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Intervista a Ruben Lagattolla, l’autore di ‘Young Syrian Lenses’

Il documentario verrà presentato al Cinema Gabbiano di Senigallia il 15 aprile - VIDEO

Young Syrian Lenses‎

Verrà presentato nella serata odierna del 15 aprile alle ore 21.00 il documentario Young Syrian Lenses girato ad Aleppo in Siria, tra il 30 aprile e il 9 maggio 2014. Il film girato da Ruben Lagattolla e co-diretto con Filippo Biagianti, racconta la vita dei media-attivisti attraverso i tragici episodi che si verificano ogni giorno nella città, sotto assedio del regime di Bashar al Assad, da quasi quattro anni.

Le immagini documentano il lavoro del gruppo di giovani reporter del network Halab News(halabnews.com), una vera e propria brigata della resistenza siriana contro il regime che, invece di impugnare gli AK-47, ‘combattono’ attraverso gli obiettivi delle loro macchine fotografiche.

Ruben Lagattolla lavora come operatore dal 2007 dopo essersi laureato in lingue e letterature straniere. Dal 2009 alRuben Lagattolla 2011 ho collaborato con la produzione Telemaco per una serie di documentari girando in molti paesi, in particolare nei Balcani e nel Medio Oriente. Ha vissuto a Belgrado nel 2012 esplorando e lavorando a diversi reportages sulla condizione dei Serbi nelle enclaves in Kosovo. Nel 2011 ha iniziato la collaborazione con la prof. Emanuela C. Del Re e con l’agenzia EPOS con cui ha poi girato un documentario sulla coesistenza religiosa in Israele (Haifa’s answer) e con cui poi ha realizzato vari documentari diretti sempre dalla prof. Del Re nel Kurdistan Iracheno.

 

Da dove nasce la volontà di raccontare la storia dei mediattivisti siriani? Qual è la genesi di Young Syrian Lenses?

Il mio desiderio di raccontare la guerra in Siria nasce nel 2013 quando ho iniziato a collaborare come film-maker ad un progetto dell’agenzia EPOS (www.eposweb.org) che si occupa di formazione nei campi per rifugiati siriani nei paesi confinanti. Quando ero in giro per i campi profughi in cerca di storie, ho incontrato moltissime persone a cui chiedevo di raccontarmi il momento in cui hanno lasciato la propria casa e se ne sono andati, di descrivermi le condizioni in cui lo hanno fatto e i perché. E’ stato molto difficile ottenere delle risposte, in quanto i rifugiati si trovavano (e si trovano ancora) in uno stato di trauma, individuale e collettivo, in cui non riuscivano a pensare ad altro se non al presente. Da lì è nata la mia curiosità.
L’anno scorso poi, si è presentata l’opportunità di farlo quando ad una mostra fotografica ho conosciuto il fotografo Enea Discepoli. Lui stava per tornare per la terza volta ad Aleppo, per organizzare una mostra fotografica proprio lì, nel bel mezzo dei bombardamenti, con i media-attivisti, proprio quelli che poi ho ritratto nel nostro documentario.

Le notizie che giungono in Italia ed in Europa sono alquanto frammentarie e scarne: come ti spieghi questo ‘vuoto’ informativo nonostante la gravità del conflitto civile che si sta consumando in Siria?

Non posso occuparmi di criticare l’informazione, non sono un esperto. A senso, da semplice cittadino posso dedurre che ci sia interesse affinché le cose rimangano tali.

Raccontaci la tua esperienza in Siria: come sei entrato sul territorio? Come si svolgevano le giornate a fianco dei soldati media attivisti? Sei stato aggregato ad una Katiba?

Io ed Enea Discepoli siamo entrati in Siria il 30 aprile 2014 tramite un passaggio clandestino tra Turchia e Siria a soli 80Km dalla città di Aleppo. Una volta arrivati ci siamo subito resi conto che la mostra che volevamo fare sarebbe stata impossibile, per cui mi sono dovuto reinventare la narrativa del film che volevo girare. Le 9 giornate passate ad Aleppo sono state davvero molto lunghe ed intense, un’occasione anche per riflettere sul nostro stile di vita e sul fatto che, probabilmente, proprio questo stile di vita agiato, sotto una campana di vetro, in parte lo dobbiamo a ciò che sta succedendo in Medio Oriente da decenni.
Nel documentario (diretto da me e da Filippo Biagianti) seguo il lavoro dei media-attivisti del network halabnews.com. Loro, Karam Al Halabi in particolare, sono stati la nostra costante guida. Non mi sono mai staccato da loro, perché ad Aleppo è sufficiente camminare sul lato sbagliato di una strada qualsiasi per farsi sparare addosso da un cecchino.
Il lavoro è stato di confronto e ricerca quotidiana di situazioni utili ed esemplari a raccontare la follia della guerra dal punto di vista dei civili, non dei militari, infatti i media-attivisti non sono dei militari, e per rispondere alla tua domanda: non mi sono mai affiliato o non ho mai seguito una brigata combattente, ce ne sarebbe stata l’opportunità, ma non ho voluto farlo, primo perché avevo paura, e secondo perché volevo raccontare questa guerra dal punto di vista civile, di viaggiatore, di osservatore, non di “tifoso” e questo è ciò che ha poi portato anche al patrocinio di Amnesty International Italia.

 Quant’è prezioso il lavoro fatto dai Media-attivisti’?

Il lavoro dei media-attivisti è molto importante, perché è quasi l’unico che ci permette di avere notizie direttamente dal campo. Quello che penso però è che nella maggior parte dei casi si tratti di un lavoro ancora immaturo dal punto di vista della comunicazione.

Il governo di Assad spesso ha accusato le ESL (Esercito Siriano Libero) di voler trasformare il paese in uno stato islamico radicale? Qual è la tua opinione ora che l’ombra dell’Isis imperversa in gran parte del Medio Oriente?

La mia opinione è che la Rivoluzione sia nata come manifestazione pacifica e pacifista, e questo è dimostrato dai fatti. La rivoluzione è stata sabotata, e manovre del genere possono essere fatte da poteri che non stanno tra il popolo, ma che detengono le dittature.

Qual è il ricordo, l’istantanea mentale più indelebile che ti sei portato via dalla tua permanenza in Siria?

Il ricordo che purtroppo mi porto dietro anche di notte è la visione di così tanti morti, cadaveri ovunque fatti a pezzi come nel peggior film dell’orrore, sono scene che sono presenti anche nel documentario. Quando siamo tornati a “casa” dopo aver assistito a quel massacro ho pensato che mai nessuno riuscirà a raccontare l’esperienza della guerra in maniera esauriente. Uno dei miei personaggi dice “vedere non è come raccontare”, ed è proprio vero. Penso che finché non capisci che la tua vita può finire nei prossimi 60 secondi, per me italiano come per un siriano, con la stessa probabilità, non capirai mai fino in fondo che cos’è la guerra e perché queste persone si avventurano poi in viaggi disperati in mezzo al mare per arrivare fino in quell’Europa di cui non sappiamo fare altro che lamentarci.

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