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La gestazione di un rivoluzionario, il “Che”, nei “Diari della motocicletta”

Un film che ci ricorda l'importanza di indignarsi di fronte all'ingiustizia - Screenshot

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I diari della motocicletta-film

Ernesto Guevara – La gestazione di un rivoluzionario.
Non è questo il racconto di gesta impressionanti. È il segmento di due vite raccontate nel momento in cui hanno percorso insieme un determinato tratto, con la stessa identità di aspirazioni e sogni. Forse la nostra vista non è mai stata panoramica, ma sempre fugace e non sempre adeguatamente informata, e i giudizi sono troppo netti. Forse. Ma quel vagare senza meta per la nostra maiuscola America, mi ha cambiato più di quanto credessi. Io, non sono più io, perlomeno non si tratta dello stesso io interiore” (Ernesto).

Molti credono ed affermano che I diari della motocicletta (2004) sia un film per comunisti. Questi molti, probabilmente, non si sono mai degnati di spendere due ore per godersi il bellissimo racconto di cui sopra. Una storia che ci rivela del percorso e dell’ amicizia che vede coinvolti due giovani sognatori, tali Fuser e Mial. Ed anzi, si sono limitati a giudicare il prodotto dal nome di battesimo del protagonista, Ernesto Guevara, credendo forse di trovarvi all’interno inni rivoluzionari e discorsi impregnati di ideologia.
I diari della motocicletta è la memoria di una spedizione iniziata senza pretese, un viaggio intrapreso col fine di viaggiare nell’America Latina, ma forse molto di più, col fine di percorrere i sentieri della propria coscienza, del proprio io. L’essenza di se stessi scovata nei solchi di quei visi stanchi e rassegnati. I visi dei latinoamericani.
È proprio questo che ci viene raccontato dal regista brasiliano Walter Salles e dai due ottimi interpreti del sopracitato road movie, Gael Garcìa Bernal (Ernesto Guevara – Fuser) e Rodrigo de la Serna (Alberto Granado – Mial).

Il succo dolce amaro della vicenda è la giovinezza di un laureando in medicina che sarebbe diventato il “Che” che tutti conosciamo, ma che è ancora molto distante da esserlo. È il viaggio iniziatico di un potenziale guerrigliero e rivoluzionario che si dedica ancora solo alle lotte sul campo da rugby, alle sfide sul tavolo da scacchi, alle letture di Neruda, alla fotografia, alla scrittura di poesie e diari, ma più di tutti è il percorso di formazione di un ragazzo malato, asmatico dalla nascita che sfida la sua stessa debole salute e il razzismo impregnato nel regolamento del lebbrosario di San Paulo, per dimostrare l’assolutamente ingiusta divisione tra sani e malati, percorrendo a nuoto coast to coast un fiume fino a quel momento mai attraversato senza l’ausilio di un imbarcazione o di una zattera. La metafora è semplice, esplicita e tremendamente toccante. Non deve esistere divisione, tra malati e sani, ricchi e poveri, operai e imprenditori.

È il poetico addentrarsi di un sognatore nei meandri dell’America Latina, senza soldi e senza pretese, senza rimpianti e senza aspettative, senza conoscenza alcuna di ciò che avrebbe trovato in quegli ambienti aridi di umanità e giustizia.

Lebbrosi, mendicanti, sofferenti e nullatenenti  hanno accolto di città in città, di villaggio in villaggio, il “Furibondo Sern” da cui Fuser ed il suo amico Alberto, in questo loro iter formativo.

Visi graffiati da rughe precoci, bocche asciutte e vuote, mani ruvide e deboli, morti precoci, veloci, atroci, morti ingiuste, inutili, morti da evitare. Sfruttati e sfruttatori, uomini trattati come bestie da domare, picchiare, addomesticare e gettare in un giogo stremante. Assolutamente toccante la scena in cui gli imprenditori stranieri selezionano freddamente gli uomini da sfruttare nelle miniere con la stessa intensità d’animo in cui si selezionano la mucche da macellare.

Questo film, che incarna fedelmente gli scritti riguardo questa entusiasmante esperienza, sia di Ernesto Guevara che di Alberto Granado, racconta brillantemente con l’ausilio di un’ottima fotografia e tecnica registica “quel vagare senza meta per la maiuscola America” che ha cambiato i due giovani più di quanto questi si aspettassero.

Nel tempo che abbiamo trascorso viaggiando è cambiato qualcosa, qualcosa a cui dovrò pensare molto seriamente. C’è tanta ingiustizia…”. (Ernesto).

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