“C’è qualche lurido negro qui stasera?”
La libertà di parola è un ebreo e si chiama Lenny Bruce
“Jūs dēls kuce”.
Molto bene, vi siete offesi? Probabilmente no, perché pochissimi fra voi conosceranno questa lingua. Si, ecco, era un insulto, quel genere di insulto al quale, se ve lo dicessero per strada, senza indugio rispondereste con un pugno in faccia all’istante.
Cosa che non avete però sperato di fare a me se fosse stato possibile scavalcare la barriera elettronica, e ciò solo perché non siete stati in grado di tradurre quelle parole, quei segni in significati.
Una parola non è altro che il codice di accesso per aprire la porta blindata e raggiungere un determinato contenuto, un concetto insito nella nostra banca dati cerebrale.
Facciamo un esempio: proprio accanto alle casseforti “mamma” e “papà”, troviamo proprio lì all’ingresso, la cassaforte “cibo”, che riusciremo ad aprire con diversi codici accumulati durante la nostra esperienza di vita. Al primo posto troviamo “pappa”, poi “cibo”, poi “food” dalle elementari, “nourriture” dalle medie, “cibum” dalle superiori e “comida” dai tempi dell’Erasmus. Insomma, più lingue si conoscono, più codici possibili per aprire una stessa cassaforte possederemo.
Ciò accade pure con i sinonimi e con le tanto calunniate parolacce, il che, spero comprendiate la mia perplessità, fa un po’ sorridere perché (se hai meno di cinque anni non continuare a leggere potresti trovare parole a te ancora sconosciute…forse) a dire “pene”, o “pisello”, “cazzo”, “minchia” si va a finire sempre con l’aprire la stessa cassaforte di significato e quindi perché definire dispregiativamente la peccaminosa parola con due “z” ed autorizzare in qualsiasi contesto l’utilizzo della parola “pene”?
Verrebbe infatti da pensare che la vera oscenità, per l’opinione pubblica, stia nella parola, nel vocabolo, il cosiddetto “Significante”, quindi piano dell’espressione e non nel suo “Significato”, piano del contenuto. Sembra però impossibile condividere una tale presa di posizione, in quanto poco sopra dimostrato che le parole sono state create dagli uomini, viventi in uno stesso territorio, per “comprendersi”. Una sorta di legenda condivisa tra loro appunto e perciò, continuando con le ipotesi, chi non possedesse la conoscenza dello svedese, non troverebbe gravoso l’utilizzo da parte di terzi della parola “knulla” davanti al proprio bambino, e ugualmente il bambino non svedese non verrebbe in alcun modo turbato da quella parola tutt’altro che pulita.
E quindi? E quindi, ciò che sto cercando di dire è che è proprio giunta l’ora di tornare a spolverare un po’ di Lenny Bruce, meglio noto come “la coscienza d’America”. Quello da cui Simon & Garfunkel hanno conosciuto la verità, come dice una loro vecchia canzone, quello che gli Stati Uniti hanno portato al suicidio indiretto, quello a cui volevano togliere la parola, quello che volevano sottoporre a perizia medica all’ospedale psichiatrico perché si batteva per destare gli uomini dal sonno della ragione indotto dal sedativo della luccicante bugia di stato.
Quel Bruce poeticamente raccontato nel film Lenny (1974) di Bob Fosse, regista e coreografo pluripremiato per i suoi celeberrimi musical cinematografici come Cabaret, All that Jazz e Sweet Charity e teatrali come Chicago, che ha scelto di raccontare sotto forma di un mockumentary in bianco e nero la storia fatta di battaglie tra palcoscenico e tribunale di uno stand-up man americano che smascherò la malattia e l’ipocrisia della società, magistralmente interpretato da Dustin Hoffman.
“Non puoi mica scrivere “Tette e Culi” su un’insegna. Perché no? Ma perché è volgare, è sporco ecco perché. Le tette sono sporche e volgari? No, non mi prendi in trappola. Non sono le tette, sono le parole. Le parole! Non si scrivono certe parole dove anche un bambino può vederle. Il tuo bambino non ha mai visto una tettina? Non ci credo. Credo invece che per te siano proprio le tette ad essere sporche. Mettiamo che l’insegna dica ‘Seni e Sederi’. Va già meglio. Interessante. Vediamo, in latino avrà anche maggiore austerità: ‘Gluteus maximus et pectorales majores ogni sera’. Così si che è pulito. Per te, schmuck….ma è sporco per i latini!”.
Questo suo famosissimo pezzo mette il luce il come ed il perché Bruce sia stato un grandioso comico ed io sia una semplice studentessa di cinema…
Lui facendovi “ridere tentando di correggere i costumi”, come vorrebbe Jean de Santeul, ed io guidandovi nella precedente banale riflessione abbiamo, chi in un modo chi nell’altro, messo in luce un problema che era tanto attuale negli anni ‘60 quanto lo è oggi, tale: la sopravvalutazione della parola e la sottovalutazione dell’immagine.
Ce lo dimostra il medium più accessibile agli italiani in questo momento: la televisione, la quale, pur essendosi oramai da anni convinta che anche se il “Papa ci guarda” si possano pronunciare parole come membro, vizio, verginità, parto e tante altre che prima erano vietatissime, oggi si continua a far bella pregando inutilmente a mo’ di sceneggiata gli ospiti dei vari talkshow di non pronunciare le cosidette “parolacce”, e poi “carina e coccolosa” (per citare i furfanti noti pinguini della Dreamworks famosi per il loro “tu non hai visto niente”, anche questo applicabilissimo alla politica televisiva) mostra la sua totale incoerenza non solo mandando in onda film che contengono quelle stesse parole volgari, ma soprattutto focalizzando la propria e completa attenzione su gesti, comportamenti ed eventi ben più traumatici e volgari per la fragile psicologia di un bambino e per il suo spugnoso inconscio, rispetto a tutto ciò che di brutto potrebbe causare nel loro cervello l’udire la parola “cazzo” o “stronzo” dette dallo Sgarbi di turno.
Parole, queste sopracitate, totalmente decontestualizzate e che dunque hanno perso il valore originario di rappresentanza in merito a quel determinato contenutento a cui alluderebbero per natura (in questo caso il pene e le feci), ma vestendo solo il ruolo di attributo ad un sostantivo o ad un concetto. Sono quindi due aggettivi feroci non autonomi inseriti nella frase per darle quella giusta forza provocatrice desiderata dall’interlocutore.
Con ciò non voglio dire che sia corretto dire parolacce ed insegnarle ai bambini, ci mancherebbe, credo solamente che prima di tappare loro le orecchie per non sentire certi vocaboli, sicuramente scurrili ma innocui, sarebbe meglio chiudergli gli occhi di fronte a certe oscenità realmente turbanti, eppure accessibilissime, mostrate con totale nonchalance dai medium.
Per meglio rendervi l’idea, giunti a questo punto, faccio intervenire nuovamente Lenny Bruce, che saprà essere molto più trasparente ed incisivo di me.
“Vedete quella bella ragazza laggiù al bancone? Ha delle bellissime tette, ma non possiamo fotografarle e metterle sul giornale perché sarebbe osceno. Ma sapete che cosa è davvero osceno per me? Che sul giornale vengano continuamente messe fotografie di tette massacrate, prese a fucilate e stagliuzzate da qualche pervertito”.Anche se oggi è forse più raro trovare le immagini dei corpi delle vittime nei giornali o alla televisione, non si dimentichi che ogni massacro, ogni violazione, ogni tortura ci viene raccontata dai medium con talmente tanta morbosità che è inevitabile concepire e crearci autonomamente delle immagini, forse anche più micidiali di quelle che potrebbero venirci mostrate, perché caricate dalle nostre paure recondite e dal nostro odio.
Allora, torno a sottoporvi all’ennesimo stimolo: presi due bambini A e B, il primo sente alla televisione un opinionista dire “mi hai rotto il cazzo”, il quale viene subito espulso dal programma per volontà della presentatrice scioccata dal comportamento ingiustificabile del suo ospite, ed il secondo sente quella stessa presentatrice raccontare di come l’Isis abbia decapitato disumanamente cinque persone innocenti, e di come Tizio abbia brutalmente stuprato la nipote ancora bambina prima di sepellirla viva in giardino. Secondo voi, quale dei due bambini è rimasto più traumatizzato?
Paul Simon e Art Garfunkel non hanno quindi esagerato dicendo di aver conosciuto la verità da Lenny Bruce, e così Bob Dylan, che al giovane stand-up man ebreo ha addirittura dedicato un’intera canzone, non è stato esagerato nel dire che il suo fantasma vive tra noi.
Come potrebbe andarsene infatti? Si sa che le anime rimangono a vagare nella terra senza raggiungere la pace se il compito che era stato loro affidato in vita non viene portato a termine con successo. Tutto ciò contro il quale lui si è battuto, ancora vige e non è stato sconfitto, è stato sostituito, camuffato da qualcosa di diverso, ma rimane palesemente se stesso se si comincia a scavare sotto gli strati di maquillage.
Ha smascherato l’ipocrisia, ha attaccato i pregiudizi e posto in discussione le convinzioni, e tutto ciò mettendo a disposizione del pubblico punti di vista alternativi, veicolando la verità attraverso la risata.
Ha subito numerosi arresti per aver utilizzato parolacce nei suoi pezzi comici, il primo fu a causa dell’uso della parola “blowjob” cioè “pompino”, in una battuta con la quale tentava di difendere due professori omosessuali i quali, dopo essere stati scoperti nella loro sessualità deviata, sono stati ingiustamente licenziati. La frase incriminata era questa:
“Li hanno ricordati come due ottimi professori. Non ci sono stati bambini che sono tornati a casa e hanno detto: Ciao mamma, oggi abbiamo avuto cinque minuti di geografia e dieci minuti di pompini”.
E’ dunque palese che l’accusa di “oscenità” a danno della morale pubblica sia stata solamente il cavillo legale a cui gli Stati Uniti d’America si sono aggrappati per scoraggiare il verbo dissacratorio di Lenny e frenare quell’enorme impatto sociale che stava ottenendo con la sua satira pericolosa, rivolta a tutti i tabù dell’epoca, che per quanto ci si voglia fingere “sviluppati post-sessantottini”, continuano ad essere argomenti delicati anche oggi, come la religione, l’omosessualità, il sesso, la pena di morte, il cancro, le malattie a trasmissione sessuale, il Ku Klux Klan, la droga e l’aborto. Siamo convinti di essere liberi di parlarne, ma sono sempre “loro” a dirci quando doverci fermare.
“La satira è tragedia più tempo – diceva Bruce – Se aspetti abbastanza tempo il pubblico, i recensori, ti permetteranno di farci satira. Il che è piuttosto ridicolo se ci pensi amico”.
E’ naturalmente ridicolo, perché la drammaticità di una vicenda non decresce con il tempo, le vittime non ritornano a vivere e i loro cari non dimenticano il dolore, la gravità non perde la sua valenza e i colpevoli non ritornano innocenti.
La tragedia rimane tale eppure, come spiega Henri Bergson, l’apprezzamento della situazione comica prevede qualcosa come un’anestesia momentanea del cuore. E l’empatia, l’identificazione con l’individuo o la cosa oggetto del riso scompare. Le persone dimenticano presto, sostituiscono la disgrazia passata con un’altra più attuale, che li fa ora piangere e mandare messaggini di supporto economico per sentirsi persone migliori e che presto verrà lei pure tradizionalmente rimpiazzata.
E allora, parafrasando il pensiero di Bruce: perché oggi un comico non può fare satira, e domani si? E perché se la fa oggi, quando la ferita è fresca viene considerato un mostro, mentre domani….ci sbellicheremmo anche noi. Sono regole queste che l’uomo si è dato, clausole fondamentali del contratto sociale che vige in questa società ipocrita, regole non palesate che ad uno come Lenny, ipermetrope di spirito, non sfuggivano e che mal venivano accettate. Una delle sue reazioni esemplari a tutto ciò, fu lo spettacolo non annullato, come fecero invece molti dei suoi colleghi, nel giorno dell’omicidio di J. F. Kennedy a Dallas, quando salì in palcoscenico ed affermò: “Povero Vaughn Meader” , il quale era un comico che aveva raggiunto il successo proprio con le imitazione del presidente Kennedy e della sua famiglia.
La comicità di Lenny Bruce, era come la musica Jazz, penetrante, superiore e libera nella sua virtuosistica improvvisazione. Usava le parole come armi, per combattere l’ipocrisia che la Società adoperava nel permettere e nell’impedire l’utilizzo delle parole stesse. Il suo obiettivo era far prendere coscienza all’individuo dell’inganno nel quale era fino ad allora vissuto e dove continua vivere, un teatro dove egli veste i panni del burattino, dove le cose sono mostrate per quello che dovrebbero essere e non per come sono realmente, dove il marcio è dipinto di oro e ciò che è veramente prezioso è ben nascosto dove nessuno possa trovarlo. Si è battuto contro ogni razzismo, contro i soprusi, conto l’osceno perbenismo, contro i dogmi pericolosi e contro la Repressione, minaccia di ogni equilibrio, e lo ha fatto con l’umorismo, la satira, la comicità, eppure è stato fatto di tutto per disarmarlo… per togliergli la parola.
“C’è qualche negraccio qui stasera? Volete accendere le luci per favore? i camerieri e le cameriere, possono smettere di servire per un momento?..
Che cos’ha detto? C’è qualche lurido negro qui stasera? Si che ce n’è uno perché lo vedo lavorare. Vediamo.. ecco là due luridi negri, e fra quei luridi negri c’è un giudeo usuraio, là c’è un altro giudeo; due usurai e tre luridi negri, e c’è anche uno spaghetti, giusto? […] E con questo siamo arrivati al punto.
E cioè che è la repressione di una parola quello che le dà la violenza, forza, malvagità. Se il presidente Kennedy apparisse in televisione e dicesse: ‘Vorrei farvi conoscere tutti i negri del mio gabinetto’, e se continuasse a dire negro, negro, negro a tutti i neri che vede, finché negro non significherà niente, mai più; allora non vedreste piangere un bambino di sei anni perché l’hanno chiamato negro”.
Lenny Bruce (1925 -1966)
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