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Un drive-in per le emozioni, R.E.M.

La rubrica 33 Giri stavolta si concentra su un album fondamentale del rock dei primi anni Novanta

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Album dei R.e.m.

Come riuscire a sopravvivere al successo e rimanere se stessi? Per rispondere a questa domanda oggi parleremo dei Rapid Eye Movement, ossia dei R.e.m., e di uno dei loro migliori album Automatic for the people.

Dal momento che il gruppo non è più in circolazione da qualche anno (2011) è meglio fare un breve ripasso sulla storia di questa band. I R.e.m. Nascono ad Athens in Georgia (USA) alla fine degli anni ’70 dall’incontro tra due studenti, Michael Stipe, all’epoca boccoluto studente d’arte, e Peter Buck, studente con la passione della chitarra. I due hanno interessi musicali in comune ed insieme ad altri due coetanei Mike Mills e Bill Berry, decidono di formare una band. I loro punti di riferimento sono le stelle della musica alternativa americana del periodo (la new wave newyorkese, Patti Smith, gli Wire) ma si sente anche l’influenza di Beach Boys.

Con le liriche tenebrose e appena sussurrate di Stipe, i frizzanti arpeggi di Buck e la solida struttura ritmica made Mills & Berry il giovane gruppo di Athens ci mette veramente pochissimo a guadagnarsi la fama nel giro del ‘college rock’, ossia quel genere di rock non mainstream che veniva passato nelle radio dei campus universitari americani. Dopo l’EP Chronic Town i R.e.m. firmano con la casa discografica indipendente I.r.s. e partono alla conquista degli Stati Uniti. Nel corso degli anni ’80 Stipe e soci perfezionano uno stile personale in cui svettano i testi impegnati e poetici e delle melodie vivaci caratterizzate dagli arpeggi della Rickenbacker di Buck e dalle linee di basso di Mills. Sono gli anni del cult album Murmur, della critica anti-Reagan di Document, in cui la band consolida la fama sua fama di gruppo alternativo girando sui palchi degli Stati Uniti.

Nella seconda metà degli anni ’80 qualcosa inizia però a cambiare, nel 1988 esce Green primo album pubblicato da una major e il video del brano Stand passa in rotazione su Mtv. Per la prima volta i R.e.m. devono fare i conti con un’immagine diversa da quella di gruppo alternativo duro e puro che portavano avanti da quasi dieci anni. Il loro stile sta mutando, i brani iniziano a rallentare e cominciano ad entrare anche altri strumenti oltre i classici 4: il pianoforte, un mandolino, a volte gli archi. Essere sotto contratto con una major offre anche i suoi vantaggi e ci si può permettere degli arrangiamenti più elaborati come in Losing my religion, la canzone di Out of Time che li proietta nel firmamento del grande Rock. E’ uno shock, un passaggio d’epoca che porta la band a “diventare maggiorenne”, dirà qualche anno più tardi Peter Buck: “la carriera dei R.e.m. può essere divisa in un pre-Losing my religion e un post-Losing my religion”.

Se con Out of time il loro stile ha virato decisamente sul pop, cosa che ha portato i fan della prima ora a rinnegare la band di Athens, Stipe e soci capiscono che il rischio (e la tentazione) di fare un Out of Time parte seconda è alto, occorre qualche cosa di nuovo. L’uomo della provvidenza è un gigante del grande Rock, John Paul Jones, il mitico bassista dei Led Zeppelin, chiamato a curare l’arrangiamento degli archi. La formazione è al completo, passiamo all’album.

Automatic for the people doveva in origine chiamarsi Star in riferimento ad un motel di Miami vicino allo studio di registrazione della band. Di fatto l’unico rimando al motel è presente in copertina: una stella nera su sfondo grigio, una stella di ferro e appuntita. Questa durezza viene di fatto smorzata dal titolo Automatic for the people, motto della catena di fast food di Athens Weaver D’s. Con questa frase la catena intendeva puntare sull’attenzione verso i proprio clienti e R.e.m. la ripresero per spiegare un album “al servizio” delle persone, che parlasse alle loro emozioni.

L’inizio è subito cupo con Drive. Un arpeggio di chitarra in minore segnato da poche note di basso, altrettanto cupe, di Mills aprono al cantato. Siamo nel 1991, alla vigilia delle elezioni politiche statunitensi. Dopo il fallimento della campagna democratica del 1988 Stipe scrive questa canzone per mettere in guardia le giovani generazioni dalle promesse militariste di Bush senior, infarcite di militarismo a patriottismo: “smile, cry, Bush-wacked/(…) ehy kids were are you/nobody tells you what to do baby (piangere, ridere, ‘darsi alla macchia/ ragazzi dove siete/ nessuno vi dice quello che dovete fare)”. La canzone infatti invita i ragazzi a prendersi carico della propria vita a non “darsi alla macchia”, appunto. Le svisate di chitarra elettrica distorta rompono, come fulmini, questo linea circolare strofa ritornello prima di chiudersi finalmente sul “baby” finale.

La seconda traccia, Try not to breathe, è decisamente più fluida, la chitarra ritmica con quella solista definisce il ritmo e gli accenti mentre tutti gli altri strumenti vanno dietro. Le liriche sono molto suggestive e la sensazione è che Stipe si sia immedesimato in un uomo in punto di morte consapevole di aver avuto tutto dalla vita e di essere incerto su che ricordo di sé lascerà agli altri. Come in tutte le canzone dei R.e.m. però i significati non sono mai univoci e quindi è un po’ compito di ognuno interpretare. Arriva quindi The sidewinder sleeps tonite, la prima traccia quasi-gioiosa dell’album. L’apertura è linea vocale molto acuta cantata da Stipe che rilegge a suo modo il classico The lions sleep tonight, di cui anche il titolo è una parodia. Per la prima volta si intravede l’abilità di Jones nel ri-arrangiamento degli archi.

Il ritmo quindi rallenta di nuovo, torniamo in pieno mid-tempo. Come dicevo prima i R.e.m. volevano evitare di fare un album fotocopia di quello precedente, tuttavia questo non gli ha impedito di metter in piedi una canzone spacca classifica e spacca cuori come Everybody hurts. Con un classico giro di sol  ed un videoclip che vede i nostri imbottigliati nel traffico di Los Angeles, la canzone diventa  il manifesto dell’umanitarismo, della capacità di metterci nei panni degli altri: tutti mentiamo/tutti facciamo del male e soffriamo. Una canzone molto semplice anche nell’arrangiamento dove gli archi di Jones echeggiano le parole di Stipe durante il ritornello integrandosi benissimo e donandole una rotondità che sa di pace dei sensi.

Dopo la strumentale New Orleans Instrumental n°1 troviamo due canzoni solide che ben definiscono il nuovo corso dello stile R.e.m. Archi e organo, con una certa calma zen viene sviscerata Sweetness follows, solo alla fine compare una chitarrina rock distorta che sporca il brano con un riff blues. Un bel arpeggio ancora di chitarra è quello che introduce Monty got a raw deal. Il brano è impregnato di amarezza narrativa quasi alla Bruce Springsteen ma le liriche sono ermetiche, si parla di un film? O forse di amicizia. Bello il ponte che porta al ritornello con la chitarra che riprende il riff iniziale e il tempo secco che conferisce una bella spinta al brano.

Ripartiamo in velocità con Ignoreland, la terra dell’ignoranza. Qui c’è un bel ritmo e una melodica che ti si attacca addosso come le zanzare d’estate, il testo è martellante ed è un’altra invettiva contro i repubblicani: “questi bastardi hanno rubato tutto il potere alle vittime degli U.S./ Mettendo a soqquadro tutte le cose vere e virtuose”: poi chiosa “so che questo è solo vetriolo, non è una soluzione/ma mi sento meglio dopo averlo gridato, non credi?”.

In Star me Kitten troviamo un piccolo omaggio dei R.e.m. ai Beach Boys con voci e organo di sottofondo e una semplice linea di chitarra a tracciare il cantato. L’atmosfera è rarefatta, sognante, una densità aerea che ritornerà in molti brani dei ’90.

La successiva Man on the moon è un altro singolo spacca classifica. Aperto da un gran giro di basso questo è un brano leggendario del gruppo di Athens dedicato al grande comico statunitense Andy Kaufman. Con i suoi riferimenti alle teorie del complotto sulla morte di Elvis e sull’allunaggio questa canzone è diventata un vero e proprio cult. L’asimmetria dei versi, buttati giù separatamente dalla musica, dona alla canzone un fascino sbilenco amplificato dal riff di chitarra eseguito con l’effetto slide.

Di solito in musica arriva prima la melodia e solo in momento successivo le parole per via della loro versatilità. In Nightswimming invece le parole sono arrivate subito, come racconta Buck, e solo in un secondo momento da un’idea melodica per piano suonata da Mills si è arrivati alla canzone completa. Il brano, con il suo notevole arrangiamento di archi, è uno dei miei favoriti del gruppo con il suo ritratto di vari momenti notturni che ispirano un grande senso di pace, di “lascia che sia” ma anche di una dolcezza infinita, una ninna nanna per adulti.

Arriviamo dunque al brano conclusivo a questo concept album delle emozioni: Find the river. Questa bella ballata si apre con una melodia di armonica, semplice e delicata. Qui non ci sono sentimenti di amarezza, malinconia è forse la traccia più positiva dell’album, un invito a rimanere ottimisti perché alla fine il “fiume va nell’oceano”.

Quale risposta dunque alla domanda iniziale? Credere nelle piccole cose come nelle grandi, accettare le fasi positive come quelle negative ma anche non vivere con passività. Giocarsi quindi il tutto per tutto, vivere da protagonisti sempre non dimenticando il rispetto per l’altro.

Questa è la grande lezione zen dei R.e.m..

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