Medea all’Area archeologica ‘La Fenice’
L’appuntamento è per mercoledì 9 settembre alle ore 21.15
Medea, dopo aver aiutato Giasone a conquistare il Vello d’oro, fugge con lui dalle barbare terre della Colchide
(Turchia/Georgia). I due, arrivati nella civilissima Corinto (Grecia), si sposano. Dal matrimonio nascono due figli. Giasone, dopo qualche anno, lascia la moglie e decide di unirsi a Glauce, la figlia del re della città. Medea, per
punirlo, uccide i due figlioletti.
Le varie interpretazioni (tentiamo di sintetizzarle)
La Medea di Euripide affronta argomenti ancora attualissimi, a 25 secoli di distanza. Medea è la “straniera”, la clandestina nel paese dell’altro, la migrante che approda alle nostre terre e deve integrarsi in una cultura
che non è la sua; è la donna che, tradita dal marito, scopre la solitudine disperata della moglie abbandonata, per di più in una città che non è la sua.
Medea è la “barbara”, guardata con sospetto, vittima dei pregiudizi. Pasolini vede in lei la rappresentante della marginalità, del sottoproletariato, dei reietti che vanno rigettati perché non sono capaci di integrarsi in un sistema
borghese: da una parte c’è il mondo moderno caratterizzato dal calcolo e regolato dalle leggi dell’economia; dall’altra c’è un mondo arcaico, governato dai riti tribali.
Medea mette in scena il confronto irrisolto tra la ragione e l’istinto: Giasone personifica il calcolo astuto, Medea la passione viscerale.
Medea è l’eroina totale, senza incertezze; è la madre assassina, crudele e innocente, giustificata dalla sua appartenenza ad un mondo diverso arcaico; Giasone è il polo negativo di Medea: è un eroe incompiuto, un modello di ipocrisia ereditata dalla cultura occidentale e maschilista, è il campione del compromesso che sceglie sempre per sé il partito migliore.
Il conflitto fra Giasone e Medea è espressione di un problema ancora vivo oggi: il mondo è disposto ad accettare i profughi, purché continuino a comportarsi da “accolti”. La civilissima Grecia è disposta ad accogliere Medea, la straniera, purché non rifiuti di piegare il capo. Il mondo moderno ha timore delle donne come Medea, perché il loro corpo fragile può far crollare i palazzi, e i marmi, e gli stucchi e i regni.
Per essere accolta nel mondo moderno, Medea deve rinunciare alla sua identità, deporre l’orgoglio femminile e indossare la veste della mansuetudine.
Medea e Giasone pagano un prezzo cruento al peccato che ciascuno dei due ha commesso: Medea, spinta dall’impulso d’amore, ha osato tradire le radici e la famiglia; Giasone, spinto dalla ragione, ha osato solcare per primo le acque del mare. Medea ha tradito perché si è lasciata tradurre dall’altra parte del mondo. Giasone va punito perché anche lui ha tradito, si è lasciato tradurre ad altre nozze. Due atti di orgoglio che vanno puniti, perché gli dei non possono tollerare la tracotanza.
La tragedia Euripide ci consegna dunque un messaggio di assoluto pessimismo e grande attualità: chi non si uniforma alle regole che governano le convenzioni sociali e non si adegua ai modelli dominanti è condannato alla solitudine, oppure a un processo di autodistruzione.
La psicanalisi si è rivelato uno strumento formidabile per indagare nelle pieghe più riposte dei vari messaggi contenuti nella tragedia.
Medea non è soltanto estranea agli altri ma anche, e soprattutto, estranea ai suoi pensieri omicidi. Lei percepisce che nelle zone più profondo del suo subconscio si annidano le furiose reazioni che tentano di emergere.
Nasce di qui il doloroso e disperato tentativo di rimuoverli, di negare questi pensieri omicidi che sente estranei alla sua natura di madre. Ma quando la sua anima fragile non riesce più a contenerli, la sua personalità si scinde e
la parte più violenta di sé proietta sui figli e sugli altri i suoi istinti omicidi.
A questo punto, possiamo considerare semplicemente “folle” una madre che assassina i propri figli? Questa, in effetti, sarebbe la soluzione più comoda. Se non fosse che gli strumenti più moderni e complessi nell’indagine psichiatrica e degli studi psicanalitici ci rivelano altro.
Qual è la verità che si annida nel gesto folle di ogni Medea, antica e moderna? Una verità, fra molte altre, è che diventare madre si paga con la rinuncia ad essere donna; si paga con l’accettazione consapevole che l’uomo non è
più mosso dalle stesse pulsioni sessuali verso la donna ormai divenuta madre. Sono state soddisfatte le leggi della natura: lui ha generato, lei ha procreato. Lui può liberare ancora l’antico “cacciatore” dalla sua latitanza profonda,
lei può dedicarsi ad accudire la prole.
Ma ci sono donne che, rifiutando il rifiuto di sentirsi accettate, rimuovono il loro ruolo di madre, e aprono un altro fronte sul terreno di scontro delle pulsioni che si agitano nel sottosuolo della psiche.
La donna supera la freudiana “invidia del pene” colmando, con la procreazione, il fatto che lei non possiede questo organo di riproduzione maschile. Il lungo periodo che la porta alla procreazione è costantemente caratterizzato da un pensiero nascosto, da un’ansia malcelata, da un sogno che immagina per sé un figlio perfetto, ideale, quello è il
gergo psicanalitico viene definito “figlio della notte”. Mentre, sotto, nel profondo, c’è l’ossessione di generarlo imperfetto. E questo, una madre non lo può accettare: non può accettare il limite costituito dalla nascita di un
figlio reale sul quale proietta i suoi incubi. Le vie del pensiero che agisce nel subconscio sono tortuose, labirintiche: e così, la sindrome di Medea spinge la donna a percorrere varie vie: o sopprime i figli, per castrare il padre
colpevole di averli procreati dentro di lei; oppure sopprime il padre e figli per ritornare nella sua primitiva condizione femminile.
Oppure, nei casi più diffusi della nostra quotidianità, quando due persone si separano, la sindrome di Medea spinge la donna ad amputare il padre,, togliendogli la custodia, o comunque il legame, con i figli.
E, dal momento che abbiamo appena fatto cenno alla quotidianità, possiamo aggiungere che, di fronte ai diffusi avvenimenti di cronaca di madri assassine, non è facile per gli studiosi tentare di scoprire quali motivazioni si annidino nei gesti folli delle moderne Medee. Si tratta certamente di madri alienate e alienanti, cioè fuorvianti nei confronti di ogni tentativo di indagine che tenti di scoprire le cause negate, o scisse, o proiettate, o rimosse, che si trovano sotto gli infiniti strati della coscienza, ad una profondità tale che lo stesso psicanalista esita ad
indagare.
Perché sa bene che il biglietto per quell’inferno potrebbe essere di sola andata. Potremmo considerare la Medea come metafora dei viaggi verso l’ignoto, geografico ed esistenziale, fisico e psicanalitico, che ogni essere umano
compie nel corso della sua vita.
La Medea di Christa Wolf (1996) ci porta, invece, su una dimensione diversa. La scrittrice tedesca restituisce la verità dei fatti sull’omicidio dei due bambini e sulla presunta barbarie della madre. Erano stati i “civilissimi” greci (in questo caso, i corinti) a lapidare i bambini, perché accusavano Medea di essere la responsabile di una peste che aveva colpito la città. La Wolf denuncia l’impostura messa in atto da Euripide che, “facendosi pagare 30 denari”, scrive la
Medea e opera una disinvolta “cosmesi di Stato” con la quale assolve i greci e fa ricadere l’orrore della violenza omicida sulla barbara donna. I “civilissimi” greci, che chiamavano barbare le civiltà dove le donne erano emancipate e se ne andavano in giro a testa alta.
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