Screenshot, rapida incursione nel mondo del teatro
Intervista a Francesco Pancotti, giovane autore senigalliese che sta debuttando a Padova
Cari amici, ho ritenuto giusto per questa settimana, prenderci una pausa dal nostro caro amato Cinema, per volgere un rapido sguardo verso un’altra grandiosa Arte … il Teatro, raccontandovi la storia di un giovane senigalliese e del suo teatro, emigrati… al Nord. Buona Lettura.
Francesco, come nasce e quando la tua passione per il teatro?
Nasce in modo molto semplice. Ho iniziato a leggere alle superiori moltissima poesia, specialmente quella che si rifà al Maledettismo e così è sbocciato quest’amore per tutti i mezzi e i meccanismi di espressione che ci permettono di tirar fuori da noi stessi e da ciò che ci circonda l’essenza vera delle cose. E da questa mia passione per la poesia segue la lettura di Nietzsche “La nascita della tragedia”. Da li è stato un lampo, una folgorazione, ho sentito la fortissima urgenza di scrivere una tragedia.
Parlaci allora di quella che fu la tua prima tragedia.
Mi viene da sorridere a sentirla chiamare tragedia. Diciamo che fu un’opera giovanile, un primo tentativo di fare una drammaturgia completa. Il titolo è Francis, è la storia di un ragazzo che abbandonando la famiglia, quindi il nido, incontra il mondo, un luogo insicuro ma affascinante. E’ un dramma a stazioni, un’ opera che si evolve tramite incontri di diverso tipo, il primo è con una donna, poi con la città in tutte le sue sfaccettature, dagli ubriaconi ed un vagabondo, personaggio poetico che traccia un ponte con l’atto quarto, un intervallo di estasi giovanile che ho raffigurato tramite un momento lirico totale fatto unicamente di poesia e bonghi. Una recitazione estatica fatta di contemplazione dell’assoluto e degli oggetti. Il pensiero che genera i legami fra le cose, che esprime l’emozione. Il sentire dell’essere umano permea completamente la realtà. E questo momento di grande febbre, di grande eccitamento interiore, porta ad una conclusione drammatica: la morte del personaggio, una morte catartica e riconciliante.
Ricordo una bellissima frase dal film Il Postino, ultima interpretazione di Massimo Troisi, in cui il personaggio di Mario dice : la poesia non è di chi la scrive, ma di chi se ne serve. Tu hai una poesia che senti tua in questo senso?
Quella che mi fai è una domanda molto complessa, sono molti infatti i poeti che mi accompagnano quando scrivo, che sento vivi fra i miei versi. Un autore per me molto importante è Ungaretti. C’è una strofa da L’Allegria al quale sono particolarmente affezionato che cito testualmente : “Quando trovo in questo mio silenzio una parola scavata è nella mia vita come un abisso”
Parliamo di Padova, di ciò che stai mettendo in piedi nella tua Università, raccontaci della genesi di quest’opera e della sua edificazione.
L’idea per questa mia opera, nasce appunto dalla lettura di un’altra poesia di Ungaretti, L’Isola, dalla quale il mio scritto prende spunto e nome. In questa poesia non esiste un Io, c’è la discesa di un personaggio anonimo e molto della mia opera è stato concepito appunto partendo dall’immagine di questo Poeta che, inoltrandosi in delle visioni oniriche, riesce a cogliere un po’ quegli ambienti, quelle sospensioni, quelle dilatazioni, quei torpori. Sono oramai mesi che dirigo una neonata compagnia teatrale nella realizzazione di quest’opera che vede come protagonisti otto personaggi ed un Poeta, che sognerà tutta la vicenda. I personaggi sono una sguattera, la escort di un imprenditore, un prete ex missionario dal Ruanda, il menestrello francese della nave, un cuoco della Papua Nuova Guinea e Giano Bifronte, una figura mitologica che ho tentato di attualizzare. Una delle figure mitologiche più antiche d’Italia, egli rappresenta il prima e il dopo, è un varco, un passaggio, aprirà e chiuderà l’opera teatrale. Questa tragedia si snoda portando i propri personaggi a vivere e a viversi in quest’isola onirica. Con un Climax ascendente tireranno fuori tutti i loro traumi, le loro psicologie, i loro drammi, i loro amori, i deliri, l’estasi e le allucinazioni. Il poeta, fil rouge dell’intera opera, a sua volta si calerà dentro se stesso.
Una bellissima storia, pregna di immagini evocative, perché hai scelto la forma del teatro e non quella del cinema? lo hai fatto per esigenze estetiche o per un semplice motivo dettato dalla mancanza di mezzi?
Il teatro e cinema sono due cose molto diverse. Il teatro è vivo e crea un rito in cui il pubblico è in grado di toccare gli attori. Il cinema nasce morto, non ha una appartenenza al hic et nunc. Anche io amo molto il cinema e sono consapevole che la materia della mia opera potrebbe senza molte difficoltà essere traslata ed adattata ad uno schermo, il Teatro però è la mia origine, vengo già da due esperienze piuttosto formative sul palcoscenico. Comunque vedo e voglio vedere il Cinema nel mio futuro.
Legandomi a questo concetto di cinema e teatro come due cose molto differenti, voglio portarti l’esempio di Luchino Visconti, grande uomo di Cinema e di Teatro. Portò al teatro uno svecchiamento non indifferente ed introdusse il concetto di regia teatrale assieme a Giorgio Strehler, ma fu contemporaneamente anche un grandissimo direttore cinematografrico. Se una personalità come la sua è riuscita a coniugare in una carriera due arti come il teatro ed il cinema , forse non sono tanto diverse come dici tu.
Mi spiego meglio. Il teatro è carne secondo me, è vissuto, c’è un lavoro enorme dell’attore dietro. Nel teatro lo spettatore ha una visione d’insieme del personaggio, il corpo deve riuscire a parlare oltre ciò che è la comunicazione verbale o facciale. Nel Cinema il tutto è più controllato e ci sono più tentativi. Il teatro è presente, il Cinema è assente. Prendiamo l’esempio di una messa, una messa autentica fatta di persone, odori, echi, vibrazioni vocali e poi immaginiamo una messa registrata, trasmessa in radio o in televisione. La prima è per me il Teatro, la seconda è il Cinema.
Hai detto una cosa che mi ha molto toccato, ovvero che il Cinema è una creatura che nasce già morta, a differenza del teatro che è vivo sempre. Io invece vedo il cinema come una cosa che non sfiorisce, un essere che non ha fine, è immortale. Quando moriranno gli attori che avranno interpretato quel film, quella pellicola andrà avanti e vivrà per loro. Tra cent’anni quegli attori saranno visti ancora così, floridi, belli e vivi. Questo al teatro non può succedere. Un attore di teatro può dare il meglio di se in una rappresentazione, ma una volta partito l’applauso finale, quella sua meravigliosa esibizione è già morta, rimarrà nel ricordo di un pubblico limitato, comunque mortale e quindi oltre a non essere universale, sarà anche effimera.
Senza ombra di dubbio, ma è proprio per questo che il teatro è vivo, perché solo ciò che è vivo può morire.
Quanto Senigallia, il suo paesaggio, le sue forme, le sue tradizioni e i suoi abitanti hanno dato alla tua Arte, alla tua Poesia e al tuo Teatro?
Io sono un grande amante della mia città e per tutta la mia infanzia e adolescenza l’ho vissuta pienamente, ma non possiamo negare che sia una cittadina e che ahimè non ci sia tutta questa devozione alla cultura, nessuna forza artistica, tranne qualche appassionato, qualche professore. Ci sono molte persone, molti insegnanti che non riescono a trasmettere realmente agli studenti l’amore per la Poesia, per il Teatro, per il Cinema, questo è molto spiacevole. Di Senigallia però, moltissimo mi hanno lasciato i paesaggi, le sue colline, le sue nebbie, questi ambienti un po’ Felliniani. Un luogo per me particolarmente importante è il Porto, con il Mare, con la visione della città…ero solito mettermi sopra i tetti, guardando, ascoltando e immaginando cullato da quest’ambiente e quest’atmosfera evocativa. Ricordo ancora quest’esperienza, ero a casa e sentivo il vento, questo faro distante che fa gli echi come solo i senigalliesi conoscono ed ho percepito come un richiamo. Così son partito, di notte, saranno state le dieci di sera, ero piccolo, facevo ancora le superiori. Arrivai là, con questo mare che faceva un fracasso terribile e sono voluto arrivare sino alla punta del molo. E forse è proprio questo, puntare fino in fondo per assaporare quello di cui vai in cerca.
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