L’urlo primitivo di John Lennon
La nuova rubrica "33 giri" ci (ri)presenta lo storico disco del 1970 "John Lennon/Plastic Ono Band"
Di solito ad un musicista famoso si tende a riconoscere una serie di qualità: l’avere un grande talento, un’innata dote vocale o tecnica, oppure un grande carisma. A volte il cosidetto ‘x factor’ proviene da tutti questi elementi messi insieme.
Eppure tutto questo non basta per comprendere come un ragazzo di appena 20 anni sia entrato nell’immaginario collettivo diventando un modello, anzi un simbolo. Sto parlando di John Lennon, il grande musicista inglese, di cui è ricorso poco tempo fa (il 9 ottobre) l’anniversario della nascita.
Certo, i tiggì hanno parlato del suo passato nei Beatles, dei suoi mitici occhialini tondi e del suo impegno politico di pacifista convinto. John Lennon, nei suoi 20 anni di carriera musicale, ha avuto molte vite e oggi vi parlerò della svolta solista e del lavoro John Lennon/Plastic Ono Band, un disco bellissimo che svela , oltre il talento del musicista, anche le sue fragilità umane.
Prima però facciamo un passo indietro e contestualizziamo. Siamo nell’annus orribilis 1969, i rapporti tra i 4 Beatles sono tesi per via degli scambi di mutue accuse di sabotaggio tra Lennon e McCartney (ma anche tra Harrison e McCartney) e mogli ingombranti (Yoko Ono e Linda Eastman) che entrano in sala registrazione a saturare ancora di più l’aria. La lavorazione di Abbey Road è stata ‘il canto del cigno’ di una band che sta per scoppiare da un momento all’altro. La fine del decennio trova Lennon in forte crisi d’identità: da rocker stile ‘teddy boy’ è diventato una rockstar mondiale. Nel mezzo ci sono una carica di Baronetto conferita da sua maestà Elisabetta II, un viaggio ‘spirituale’ in India, un matrimonio (e conseguente divorzio), la caduta nelle droghe pesanti e l’incontro con Yoko Ono, artista concettuale giapponese. In quell’anno John si trova a fare i conti con due dipendenze: i Beatles e l’eroina. Per curarsi da entrambe John lascia Londra (ed Abbey road) e si trasferisce a New York. In un appartamento di Manhattan celebra per il ‘bed-in’ con la seconda moglie Yoko Ono e per dieci giorni i due si fanno trovare dai fotografi sul loro letto nuziale esponendo cartelli con messaggi pacifisti. Inoltre John, convinto da Yoko, comincia a frequentare le sedute di Arthur Janov, psicologo noto per la sua ‘Primal Therapy’: tecnica di psicoterapia in voga a fine anni sessanta che prevedeva la rimozione delle nevrosi lavorando sui traumi infantili del paziente, inducendolo a rivivere quello stadio primario per scoprire le origini della propria sofferenza.
Ma torniamo all’album, John Lennon/Plastic Ono Band dicevamo. In realtà non è il vero e proprio primo album solista di Lennon, in quanto già a partire dal 1968 il beatle conduceva esperimenti solisti più o meno azzeccati. Nel 1969 però John vuole definitivamente cambiare pagina, chiudere con il passato, con i Beatles. Lui e Yoko incidono due lavori solisti paralleli con la band Plastic Ono Band ed a gennaio ’70 pubblicano i rispettivi album: John Lennon/Plastic Ono band e Yoko Ono/Plastic Ono Band. I due album presentano anche la stessa foto di copertina: la coppia che prende il sole appoggiata ad un albero in un bosco. Nella versione di John è lui che tiene fra le braccia Yoko mentre nella versione di Yoko è il contrario. Ma chi c’è dietro la Plastic Ono Band, oltre a Yoko e John s’intende? Vecchie conoscenze. Potremmo dire che la band non è altro che un ‘power trio’ composto dal beatle Ringo Starr, lo stesso John a voci, chitarra e piano e una vecchia conoscenza dei Beatles, Klaus Voorman al basso.
Mai un disco si potrebbe aprire in maniera più triste di questo, dove nei primi 30 secondi ascoltiamo il suono di campane a morto. Poi, pulita e decisa, entra la voce di John accompagnata da un piano stentoreo, seguito da batteria e basso. La prima parola è il paradigma di tutto l’album: ‘Mother’, madre. La prima canzone parla di Julia, la madre morta in un incidente stradale nel 1956 che l’adolescente John aveva appena ritrovato. Per Lennon questo è Il trauma, la sofferenza più grande e segreto motore della sua musica. Ed in questa canzone che l’ex-beatle mette in musica il metodo terapeutico de ‘l’urlo primario’ appreso nella terapia con Janov. La canzone ha pochissimi accordi le cui linee melodiche sono divise tra strofa, prima parte della canzone, e ritornello, la seconda parte. Qui il pianoforte accelera sempre di più e la voce di Lennon, da lamento suadente, si trasforma nel grido disperato di un bambino che urla: mama don’t go, daddy come home (mamma non andare via, papà torna a casa). Con una strumentazione ridotta all’osso è la stessa voce di Lennon a diventare uno strumento, un ruggito che riproduce tutto il senso di abbandono e di rabbia che il giovane John deve aver provato.
I brani seguenti hanno vanno ad ondate, rallentando e accelerando il ritmo dell’intero lavoro. La seconda traccia è Hold on. L’atmosfera è ‘chill’, la chitarra ha un andamento sognante mentre il testo invece è un appello a non mollare la presa: ‘resisti John, resisti Yoko, resisti mondo, quando non hai nessuno e hai solo te stesso puoi che dire solo a te stesso: resisti!’. Con ‘I found out’ si vira notevolmente sull’acido, nel senso di suono. Qui la voce di Lennon è rauca come ruvido è il suono della sua chitarra, suonata con un buon uso dello stoppato. Il gioiello della canzone è la linea di basso che tesse una solida struttura fatta anche da alcuni giri molto belli tra strofa e ritornello. Non si rimpiange McCartney insomma.
La quarta traccia è la famosissima ‘Working class hero’. Qui Lennon rivela tutto il suo debito con Bob Dylan rivelando il suo lato cantautorale e sviscerando una canzone per voce e chitarra, schietta, che colpisce dritto allo stomaco. Non c’è nessun Vietnam eppure anche qui si parla di guerra, quella che ogni individuo combatte in questa società competitiva in cui ciò che conta è solo emergere: There’s room at the top they are telling you still/But first you must learn how to smile as you kill/If you want to be like the folks on the hill (ti dicono che in cima c’è posto/ma prima devi imparare a sorridere mentre uccidi/come fanno quelli che stanno sul punto più alto).
Tanta tristezza viene poi stemperata nella dolcissima ballata ‘Isolation’, dedicata a loro due, John e Yoko, a boy and a little girl. La canzone ha una struttura classica: strofa, un bel ponte ed infine il ritornello. L’andamento del piano è ancora un blues rallentato che regala un’atmosfera da ‘noi contro tutto il mondo’. L’ isolamento appunto è quello della coppia che, a detta dei fan dei Beatles, si portava una serpe in seno, Yoko Ono, colpevole di aver allontanato John dal gruppo. La canzone successiva, ironia della sorte, è un esempio del lato beatle di Lennon, lineare ma anche melodico. In ‘Remember’ la linea di basso è molto efficace nell’accompagnare la voce durante il ritornello interrotto nel finale dal suono di un esplosione.
Poi arriva la seconda canzone d’amore ‘Love’ anche qui una semplice ballata per piano e chitarra, ricorda quasi l’Imagine che verrà. La voce di John è solo un sussuro: ‘love is love, you and me/love is knowing we can be’, insomma Yoko è la sua musa, checché ne vogliano i fan, la donna fondamentale per la crescita artistica ed umana di Lennon. Ma ora basta dolcezza, tutto torna caustico con ‘Well, Well,Well’. Il brano è un sano rock’n’roll sostenuto da una sezione ritmica molto efficace, Ringo non tradisce mai, un riff potente e un sapiente uso della voce con tanto di ‘urlo primitivo’. La nona traccia ‘Look at me’ è figlia illegittima del White album beatlesiano e di canzoni come: Julia, Dear Prudence, Mother nature son. L’arpeggio di chitarra è ancora un omaggio alla tecnica di finger-picking che Donovan insegnò a Lennon-McCartney durante il loro soggiorno in India.
Veniamo all’ultimo brano, God, il mio preferito dell’album, vero e proprio manifesto del nuovo Lennon. La canzone ha un tono solenne ed un incipit fenomenale in cui Lennon confessa, in modo franco,che in fondo: Dio è un solo un concetto su cui noi misuriamo il nostro dolore. Poi , rendendo il pianoforte fedele compagno della sua voce, John sconfessa, una per una, tutte le divinità (personali o collettive) in cui ha smesso di credere: ‘non credo alla magia, alla Bibbia, al talento, a Hitler, a Gesù, a Kennedy, in Buddha (vedi l’India), (…)a Zimmermann (vedi Bob Dylan), nei Beatles’. Pausa. ‘Io credo solo in me, in Yoko e me’.
Ecco il riscatto da questa sofferenza: ‘il sogno è finito, che posso dire?/(…) ero il tricheco (la beatlesiana ‘I am the walrus’) ed ora sono John’. Come a dire, è stata una sofferenza ammettere che è tutto finito e, allo stesso tempo, liberarsi di tutto, ma adesso posso iniziare a essere me stesso.
Quando l’album sembra finito arriva una ghost-track, una traccia fantasma, per chitarra e voce. La registrazione è di pessima qualità e sembra quasi uno scarto, ritorna il tema della madre: ‘la mia mamma è morta, non riesco a togliermelo dalla testa, non posso spiegare, così tanto dolore non l’avevo mai mostrato’. Si chiude il cerchio aperto da ‘Mother’, non è possibile liberarsi definitivamente dei propri fantasmi, ma solo affrontarli per sapere che sono parte di noi e andare avanti.
Con questo album Lennon si guarda allo specchio e butta fuori tutto il marcio, si libera da e di se stesso, o almeno ci prova. Questa prima prova solista sarà molto fortunata e gli aprirà un decennio di successi destinati a rimanere nella storia della grande musica pop e rock, mentre la sua storia personale si concluderà tragicamente l’8 Dicembre 1980, all’età di 40 anni, in una serata piovosa davanti all’atrio di un grande albergo di New York.
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