La Teleneide. Storia di Sopravvivenza e di Sopraffazione
Viaggio all'interno del sistema televisivo dei nostri giorni
A quel punto, come da tradizione, mi toccava ascoltare il piagnisteo della mia vicina di casa riguardo l’uso e consumo degli strumenti tecnologici da parte dei suoi familiari. Tutto il discorso precedente sull’importanza del dormire otto ore minimo a notte, me lo ero persa.
La mia mente si era completamente dissociata, non ricordavo una sola parola, ma poco mi importava, quel farfugliare retorico ero solita assimilarlo ogni lunedì mattina da tre anni perciò alla qualsiasi di lei domanda trabocchetto tesa a testare la mia attenzione avrei saputo rispondere senza difficoltà.
Il primo giorno della settimana, la mia dirimpettaia non lavora e perciò esce di casa nello stesso preciso orario in cui io a mia volta sono solita andare a fare la spesa per i futuri sette giorni.
Noiosa e petulante come suo solito, quel giorno volle raccontarmi di quando la sera precedente, tornando a casa dalla consuetudinale passeggiata serale con il cane di famiglia
Bertoldo, che ci tengo ad informarvi, soffrendo oramai da tempo di problemi alla prostata è il nostro secondo argomento tipico di conversazione, ecco quella sera rincasando, l’invadente mia vicina, si è ritrovata marito e figli abbandonati sul divano, di fronte ad un televisore spento, a fruire ognuno dal proprio device (telefono, Ipad, Pc) un diverso contenuto audiovisivo.
Tragedia! “Qui si tratta di autismo tecnologico – iniziò a sostenere con insistenza – qui bisogna agire per riportare tutto alla normalità. Bisogna prendere provvedimenti! – ma quali? – bisogna requisire tutto! La televisione basta e avanza! E poi ne abbiamo tre in casa, mica una! – a bhe allora … – ne avranno di scelta!”
Preferii non rispondere subito. Incidere nell’aria parole a caso, specialmente di derivazione mediatica, sostenute su di un pluritestato sentito dire e argomentate dalla dubbiamente autorevole intuizione casalinga non è una pratica a me congeniale, e il dover rispondere a affermazioni di questa natura mi è ugualmente poco familiare, per il semplice fatto che dovrei imbastire un’antitesi usufruendo dello stesso linguaggio prêt-à-porter per non far apparire il mio discorso illogico ed inadeguato.
“Marshall Mcluhan – chiesi dopo vari minuti di silenzio – lo conosci?“. Rispose un po’ titubante che ne aveva forse letto in qualche articolo, e che era sicura avesse a che fare con i media e le conseguenze che questi determinano nella società e nell’individuo. Non aveva affatto torto la mia vicina, era proprio lui. Perciò, sondato il terreno e comprovata l’esistenza di una buona base di partenza, continuai riportandole alla mente la famosa frase che sintetizza nella cultura popolare l’intero pensiero del sociologo canadese, ossia “Il medium è il messaggio”, estendibile all’importanza di studiare i media non tanto analizzando i contenuti che questi veicolano, ma ponendo lo sguardo sui criteri strutturali con cui questi organizzano la comunicazione.
Inaspettatamente, l’estroversa quarantenne della porta accanto, si stava dimostrando ben predisposta all’ascolto, e fu proprio in quel momento di accondiscendenza che mi introdussi nuovamente squarciando il silenzio con la mia ipotesi, traducibile nell’essere costretti oggi a sostituire la tesi di Mcluhan con quella proposta da Aldo Grasso in uno dei suoi ultimi saggi, e cioè “Il contenuto è il mezzo”, in quanto fruibile attraverso diversi strumenti tecnologici e perciò abbastanza adulto da essere capace di sorpassare il medium originale.
Cosa volevo dire con tutto questo? Semplicemente che la sua famiglia in quella famosa tipica sera in cui fu colta nella flaglanza di abbeverarsi di un contenuto audiovisivo dal personal computer o dal tablet, in realtà stava guardando la televisione senza utilizzare il televisore.
Se ci dovessimo confrontare con lo strumento televisivo prendendo come metro temporale la sua storia, potremmo senza dubbio affermare di svolgere il ruolo oggi di esseri viventi fluttuanti nell’epoca virtuale della Convergenza, ovvero l’intervallo temporale nell’evoluzione mediatica caratterizzato da alleanze, abbattimento di frontiere e incontro tra settori differenti della comunicazione.
L’acerrima cattiva maestra popperiana, nemica “sempre per sentito dire” della cultura, ha saputo reagire a tempo debito, di fronte all’avanzata dei nuovi media, conducendo pratiche di migrazione del proprio “contenuto”, assunto come vissillo, sugli altri mezzi di comunicazione, sopravvivendo alla modernità.
I rapporti Censis italiani, ci informa sempre Grasso nel suo saggio “Prima lezione sulla televisione”, ribadiscono che quello televisivo, nell’immaginaria piramide dei media più consumati dagli italiani, è ad oggi l’unico linguaggio mediatico universale che raggiunge la totalità delle persone, ed è in grado di comunicare con qualsiasi livello sociale. Il che, non è propriamente considerabile come un punto a suo favore.
La televisione delle origini era infatti una televisione da salotto per il salotto, cioè fatta da dei professionisti come Umberto Eco e Furio Colombo assoldati attraverso il famoso “reclutamento dei corsari”, per produrre contenuti destinati ad un pubblico medio-borghese. Oggi invece, la televisione cosidetta generalista si rivolge primariamente alle fasce deboli della popolazione, non pretendendo di elevarle culturalmente, ma solamente di allietarne il tempo libero con contenuti di natura spesso addirittura inferiore alle loro effettive capacità intellettive, nuocendo gravemente alla salute culturale di questi e del restante pubblico.
“La signora Connelly”, in versione giovane e meno perfida, continuava a guardarmi sospettosa, pareva non convincerle molto il mio discorso sulla metamorfosi della televisione, come se in realtà il medium si fosse modificato solo adattandosi ai tempi e perciò progredendo dal punto di vista “estetico” e “contenutistico” seguendo mode e costumi fino alla saturazione di questi, abbandonandosi quindi ad un “eterno ritorno” nietzschiano.
La realtà non è affatto questa, e non le somiglia neppure. Tanta era però la sua curiosità che decisi di rispolverare mentalmente le mie conoscenze e ricordandomi di quello che fu il nostro argomento di conversazione durante l’ultima riunione di condominio, ovvero di come fosse felice di aver aiutato il figlio grande nello studio del genoma e delle altre faccende di biologia della scuola superiore, pur tentennando per la paura di confondermi mi addentrai in un discorso, effettivamente un po’ troppo contorto, per cercare di farle immaginare lo sviluppo del medium in questione. E dissi:
“Immagina il processo di filogenesi umana come se dovesse avere inizio dalla fine della seconda guerra mondiale ed arrivare fino ad oggi” – mi rispose con un cenno del capo, proseguii – “ecco, partendo dal presupposto che l’ontogenesi ricapitola la filogenesi, pensiamo alla televisione come un organismo vivente che quindi ripercorre dalla sua nascita ad oggi, le intere tappe attraversate dalla società italiana dal ‘45 fino al 2015” – i cenni sta volta furono due, la situazione mi sembrava stabile, aggiunsi quindi “bene, se pensiamo al prodotto televisivo come al cibo, vediamo che in un primo periodo abbiamo “scarsità” di questo sia dal fronte televisivo che nelle pance degli italiani, poi con il passare delle decadi troviamo una larga “disponibilità”, ed infine, giungendo ad oggi abbiamo una reale “abbondanza”, di cibo e di contenuti”.
Evidentemente i cenni del capo che tanto mi avevano rassicurata non erano l’esatta traduzione di un “Si, sto capendo”, ma piuttosto di un “Vediamo dove vuoi arrivare”, insomma, la mia vicina non aveva capito nulla, ed iniziò a giustificarsi dicendo che una volta diventata moglie e mamma le si potesse chiedere tutto di supermercati, ma niente di scienze, economia, diritto o chicchessià tra personaggi storici e letterati. Ottimo le dissi, allora avrei assecondato le sue esigenze.
Immaginiamo alla televisione delle origini come ad un piccolo alimentari di gestione familiare, aperto solo in determinati orari, e in cui sono esposti e venduti pochi prodotti di ottima qualità. La scelta è piuttosto limitata, ma per ogni acquisto si va sul sicuro nei riguardi della bontà e della genuinità dell’alimento. Ecco, questa è l’immagine che si deve avere pensando alla “paleotelevisione”, ovvero la tv del monopolio Rai come istituzione, fondata sui principi di matrice britannica “istruire, divertire ed intrattenere”. La preoccupazione dei primi dirigenti era quella di usare il mezzo televisivo come strumento di promozione culturale e di crescita sociale.
Ciò fino alla metà degli anni ‘70, quando ci fu il crollo del Monopolio e subentrò la losca figura di un certo cavaliere milanese, che rese la televisione paragonabile ad un enorme Supermercato. Grande quantità di prodotti a disposizione dei clienti-spettatori, introduzione di programmi e format stranieri, una sorta di prodotti gastronomici di dubbia provenienza, studio del target per il palinsesto e la pubblicità (disposizione dei prodotti negli scaffali?), sviluppi della tecnologia e del mercato, come l’avvento del telecomando/carrello della spesa, e aumento dei tempi di trasmissione (orario continuato, H24 anche dal fronte supermercato).
Ecco dunque che si è giunti ad oggi, all’epoca televisiva incominciata nel 1995 con l’irrompere delle nuove tecnologie: tv satellitare, digitale terrestre ed ora la Tv online. Un’epoca caratterizzata dall’incrocio della televisione con le nuove forme mediatiche, che ha dato origine così ad un prodotto “ibrido”, che almeno oggi non si è in grado di definire senza perplessità ed esitazione. Mantenendo la metafora, questo periodo storico-televisivo può essere immaginato come l’e-commerce, un illimitato discount virtuale in cui è possibile acquistare qualsiasi prodotto, dal comune al più ricercato attraverso il web.
Vorrei perciò terminare consigliandovi di immaginare la televisione come la famosa confezione degli alimenti moderni, che ci presenta un’immagine di essi di gran lunga migliore rispetto alla loro reale essenza. Ecco, a tale proposito torno a citare Aldo Grasso, che dice “Oggi conta sempre meno che la televisione dica il vero, ciò che conta è che la televisione sia percepita come vera”.
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