25 aprile: celebrata a Senigallia la Festa della Liberazione
Il discorso del sindaco Mangialardi: "A Senigallia l’antifascismo è un valore profondamente radicato"
Cari concittadini,
è sempre emozionante vedere questa piazza piena di gente arrivata per celebrare insieme il 25 aprile. Saluto le associazioni combattentistiche presenti, l’ Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, il Commissario Straordinario della Provincia di Ancona Patrizia Casagrande e tutti i presenti.
Questa piazza piena è l’ennesima testimonianza di quanto questa città abbia a cuore le ragioni della libertà e della democrazia e con quanta intensità voglia coltivare la memoria viva di quelle donne e di quegli uomini che per quella libertà e per quella democrazia hanno combattuto e vinto contro la dittatura fascista.
Una partecipazione che ci conforta e che rappresenta un segnale importante.
Vedete, ci sono persone che sostengono che questo 25 aprile sia una sorta di reperto di archeologia politica, una sorta di santino, un evento fuori dal nostro tempo.
Che senso può avere, sostiene questa corrente di pensiero, celebrare come elemento fondante della nostra democrazia un evento storico maturato in un contesto politico e sociale radicalmente diverso da quello attuale?
Oggi- e questa è la domanda- in un’Italia prostrata dalla crisi, messa in ginocchio dalla frammentazione e dagli egoismi sociali, con una corruzione e criminalità organizzata che non accennano a diminuire, quale senso può avere la ricorrenza del 25 aprile?
La mia risposta a questi dubbi e domande è semplice. Se una stagione storica della vita di un popolo viene assunta a simbolo delle ragioni dello stare insieme dei cittadini, allora vuol dire che essa contiene in sé valori che vanno ben al di là dello stretto periodo nel quale è maturata. Significa che è capace di trasmettere valori e testimonianze utili anche per il futuro. E’ come un grande libro, che so la Divina Commedia, o Don Chisciotte, classici che sono stati scritti in un determinato periodo storico ma che continuano a parlare ai lettori dei secoli successivi.
Ecco, per il 25 aprile accade un po’ la stessa cosa: non è né deve essere una rievocazione storica, ma piuttosto una riflessione che a partire da quella pagina gloriosa del nostro passato interroghi il nostro oggi ed offra risposte per orientare il nostro futuro.
E quanto la ricorrenza del 25 aprire continui a parlare ai cittadini lo conferma la mobilitazione che oggi troviamo nelle piazze d’Italia. La città di Senigallia è tra l’altro presente attraverso l’assessore Volpini a Verona, in una grande manifestazione promossa dall’Associazione Libera in nome dei valori della legalità e della lotta alla criminalità a fianco di un cittadino onorario di Senigallia che amiamo molto: Don Luigi Ciotti.
Sia pure a malincuore ho deciso di non andare a Verona, perché sono convinto che quello del 25 aprile per un Sindaco sia un appuntamento da trascorrere insieme ai propri concittadini.
Qual è- dicevamo prima- il significato della ricorrenza del 25 aprile. Innanzitutto ricordare il 25 aprile è un modo per dire grazie.
Grazie ai nostri partigiani. Grazie a quelle straordinarie donne e a quei meravigliosi uomini, tra i quali moltissimi giovani, che in nome di un comune sentire democratico e sorretti da ideali di libertà e giustizia sono riusciti a sconfiggere il nazifascismo, a ridare agli italiani libere Istituzioni e ad aprire le porte ad una stagione di rinascita economica e civile.
“Parliamo del 25 aprile? No applichiamolo”. Questa frase compariva qualche giorno fa come una salutare provocazione nel sito dell’Associazione Nazionale Partigiani.
Io credo che per applicare il 25 aprile occorra partire da una cosa: restituire credibilità alla politica, arrestare quella progressiva disaffezione della gente nei confronti delle Istituzioni che rischia di inquinare pesantemente il processo democratico. La Repubblica democratica uscita dalla resistenza si fonda sulla partecipazione dei cittadini, sulla loro fiducia nella capacità dei rappresentanti eletti di contribuire al miglioramento della qualità delle loro vite, di garantire più opportunità economiche, maggiori diritti, più istruzione, cultura, sicurezza. Ma se questa fiducia si incrina, se diventa critica permanente o peggio invettiva e livore (tutto quello che con una formula ormai entrata nel linguaggio corrente si definisce antipolitica) allora non è questa o quella forza politica ad essere minacciata, quanto piuttosto è l’intero sistema costituzionale a risultare delegittimato. Un rischio che diventa ancora più pesante in un periodo di grave crisi economica come quello che stiamo vivendo, dove ogni disagio può sfociare in tensione sociale ed ogni rivendicazione deflagrare in conflitto dalle conseguenze nefaste per la tenuta democratica del paese.
Tornare a pensare alla politica non come qualcosa di sporco, come una parolaccia, ma piuttosto pensarla come una risorsa, come una scelta di vita orientata al bene comune e mai separata dall’etica pubblica.
Intendiamoci: ridare nobiltà alla politica è compito che spetta innanzitutto alla politica stessa. Ad un sistema che prima di ogni altra cosa deve ricercare la condivisione di alcuni principi fondanti, proprio come è accaduto per i nostri padri costituenti. Vedete, se c’è un’eredità nefasta che gli ultimi venti anni ci hanno lasciato è questo clima da conflitto permanente, da delegittimazione reciproca, un modello nel quale ciascuna parte cerca di urlare più forte dell’altra, senza riconoscerla mai come interlocutrice e senza mai ascoltarne le ragioni. Sono convinto che riusciremo ad uscire da questo tunnel nel quale siamo finiti quando riusciremo a realizzare anche in Italia quello che accade nelle principali democrazie europee, vale a dire un sistema nel quale forze di diverso orientamento politico si fronteggiano con idee e soluzioni diverse ai problemi dei cittadini con una dialettica anche aspra ma senza lanciarsi anatemi, senza delegittimarsi a vicenda, e ritrovandosi attorno a valori condivisi come il senso dello stato, l’autonomia dei poteri, i diritti di libertà dei cittadini.
Proprio un anno fa da questo palco avevo auspicato che i partiti e le Istituzioni prendessero atto di questo malcontento dei cittadini nei confronti della politica e dimostrassero non a parole ma con atti e provvedimenti concreti una reale volontà di cambiare pagina. Ecco, analizzando quello che è successo soprattutto negli ultimi mesi, devo dire che qualche segnale positivo rispetto a questa esigenza di cambiamento c’è stato. Lo dico naturalmente come Istituzione e non come uomo di parte, e lo dico soprattutto avendo come parametro di riferimento i valori della nostra Costituzione.
Faccio qualche esempio. Visto che l’art. 11 della Costituzione dice che l’Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, di fronte ad un provvedimento che rivede gli accordi per l’acquisto degli F 35 con un risparmio di risorse pubbliche non possiamo che esprimere soddisfazione. Anche se, naturalmente, la speranza è che in futuro questa revisione possa essere più drastica, con una riduzione consistente dei caccia da acquistare, perché in Italia sarebbe molto meglio convertire la spesa per la tecnologia militare in soldi per le scuole, per gli ospedali, per mettere in sicurezza il nostro territorio, per incrementare l’occupazione giovanile, per valorizzare i nostri beni culturali, per aiutare coloro che vivono situazioni di disagio, per aumentare il personale delle forze dell’ordine a garanzia della sicurezza dei cittadini.
E ancora, se la Costituzione mi dice che la retribuzione deve essere proporzionale alla quantità e qualità del lavoro, dove trovo questa proporzione se la retribuzione di chi ricopre incarichi di vertice è superiore anche di cento volte lo stipendio di coloro che svolgono altri compiti all’interno della stessa organizzazione? Ed allora ben vengano i provvedimenti come quelli adottati dal governo che fissano tetti ai compensi dei dirigenti pubblici, perché certe somme non sono più eticamente sostenibili quando ci sono persone che hanno perso tutto e non sanno più come tirare avanti. Così come ben vengano i simboli come il taglio di quell’odioso privilegio delle auto blu anche se, permettetemi di dirlo, a Senigallia le auto blu non ci sono mai state e personalmente uso la mia auto personale per spostarmi da molto prima che uscisse il decreto.
Sui costi della politica occorre essere molto rigorosi con interventi concreti, eliminando gli enti inutili, sforbiciando le aziende municipalizzate, riducendo le indennità dei parlamentari e facendo finalmente in modo, tanto per fare un esempio, che un consigliere regionale guadagni non un euro in più rispetto allo stipendio percepito dal sindaco del comune capoluogo di regione.
Il mio auspicio è che i partiti sappiano essere interpreti di questa esigenza di cambiamento, che siano capaci di dare il buon esempio, di recuperare il valore della testimonianza personale e dell’etica pubblica. Solo così potrà essere colmata quella grande distanza che oggi separa i cittadini dai loro rappresentanti nelle Istituzioni.
“Per essere partigiani, per combattere l’indifferenza, voi giovani non avete bisogno di un simbolo, di una bandiera, di un’ideologia, avete la Costituzione”. Così ha scritto Massimo Ottolenghi. La Costituzione Repubblicana del 1948 come espressione viva dei sentimenti, delle aspirazioni, degli ideali, delle passioni che possono sorreggere l’impegno politico dei giovani.
Una Costituzione che sancisce e promuove una serie di diritti fondamentali, a cominciare da quello al lavoro. E proprio il lavoro è una delle emergenze sociali del nostro paese, un lavoro perduto, un lavoro travolto dalla crisi; un lavoro che per i giovani non c’è e forse non c’è mai stato se è vero che un giovane su quattro in Italia è disoccupato.
Un paese che assiste impotente al viaggio della speranza dei suoi ragazzi e delle sue ragazze alla ricerca di opportunità al di fuori dei confini nazionali, che non riesce a trattenerli, a farne il perno delle future classi dirigenti, che al massimo li confina nel limbo di un’eterna precarietà è un paese malato che deve guarire.
E’ in corso oggi un ampio ed approfondito dibattito tra le forze politiche per varare alcune misure in grado di favorire una ripresa del lavoro: incentivi fiscali, vantaggi per chi assume personale a tempo indeterminato ed altro ancora. Non esistono ricette miracolose ma una cosa vorrei ripeterla ai tanti imprenditori italiani che credono nel loro lavoro e che sfidano ogni giorno la crisi: investite nella qualità del vostro lavoro, sulle idee, sulle eccellenze del made in Italy. Non cedete mai alla tentazione di provare ad essere competitivi tagliando sui compensi dei lavoratori, speculando sui loro diritti, delocalizzando le fabbriche all’estero dove non esistono regole né tutele. Non scordatevi mai che quando qualcuno ha cominciato a ripetere che ci si poteva arricchire abbandonando il lavoro e puntando sulle speculazioni finanziarie, è allora che sono cominciati i nostri guai.
La nostra Costituzione continua ad essere la stella polare che orienta il nostro cammino per la piena attuazione dei diritti fondamentali e per la maturazione di un comune sentire democratico. Una costituzione nata con una vocazione fondamentale: che era quella di unire donne e uomini di diversa estrazione sociale, orientamento politico, convinzioni religiose, legate però dalla voglia di uscire al più presto da quella pagina buia che fu il regime fascista, dall’urgenza di costruire il nuovo edificio democratico, per darsi regole comuni, norme condivise. Uniti sulle basi fondamentali e poi divisi, come è giusto che sia, sulle scelte e sulle proposte delle cose da fare.
Se ci pensiamo bene è proprio questa vocazione ad unire il bene più prezioso che ci proviene dallo spirito della Costituzione Repubblicana e che può risultare fondamentale anche oggi.
Unirsi più saldamente all’Europa, non l’Europa dei banchieri, dei parametri finanziari e del rigore senz’anima, ma piuttosto l’Europa della libera circolazione delle idee, l’Europa degli scambi giovanili e dell’Erasmus, l’Europa dell’innovazione e dei diritti.
Unione che vuol dire accogliere chi approda stremato da altri paesi, da altri continenti nel tentativo di sfuggire a guerre e povertà. Accogliere con delle regole certo, in maniera programmata, con un impegno comune di tutta l’Europa e non solo quello dell’Italia, ma accogliere, spezzando quella catena di razzismo, di insofferenza nei confronti dei migranti che rischia di imprigionare molte nazioni europee.
Ed unione, lasciatelo dire, vuol dire anche e soprattutto giustizia sociale, significa attenuare quelle differenze con la crisi sono invece drammaticamente aumentate tra i pochi che hanno tanto e i molti che hanno troppo poco.
Una Costituzione la nostra tra le più avanzate d’Europa e che trova proprio nel Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il suo interprete più appassionato ed il suo custode più fedele. Un grande Presidente davvero, un uomo che ha fatto del senso dello Stato e delle Istituzioni la sua stessa ragione di vita e che è riuscito a tenere ben salda la rotta di navigazione anche quando la bufera che imperversava nello scenario politico rischiava di travolgere gli assetti istituzionali.
E proprio allo scopo di rivedere e rendere più funzionali alcuni assetti istituzionali del nostro ordinamento è iniziato un percorso di riforme che dovrebbe toccare anche qualche norma della nostra Costituzione. Una modifica naturalmente che non ne alteri gli elementi fondamentali che connotano un sistema democratico, una revisione ispirata dalla necessità di sintonizzare le Istituzioni con il sentire della gente comune.
Questo processo di riforma (come esponente delle Istituzioni badate e non come uomo di una parte politica) io lo giudico un fatto positivo. Sembra in contraddizione con quello che ho detto prima a proposito della Carta Costituzionale ma non lo è affatto.
Vedete, se vogliamo preservare lo spirito della nostra Costituzione che si fonda sulla partecipazione e sulla fiducia dei cittadini sulla possibilità di cambiare il paese attraverso il confronto politico, allora dobbiamo essere pronti a rivedere quegli aspetti dell’impianto originario che non corrispondono più alle esigenze di oggi. Dobbiamo farlo se vogliamo dimostrare come il sistema sia in grado di autoriformarsi anche con decisioni poco popolari presso il ceto politico ma fortemente auspicate dalla gente comune. Naturalmente tutto questo deve avvenire con il concorso del più ampio numero di forze politiche possibili, dopo un dibattito approfondito, ma senza traumi o peggio senza gridare alla fine della democrazia.
Faccio un solo esempio e lo faccio volutamente su un tema molto dibattuto come quello della riforma del Senato. Su un punto siamo tutti d’accordo, anche l’A.N.P.I. che è da sempre schierata per la difesa più integrale possibile del testo costituzionale: quello attuale, vale a dire il così detto bicameralismo perfetto con il doppio passaggio di uno stesso progetto di legge alla Camera e al Senato, è un sistema che non funziona più. Aveva un senso per i partiti che hanno scritto la Carta Costituzionale, in una stagione storica cioè in cui si avvertiva l’esigenza di ponderare nella misura maggiore possibile le decisioni per scongiurare il rischio di una nuova deriva totalitaria. Ora il quadro è radicalmente mutato. Oggi questo modello appare inadeguato perché costringe una proposta di legge a defatiganti spole tra un ramo e l’altro del parlamento, con ritardi, spreco di denaro e con l’incapacità di far corrispondere i tempi della politica con quelli della vita e con le esigenze concrete dei cittadini.
E allora cominciamo da questa base comune per arrivare ad un testo di riforma più equilibrato possibile, senza alcun deficit di democrazia ma con un surplus di efficacia. Non so quale modello di Senato ci consegnerà la riforma al termine dell’iter di esame in Parlamento. Ma lasciatemi dire che se dovesse uscire un Senato espressione delle autonomie locali, come del resto già accade in altri paesi del mondo, spero che nessuno se ne scandalizzi perché nessuno più dei rappresentanti degli enti locali conosce i bisogni ed i problemi dei cittadini con i quali fa i conti tutti i giorni.
Siamo qui oggi in piazza perché questa è la festa di tutti coloro che amano la libertà e la democrazia. Siamo qui per riaffermare ancora una volta il nostro affetto e la nostra riconoscenza nei confronti di quei tanti partigiani che non hanno esitato a rischiare la propria vita per restituire all’Italia e agli italiani un futuro degno d’essere vissuto.
Persone che hanno pagato un prezzo terribile per questa loro scelta di coraggio: decine di migliaia di partigiani furono uccisi con feroci rappresaglie che colpirono la popolazione civile che li sosteneva.
Persone che non hanno mai smesso di lottare e di coltivare la speranza di poter cambiare le cose anche quando la logica della violenza e della sopraffazione sembrava aver vinto per sempre.
Senigallia è una città nella quale l’antifascismo è un valore intimamente vissuto e profondamente radicato e dove tante persone hanno speso la propria vita per testimoniare i valori nati dalla lotta per la Liberazione.
Dobbiamo sempre osservare il massimo rispetto nei confronti delle vittime di quella stagione di repressione, come i milioni di cittadini ebrei deportati ed uccisi nei campi di concentramento.
Per questo ho trovato molto brutto inserire nel dibattito politico di oggi immagini alterate dell’ingresso del campo di concentramento di Austwich.
Sul dramma di milioni di persone vittime del nazifascismo non sono ammesse strumentalizzazioni.
I partigiani ci hanno lasciato una testimonianza ed un esempio che vogliamo portare sempre nei nostri cuori.
I valori della testimonianza possono diventare lievito per l’intera società se riusciremo a trasmetterli alle giovani generazioni.
E’ proprio questo il fine che come Amministrazione Comunale abbiamo voluto perseguire nel costruire insieme all’A.N.P.I. e alle tante associazioni impegnate su questi temi il calendario delle iniziative per il settantesimo della liberazione di Senigallia. Un comitato che continua a lavorare anche per il programma delle manifestazioni del prossimo anno nel quale si celebrerà il settantesimo anniversario della liberazione dell’Italia.
Abbiamo costruito un programma che parlasse soprattutto ai giovani. I nostri studenti hanno potuto ascoltare non fredde commemorazioni ma ad esempio le parole vive del figlio del grande Gino Bartali, Andrea, che ci ha raccontato di come suo padre nascondesse durante gli allenamenti nella sua bici i documenti falsi da consegnare ai rifugiati ebrei nascosti per sfuggire alla deportazione; hanno potuto vedere una serie di film sulle varie resistenze che i ragazzi di oggi sono costretti ad affrontare tutti i giorni: resistenza all’emarginazione, alle sostanze, al disagio. E saranno i nostri giovani a sfilare lungo le vie cittadine in occasione della Marcia della Pace di Senigallia il prossimo 31 maggio.
Quello che abbiamo cercato di ottenere è di far percepire ai ragazzi l’idea che il 25 aprile non è un santuario inaccessibile ma piuttosto un luogo familiare, un insieme di valori capaci di trasformare le nostre vite anche oggi.
Anche il 25 aprile come ogni festa ha la sua colonna sonora.
C’è una canzone che riesce ad esprimere meglio di qualsiasi frase la forza struggente di questa pagina della nostra storia piena di coraggio e passione civile, di morte ma anche di speranza di una rinascita, di amore per la libertà ritrovata.
E questa canzone è Bella Ciao.
Che un Prefetto italiano ritenga di vietarne l’esecuzione perché rischierebbe di turbare la campagna elettorale, come è accaduto a Pordenone, è un fatto curioso ed anche piuttosto grave.
Poi per fortuna la ragione è prevalsa e quel divieto è stato revocato.
Comunque, se posso dirlo con il massimo rispetto, nessuna ordinanza prefettizia avrebbe mai potuto privarci di questa canzone.
Perché Bella Ciao è il simbolo della lotta di liberazione e non può turbare mai la democrazia.
E tutti noi ascoltando le sue note penseremo a qualcosa di bello e di nobile.
Penseremo al fiore, al fiore per il partigiano morto per la libertà.
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