Le Filippine post-tifone raccontate dal volontario ARES Matteo Catozzi-FOTO
Catozzi: "Un’esperienza emozionante che consiglierei"
La notte del 15 ottobre 2013, un terremoto di magnitudo 7.1 si è abbattuto sull’arcipelago delle Filippine. L’ epicentro è stato localizzato a due kilometri da Carmen Town, nell’isola di Bohol. Le vittime accertate ad oggi sono circa 186, l’85% concentrato nelle provincia di Bohol, con oltre 580 feriti ed una ventina di dispersi. Il numero totale delle persone colpite è circa 3,4 milioni, con oltre 100.000 persone sfollate negli oltre 85 campi di evacuazione. Danni significativi sono stati segnalati in 1.285 villaggi.
Tra le associazioni che sono accorse per cercare di tamponare questo drammatico scenario c’è L’ARES(Associazione Regionale Emergenza Sanitaria). E qui inizia il racconto del volontario Matteo Catozzi, ostrense classe 1983, che insieme ad altri colleghi si è recato nel sud est asiatico prima di Natale per prestare soccorso alla popolazione locale.
Partiamo dal principio: come è nata questa esperienza con l’ARES ?
Io ho conosciuto l’ARES durante il mio primo anno di Università in Infermieristica, ovvero nel 2005, durante uno degli incontri associativi post missione, in particolare in quel caso dopo la missione per il terremoto in Pakistan.
In quell’occasione ho avuto modo di conoscere anche il Dott. Marco Esposito, allora medico presso l’Ospedale di Torrette e uno dei fondatori dell’Associazione… oserei dire tuttora il cuore di quest’associazione, se pur tragicamente scomparso più di due anni fa in un incidente stradale.
Cosa ti ha spinto ad andare nelle Filippine?
E’ difficile spiegare la sensazione che spinge ad andare in certi territori disastrati da calamità naturali. Sicuramente il voler essere utili a chi in quel momento ha difficoltà a reperire ogni cosa, o che ferita, non sa a dove rivolgersi perché magari anche le strutture sanitarie locali sono state gravemente danneggiate; questo sicuramente ci spinge a rispondere: “Disponibile”, quando l’Associazione viene attivata e chiede la disponibilità alla pronta partenza o alle partenze successive a quella di primo intervento.
E’ la tua prima esperienza in un territorio martoriato da un cataclisma di questa entità? Come ci si prepara a quello che si dovrà affrontare?
La mia prima missione è stata in occasione del terremoto dell’Aquila, ma seppur un evento molto distruttivo, nulla a che fare con lo scenario delle Filippine in cui fin dai primi bollettini si parlava di distruzione del 99% della vegetazione e delle opere create dall’uomo. Durante i periodi così detti di “pace”, in cui non abbiamo attivazioni, i volontari fanno corsi mirati per affrontare situazione di emergenza come questa. In particolare L’ARES organizza per i propri soci eventi annuali chiamati IFA in cui ci si ritrova insieme e si fanno simulazioni pratiche e si studia la teoria su come muoversi in questi scenari. In più è possibile eseguire una FAD tramite il sito dell’Associazione sulla Medicina delle catastrofi. Naturalmente ogni volontario, come professionista, si forma anche personalmente con corsi al di fuori dell’Associazione.
Qual è l’attuale situazione nel paese?
Essendo uno stato tropicale possiamo tranquillamente dire che il turismo era presente, in particolar modo il diving, oltre a quello culturale per chi è interessato a conoscere la storia di luoghi passati sotto il dominio portoghese di Magellano prima e Spagnolo poi. La situazione è certamente ancora di una zona in grande difficoltà, dove non è ancora presente una rete idrica pulita, già nei giorni in cui noi eravamo li, le falde acquifere iniziavano a presentare segni di contaminazione da vari batteri e virus. La rete elettrica, prima presente su tutte le strade, in tutte le frazioni, ora non c’è. Nei giorni precedenti alla nostra partenza, si iniziava a vedere qualche luce pubblica nelle città più grandi come Tacloban e Burauen (218000 e 48600 abitanti prima del tifone). Noi eravamo a San Esteban, frazione di Barauen e l’unica fonte di elettricità erano i nostri generatori. Principalmente coltivano riso e palme per la produzione del cocco e delle banane. Dopo Haiyan la vegetazione è stata praticamente distrutta quasi totalmente. Ci dicevano che prima di quattro anni non sarebbero riusciti a produrre noci di cocco e palme e che prima di quindici anni non sarebbero riusciti a tornare ai regimi di produzione precedenti al tifone.
Quali sono gli interventi principali di cui vi siete occupati?
La Protezione Civile Italiana e L’ARES avevano allestito una struttura campale attrezzata a PMA, (Posto Medico Avanzato), composta da tre tende tra loro collegate con all’ingresso il triage, una tenda per stabilizzazione e visita, ed una con otto posti come osservazione breve per praticare le cure del caso o per rivedere chi dopo la prima visita necessitava di controlli delle medicazioni o se la cura antibiotica data era stata di utile. Nelle quattro settimane, in cui i due turni si sono succeduti, sono state visitate circa 2200 persone, di cui il 30% sotto i cinque anni di età. Mentre nelle prime due settimane le patologie erano maggiormente inerenti alla catastrofe, quindi traumi di diverse entità, nelle successive due settimane le patologie curate erano soprattutto mediche che colpivano l’apparato respiratorio e il tratto gastrointestinale, da imputare l’acqua, ormai contaminata da rotavirus, primo mezzo veicolare nella contaminazione della popolazione in cui i primi a farne le spese erano soprattutto i più piccolini. Essendo una struttura di prima necessità avevamo a disposizione solo un ecografo e quindi i pazienti che necessitavano di radiografie o di ricoveri venivano inizialmente inviati presso l’Ospedale da campo Australiano, attrezzato anche per interventi chirurgici, poi all’Ospedale civile di Tacloban.
Al momento della nostra partenza la struttura italiana composta, oltre che dal PMA, anche da altre 2 tende da 18 posti letto in cui dormivamo, è stata donata con i farmaci, le brande e gli elettromedicali al comune di Barauen.
Nel periodo della nostra permanenza degli infermieri filippini c’hanno affiancato imparando ad utilizzare la struttura così da continuare ad utilizzarla dopo la nostra uscita di scena.
Quali sono i ricordi più vividi che ti ha lasciato questa esperienza?
La cosa che non potrò mai dimenticare è l’umiltà di questo popolo che, seppur colpito gravemente, non si piange addosso, ma ha iniziato subito a mettersi in moto per ripristinare ciò che aveva prima, forte anche della propria fede Cattolica. Il modo in cui ci hanno accolto e salutato alla nostra partenza non può che prendersi un posticino nel cuore di ogni volontario che è stato li. Certamente non posso non parlare del gruppo composto da persone, le quali alcune non conoscevo e che ho imparato a conoscere in quei giorni e che non posso non considerare degli amici. Un gruppo che seppur con persone derivanti da realtà ospedaliere diverse si sono unite per una sola causa lavorando come se avessero lavorato sempre insieme. Questo nasce dai corsi che facciamo e che quindi ci insegnano come affrontare le situazioni di criticità e soprattutto nasce dalla consapevolezza che si è lì tutti per lo stesso scopo, in altre parole aiutare il prossimo senza secondi fini. Una delle situazioni di maggiore criticità è stata durante il soccorso di un elicottero militare filippino precipitato a pochi chilometri dal nostro campo mentre portava viveri ai vari Barangay nella foresta. La nostra risposta è stata pronta sia per il soccorso sul posto dell’incidente, molto ben coordinata dal responsabile del Dipartimento Nazionale Italiano di Protezione Civile, che nel PMA in cui i tre feriti più gravi sono stati stabilizzati e trasferiti a Tacloban, 2 in ambulanza e 1 tramite MEDEVAC (Medical Evacuation) con elicottero militare. Ma devo dire che le emozioni maggiori venivano nel vedere e parlare con le tante persone che ogni giorno venivano da noi per farsi visitare, o per far visitare i propri figli o i loro nipoti, spesso anche di soli pochi mesi.
Esiste un rischio concreto che finito il clamore suscitato dall’iniziale disastro, la popolazione possa essere lasciata in balia di se stessa?
Non credo che questo possa accadere, abbiamo comunque visto lo Stato filippino ben presente sul territorio con centri di distribuzione dei viveri. Oltre che al già presente OMS e ONU che continueranno il loro lavoro a lungo e non solo come noi solo nella fase di prima emergenza. Durante il giorno della nostra partenza ci siamo inoltre incrociati con dei ricercatori dell’Università di Louisville, che arrivavano per una collaborazione con l’Università di Cebu per studiare nuove colture integrando quelle già presenti.
E’ un’esperienza che ti senti di consigliare? E se si, come sarebbe più opportuno muoversi?
E’ sicuramente un’esperienza emozionante e che consiglierei, certo non è facile stare in certi ambienti, privi di ogni cosa che per noi sono la normalità, come l’assenza di servizi igienici o di una semplice doccia o la difficoltà a dover recuperare cibo e quindi adattarsi alle razioni. Non ci si può dimenticare della difficoltà nel comunicare con chi sta a casa per mancanza di linea telefonica convenzionale, sia fissa che mobile. La cosa migliore e più sicura è muoversi sempre tramite associazioni con esperienza e non da soli, così che tutto sia coordinato e che soprattutto tutto avvenga nella maggiore sicurezza possibile. La prima regola per il soccorritore è lavorare in sicurezza, altrimenti saremmo solo di ostacolo.
Per poter commentare l'articolo occorre essere registrati su Senigallia Notizie e autenticarsi con Nome utente e Password
Effettua l'accesso ... oppure Registrati!