima sceneggiatura ed ad una non migliore realizzazione.
Fortunatamente il Cinema, quello vero, è fatto dai grandi professionisti, quelli veri, che grazie ai propri talenti, quelli veri, riescono a mettere in scena in centoventi minuti (quando più, quando meno) delle vicende, dei personaggi, delle vite, che a raccontarle per filo e per segno verbalmente ci si impiegherebbe forse il doppio, se non di più.
Nel momento in cui uno sceneggiatore, un regista, un attore ed un montatore sono grandi artisti e conoscitori del linguaggio cinematografico, ogni parola, ogni pausa, ogni gesto, ogni sguardo ed ogni stacco di montaggio assume un significato preciso, esiste per un fine ben concepito, è frutto d’una riflessione, nulla è lasciato al caso, nulla è improvvisazione. Anche un movimento d’un dito mignolo inserito un attimo prima del ciak, non è già più un gesto estemporaneo.
Ciò perché una semplice e pur breve azione, attuata nel giusto momento e nel contesto ideale può tradire l’intero passato d’una persona, od una sua fobia, od una sua intenzione. E non c’è dunque motivo di raccontarla al pubblico in modo esplicito ed urticante.
Passiamo ora ad un esempio che cambierà letteralmente il vostro modo di guardare i film, ma prima una domanda: di che cosa parlaIl Diavolo veste Prada?
Se la vostra risposta mentale è stata: “parla di moda”, significa che, o non lo vedete da troppo tempo, o siete dei pessimi osservatori. Perciò ora guardatevi i titoli di testa del film di David Frankel con Meryl Streep e Anne Hathaway, e poi proseguiremo con l’analisi.
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Non ho scelto di mostrarvi i primi minuti del film casualmente, e non vorrei neppure che iniziaste a pensare di leggere le congetture d’una pazza momentaneamente infatuata per i titoli di testa, visto che anche lo scorso articolo della rubrica ne analizzava di bellissimi. Erano quelli di Uccellacci e uccellini di Pier Paolo Pasolini ed il discorso e l’uso fatto di essi non sarebbe potuto essere più diverso rispetto a quello che ci addentriamo a compiere.
La prima cosa che vediamo è “A Wendy Finerman Producion” traducibile in “Una produzione (di) Wendy Finerman”. Dove, Wendy Finerman è il soggetto possidente e agente (lei ha prodotto questo film, e quindi quella che stiamo per vedere è una sua produzione), e vediamo infatti che il suo nome è scritto in un carattere diverso rispetto a quello di “a production”.
Questo è il primo indizio lasciatoci dagli autori nei riguardi del tema del film: ciò che sei e ciò che fai non sono coerenti fra di loro.
Proseguiamo con l’analisi. Il primo gesto che vediamo è una mano (quella della nostra protagonista) che pulisce lo specchio appannato rendendolo finalmente riflettente. L’attrice si guarda continuando a spazzolarsi i denti, guarda la stanza da bagno, dando così anche a noi l’occasione di “carpire” alcuni dettagli della sua esistenza senza che il suo status sociale ci venga espresso a parole o attraverso altre inquadrature. Il suo bagno è poverissimo, lo specchio è economico, senza neppure il doppio fondo, appeso come un quadro alla parete. Dopo essersi osservata, abbassa la testa e sputa il dentifricio nel lavabo.
Ricapitoliamo i tre gesti ed iniziamo a dargli una collocazione. Non sono altro che il “riassunto”, la “profezia” di ciò che sta per accadere: gesto numero uno (primo atto), il vetro è appannato, metafora di una personalità non conosciuta a pieno, è quella di Andrea, la protagonista del film, che con la mano pulisce lo specchio rendendolo limpido e riflettente (secondo atto) inizia a conoscersi e a guardarsi dentro, scoprendo la sua inadeguatezza (lo specchio nell’antichità simboleggiava l’imperfezione dell’uomo). Nel secondo atto del film Andrea cambia completamente vita, si inserisce all’interno d’un altra dimensione, non a caso lo specchio era inteso pure come un collegamento ad una seconda realtà. Una porta tra due mondi. Il terzo gesto è quello di abbassarsi. Lo specchio non la riflette più poiché lei ha scelto di smettere di giudicarsi. Terzo atto. Andrea capisce che è stato imprudente mettere in secondo piano la sua vita sociale, e sceglie di riprenderla in mano. Ci tengo a ricordare che nelle incisioni del Seicento la virtù personificata della Prudentia era rappresentata da una donna che regge uno specchio nella mano sinistra.
Se la prima inquadratura ci presentava la sfera intima del nostro personaggio, la seconda ci presenta la sua sfera sociale, vediamo infatti questo pseudo establishing shot che ci mostra l’ambientazione del film. Terza inquadratura: una donna (che non è la nostra protagonista) indossa il reggiseno dietro una finestra, che ci mostra nuovamente la città, una vera e propria sintesi tra le prime due “shot”: la sfera pubblica che invade quella privata, che è poi ciò che accadrà al personaggio di Anne Hathaway nel film.
Nelle seguenti cinque inquadrature vediamo “pezzi di donne” (non vediamo i loro volti, non hanno identità) che indossano preziosi indumenti intimi, alla sesta ritroviamo la nostra protagonista, con il suo cassetto economico e la sua biancheria di poco valore. Cosa la rende speciale e diversa da loro? Ancora non lo sappiamo, ma capiamo che così sarà, poiché lei ci viene mostrata. Lei è una persona.
Proseguiamo poi con quelle stesse donne di prima, perfette, ricche, illuminate come fossero le testimonial d’una pubblicità, o le modelle d’un catalogo. Presentano però una ferita endemica, non fanno che guardarsi, cambiarsi d’abito, non fanno che truccarsi e modificarsi nell’aspetto, come se la loro coscienza gli dicesse: non puoi uscire al naturale, così come sei non piaci a nessuno, devi mascherarti (tema centrale del film: l’inadeguatezza).
Mentre le altre donne non fanno che specchiarsi, attribuendo all’oggetto riflettente un altro significato simbolico, quello della vanità e della brama di bellezza (specchio specchio delle mie brame, vi dice niente?) il nostro personaggio si veste non curante degli abbinamenti, si acconcia i capelli senza interesse e si spalma goffamente il burrocacao senza neppure aiutarsi con uno specchietto. A lei non sono associati degli accessori come il mascara o gli orecchini, lei ha l’agenda e gli articoli di giornale (non ci viene esplicitamente detto che è una giornalista, eppure lo capiamo al volo).
Ciò detto, ci addentriamo nella materializzazione di un altro dei temi del film: la carriera femminile. Vediamo infatti nei primi minuti, due donne (una è la nostra Andrea) che vanno al lavoro mentre i loro fidanzati dormono a letto. Cosa ci dicono in più quelle due inquadrature “di coppia”? Sicuramente che, mentre il fidanzato della biondina continua a dormire noncurante del bacio della donna lavoratrice (assenza, disinteresse nei suoi confronti) il compagno della protagonista è sveglio (è presente nella relazione) ricambia il suo bacio (è affettuoso e innamorato) e la saluta augurandole buona fortuna (crede in lei ed approva il suo desiderio di fare carriera). Tutto ciò, sempre “mostrando” e mai “dicendo”.
Ed ecco giungere forse la più “dichiarata” fra le inquadrature. Il regista sceglie di mostrarci il quartiere di Andrea raffigurando un palo con due cartelli stradali. Un bivio. Due sensi unici. Capiamo già che la protagonista dovrà sostenere in futuro una scelta, dovrà prendere una decisione ed imboccare una strada sacrificandone un’altra. Proseguiamo poi con l’uscita di casa e l’immissione nel mondo della nostra protagonista e delle belle ragazze con le quali l’abbiamo vista confrontata sino ad ora. Loro, escono da case lussuose e fuori pare primavera, lei sbuca da una porticina d’un quartiere molto popolare, ha freddo e l’inverno è ravvisabile in ogni dettaglio. Loro sono vestite in modo seducente (esibizionismo) lei nonostante abbia la sciarpa continua a coprirsi il petto (protezione di sé e celamento delle proprie forme) stringendosi il collo del cappotto. La vediamo camminare, dietro di lei una mandria di bambini diretti all’asilo. Lei non può che apparire come la prima bambina della fila. Non ha ancora capito di essere una donna. Altro tema del film: scoperta della propria femminilità.
Non ci soffermiamo troppo nelle colazioni: artefatte e pubblicitarie quelle delle “models”, realistica e adolescenziale quella di Andrea.
Giungiamo ora ad un altro importante indizio: le belle ragazze vengono inquadrate ancora una volta come fossero personaggi televisivi, lo deduciamo dalle falsissime luci utilizzate per illuminarle e dal largo uso di zoom, palese riferimento ai contenuti del piccolo schermo.
Siamo quasi giunti al termine, ce lo fa sapere la canzone intenzionata a concludersi. Il regista adopera una posizione raso terra per l’inquadratura raffigurante Andrea alla ricerca del luogo in cui dovrà fare il colloquio. Perché? Sicuramente per darci la sensazione di spaesamento, per farci sentire piccoli e calpestati. Siamo talmente in empatia con il personaggio della Hathaway che l’inquadratura seguente raffigurante il grattacielo, sede della rivista, ci sembra la soggettiva di Andrea, ma aprendosi si dimostra il “nostro” punto di vista, il punto di vista del regista, il quale si è preso gioco del pubblico dimostrandogli a tradimento, quanto sia coinvolto. Intanto la protagonista entra nel grattacielo, raggiunge la reception e viene letteralmente schiacciata e prevaricata dall’insegna della società “Elias-Clarke publications”, premonizione di ciò che avverrà poco più tardi: il lavoro la umilierà e soffocherà.
Le porte dell’ascensore si spalancano, che il sipario si apra ed abbia inizio lo spettacolo!
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