Horses, quando il femminismo diventa Rock
Viaggio nel capolavoro di Patti Smith
La scorsa settimana avevo parlato della capacità dei Fleetwood Mac di combinare un approccio maschile e femminile a livello musicale e compositivo in un periodo in cui essere in un gruppo rock erano era prevalentemente un lavoro da uomini e alle donne non restava che il ruolo di raffinate cantautrici.
Non erano mancate delle illustri pioniere come Janis Joplin, unica componente donna del nefasto club dei 27, a contendere lo scettro del rock. La vera svolta arrivò verso il 1970 sulla scena musicale newyorkese quando un terremoto sonoro declinò il rock al femminile conservandone tutto il suo carattere schietto, viscerale, provocatorio, in una parola: iconico. Stiamo parlando della grande Patti Smith, l’artista che nella pazza ‘grande mela’ di quegli anni aveva trovato le parole giuste per diffondere il ‘verbo’ nel mondo.
Il vangelo in questione era la musica punk-rock. Digerita la sbornia del rock progressivo, a metà anni ’70 stava iniziando, su entrambe le sponde dell’Atlantico, una nuova fase musicale che mirava a riportare il rock alla sua originaria semplicità di accordi e parole, per diventare ancora più veloce.
Nello stesso periodo dalla vicina Giamaica si facevano sempre più frequenti quei ritmi in levare che da Kingston avrebbero conquistato mezzo mondo. Questo ‘verbo’ entra nelle orecchie di una ragazza americana aspirante poetessa, che vive in uno sgangherato appartamento del quartiere bohemienne di New York, il Greenwhich Village, con il suo amico/amante, l’aspirante fotografo Robert Mapplethorpe.
Maschile e femminile dicevamo all’inizio, cosa succederebbe se un musicista, vuoi per estetica, voce o attitudine fondesse questi due termini in uno? Ebbene la Patti degli esordi è l’androgena dea americana del rock. Indecifrabile è Patti ritratta dall’amico Robert in uno scatto che poi finirà dritto come cover del primo album Horses, quello di cui parleremo oggi.
Bastano solo due colori a consegnare alla storia della musica e della fotografia questa donna sottile ed elegante: camicia bianca, pantalone nero e uno sguardo che non ha paura di sfidare l’occhio del fotografo. La posa potrebbe essere quella di una pubblicità della linea maschile di Armani con la giacca appoggiata sulla spalla sinistra e una cravatta slacciata che pende, come due bretelle, sulla camicia. Una posa da ‘dura’ addolcita dalle mani che giocano a sfiorare la cravatta mentre un piccolo braccialetto nero fa la sua comparsa dal polso destro. Ovviamente il merito non è solo del carisma di Patti Smith ma anche del talento smisurato del ragazzo dietro l’obiettivo, Mapplethorpe,
destinato a diventare uno dei ritrattisti più importanti del ‘900.
Ma torniamo ad Horses: 4 traccie per lato, 8 brani tra canzoni ‘semplici’ e vere e proprie poesie musicate. E non ci potrebbe essere apertura più sfrontata di ‘Gloria: In excelsis Deo’, cover di un brano del cantautore Van Morrison. Pur mantenendo il carattere selvaggio e ruvido della versione di Morrison, quella di Patti Smith si differenzia già dall’apertura recitata: ‘Jesus died for somebody sins but not mine. (…)Thick heart of stone, my sins my own they belong to me.Me’ (Gesù è morto per i peccati di qualcuno ma non per i miei. Sottile cuore di pietra, i miei peccati, i miei appartengono a me. A me).
Poi una chitarra distorta e un ottimo piano blues fanno il resto mettendo in scena questo colpo di fulmine tra il narratore/narratrice e una ragazza, incontrata ad una noiosa festa, che porta il/la protagonista ad un vero proprio inseguimento per conquistare questa ragazza ‘so good, so fine’, chiamata Gloria, per l’appunto. ‘Le persone mi dicono: sta attenta!ma a me non me ne importa!’, canta Patti mentre racconta la storia tra malizia e spavalderia. Il ritmo incalza e la voce, al limite del falsetto, sembra una via di mezzo tra un ruggito e un orgasmo. Il finale è un vero e proprio vortice di batteria, piano, canti e controcanti che culminano nel finale collettivo al grido di: ‘G-L-O-R-I-A,
GLORIA!’.
Il fascino dell’ambiguità sessuale influisce anche sulla seconda traccia che, musicalmente parlando, completamente. ‘Redondo beach’ è un reggae-rock rilassato che fa da sponda al titolo esotico, proiettando l’ascoltatore su una spiaggia caraibica. Invece il testo è tutt’altro che vacanziero.
Scritta dalla stessa Patti con i musicisti Richard Sohl e Lenny Kaye, la canzone tratta del suicido di una donna a seguito di un litigio con il narratore/narratrice della canzone. A seconda delle chiavi di lettura date dalla stessa Patti, il punto di vista potrebbe essere sia femminile, e quindi trattare di un amore lesbico, sia maschile, per via dell’abitudine della Smith di scrivere testi ‘al maschile’. Ad ogni modo la spensieratezza del cantato e la brillante melodia rende la canzone appetibile come una birra ghiacciata nella calura d’agosto.
La terza traccia, ‘Birdland’, è la prima poesia musicata del disco. In 9 minuti viene narrata la storia la visione fantastica che ha un ragazzino durante il funerale del padre. L’interpretazione è magistrale e magnetica come in un reading di poesie. La trama musicale tessuta dalle chitarre e dal piano esalte dilata la recitazione che spazia dal linguaggio comune, Mohammed the boxer (Mohammed il Pugile), all’onomatopea che restituisce la chiave d’interpretazione del brano: ‘shaman do wop/ da do way’, lo sciamano segna la strada.
Dal sacro si passa al profano, il brano che chiude il lato A è ‘Free money. Ad aprire c’è un pianoforte melanconico che puzza di disillusione. Entra il basso, la voce di Patti e la batteria: every night before i go to sleep/ find a ticket, win the lottery (ogni notte prima di andare a dormire/trovare un biglietto/vincere alla lotteria). I soldi gratis, guadagnati senza fatica, con cui si potrebbero comprare all’amata tutte le cose che desidera ma anche un jet supersonico, che porta dritti nello spazio, tra i pianeti, e poi nella caldissima Arabia o al freddo delle nevi. ‘Sognamo, sognamo/soldi gratis’.
Quando la puntina si appoggia sul lato B,arriva ‘Kimberly’: basso e batteria segnano il ritmo, sostenuti dall’organo. La melodia cambia tono e Patti ruggisce: ‘sorellina/il cielo sta crollando/non m’importa/il destino ti sta chiamando’. Qui la chitarra in levare e l’organo sbarazzino, con una sezione ritmica senza sbavature, rischia quasi di anticipare l’enfasi lirica del Bowie di ‘Heroes’, ma la coda è troppo rilassata e si alleggerisce tra battiti di mani. Decisamente più lunare e sofferta è Break it up’ che vanta una scrittura a quattro mani con la collaborazione di Tom Verlaine, colonna portante dei Television e vero pilastro della new wave americana.
Oltre alle liriche, Verlaine porta in dote un pianoforte dal riff inquieto, una chitarra ululante e cambi ritmi tra strofa e ritornello.
Sempre emotivo il cantato di Patti Smith, che ad un certo punto sembra percuotersi la gola, imitando l’effetto della chitarra.
La settima traccia è quella di ‘Land’, altra poesia musicata e vero capolavoro dell’album. Questa canzone-fiume di 9’25 minuti batte per lunghezza la precedente ‘Birdland’ e brilla per il perfetto incastro tra musica e parole, che si completano a vicenda e trasformano le situazioni narrate in sensazioni reali. Al centro c’è sempre un ragazzino, Johnny, e una visione. Il testo è un flusso di coscienza dove Patti Smith e il suo gruppo gettano nella mischia di tutto: citazioni musicali, ‘Land thousand dances’ di Fats Domino (una specie di ‘Gioca joue’ ante-litteram) o ‘Jhonny be good’ di Little Richards, influenze letterarie (l’amato Rimbaud) e giochi di parole. La canzone è una
cavalcata sonora e narrativa a tratti psichedelica che porta Johnny/Rimbaud dove ‘there is no land but the land of possibilities’ (non c’è alcuna terra se non quella delle possibilità).
Alla fine il sogno svanisce e la canzone si chiude con l’immagine di un uomo che danza tra le lenzuola al ritmo di una
canzone rock’n’roll. Che sia stato tsolo un sogno? Passano pochi secondi di silenzio ed ecco l’ultima traccia ‘Elegie’ che si apre tra le note di una chitarra dai suoni sinistri. D’altronde non ci si potrebbe aspettare altro da un elegia. Infatti siamo in pieno spleen:’stasera non so cosa fare(…)/ci deve pur essere qualcosa da sognare/trombe, violini, li sento in lontananza/è troppo triste che i nostri amici non possano essere con noi stasera’. Ed in questa atmosfera di solitudine finisce il disco.
Ma Horses è tutt’altro che il suono di una sconfitta, è il manifesto di Patti Smith. Si può essere donne a fare un rock’n’roll adrenalinico e provocatorio ma anche in grado di esprimere la poesia del grande cantautorato. Icon questo disco Patti apre la strada a tutte le adepte presenti e future che non di essere affascinate dal rito del rock’n’roll. Inoltre, per i più curiosi, vorrei segnalare la bella autobiografia di Patti Smith: Just Kids, che ripercorre la sua carriera e, soprattutto, la suaamicizia con l’amico di una vita, Robert Mapplethorpe.
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