Il MSFT di Senigallia dice la sua sull’eutanasia
De Amicis: "L'eutanasia è un omicidio? E il paziente che chiede l'eutanasia è un suicida?"
Nelle prossime ore l’UAAR di Senigallia in presenza di Mina Welby, moglie di Piergiorgio Welby raccoglierà le firme per una proposta di legge d’iniziativa popolare sul rifiuto dei trattamenti sanitari e la liceità dell’eutanasia.
Sicuramente l’eutanasia dal punto di vista sociale, politico e giuridico è uno dei problemi morali più delicati di oggi, ossia della liceità di facilitare o provocare, con un apposito intervento, la morte di un paziente eventualmente consenziente o richiedente, le cui condizioni fisiche siano disperate, soprattutto se il paziente stesso soffre oltre ogni limite di sopportazione o in casi nei quali da molto tempo viva di una vita semplicemente vegetativa, in uno stato di incoscienza, sostenuto da un’assistenza esterna, ma tale da prolungare solo lo stato vegetativo. Tale intervento nel parere di una sana etica medica, appare illecito e contrario al fine stesso della professione medica, finalizzata ad incrementare la vita e non a procurare la morte.
Diversa, anche se apparentemente simile, è l’interruzione di un sostentamento tecnico-farmacologico della vita, quando le cure potrebbero essere allungate ma senza efficacia, mentre la vita del paziente è certamente prossima e spegnersi, non vi sono più possibilità di ripresa ed eventualmente gli analgesici non sono sufficienti a lenire le sofferenze del malato. Si ritiene che in questo caso la continuazione della cura costituirebbe un inutile per non dire crudele “accanimento terapeutico” e quindi non sarebbe una vera cura, atteso che questa ha senso quando vi sono possibilità o speranza di guarigione o quanto meno di diminuzione della patologia. Una misura di questo tipo appare invece del tutto lecita ed anzi saggia ed umanitaria, supponendo, se la cosa è possibile, il consenso del malato.
La perfezione degli attuali strumenti tecnici per sostenere una vita agli estremi ed irreversibilmente compromessa è oggi talmente alta, che tali strumenti sono in grado di stimolare per lungo tempo le attività neurovegetative fondamentali fin quasi al punto da provocarle quasi in modo meccanico, sicché in fin dei conti il paziente è più tenuto in vita dalla presenza di questi strumenti che non dal principio stesso naturale interno ed autonomo di dette attività vitali.
La vita in questi casi appare più l’effetto di azioni meccaniche che non dell’anima stessa del paziente. Per questo, alcuni arrivano al punto di ritenere che i moti del paziente non siano più vere azioni vitali, tanto è vero che la sospensione della stimolazione porterebbe immediatamente alla morte, in modo simile quello per il quale il cessare di muovere un corpo inanimato comporta subito la cessazione del moto di questo corpo: segno appunto, a detta di costoro, che il supposto “vivente” è invece ormai un corpo morto. Nutrirei più di una perplessità su questo ragionamento. Cerchiamo di approfondire il discorso.
Come già osservava Aristotele e successivamente ha spiegato S.Tommaso d’Aquino, compito essenziale dell’arte medica non è quello di causare la vita del vivente, così come una spinta meccanica causa il moto di un corpo, ma di aiutarla in quanto già esistente affinché essa possa riprendersi e realizzarsi per conto proprio nella normalità, in modo tale che egli stesso, aiutato dall’intervento del medico, riacquisti salute e forze. Se il malato non ha speranza di guarire, compito del medico è comunque di fare tutto il possibile affinché almeno quel livello di vitalità possa essere conservato. L’attività vitale, pertanto, fino alle sue ultime e più deboli risorse, non è mai assimilabile a quella di un corpo inanimato che può esser mosso solo dal di fuori. Caratteristica invece del vivente, come osservano Platone ed Aristotele, è quella di muovere se stesso dall’interno (la cosiddetta azione immanente) grazie all’energia dell’anima. Anzi la filosofia pone l’esistenza dell’anima proprio per spiegare questo automovimento del vivente, che non è presente nei corpi inanimati. Se nel vivente le condizioni fisiche e vegetative in certe circostanze sfavorevoli vengono ad essere talmente compromesse e deteriorate, da non permettere più all’anima di animare il corpo, l’anima perde totalmente il dominio del corpo, non ha più la forza di animarlo e quindi cessa di farlo: questa è la morte.
Da un punto di vista della fede cattolica, l’anima continua a sussistere anche dopo la morte, benché separata dal proprio corpo, il quale, ormai nello stato di cadavere, perde gradatamente la sua apparenza umana iniziando un processo di decomposizione per il quale gli elementi chimici che in precedenza erano organizzati e coordinati dall’anima stessa per formare il corpo vivo, adesso si separano gli uni dagli altri ed attuano ognuno il proprio dinamismo e le proprie leggi a prescindere dalla loro funzione precedentemente svolta nel corpo vivente.
Il problema della liceità morale dell’eutanasia sorge in considerazione del dovere del medico di restaurare e ripotenziare o quanto meno proteggere e mantenere in essere la vita e la salute e non di indebolirla, sopprimerla o intralciarla. Si ripropone allora la questione in questi termini semplici: l’eutanasia è un omicidio? E il paziente che chiede l’eutanasia è un suicida? La deontologia medica permette la pratica dell’eutanasia? Facciamo un passo indietro, in base a quanto detto sopra. Ci poniamo anche questa domanda: l’eutanasia è una vera soppressione della vita o è un lasciare che la vita si spenga naturalmente cedendo ai fattori di morte che agiscono nel paziente ormai irreversibilmente, utilizzando eventualmente espedienti tecnico-farmacologici atti a rendere tale processo degenerativo il meno doloroso e traumatico possibile? Il medico può lecitamente togliere la vita ad un malato che non sopporta più la propria malattia? Abbiamo già abbozzato sopra la risposta, ma torniamo ad esaminare la questione nella speranza di fare maggiore chiarezza.
La questione dell’eutanasia è oggi diventata per così dire esplosiva a causa di due mutamenti avvenuti di recente nella nostra società: primo, è divenuta molto rara nella gente la tradizionale concezione della sofferenza, della vita e della morte: la sofferenza è vissuta come una mera sventura, dalla quale occorre solo liberarsi; la vita non è più vista come un prezioso dono da conservare nonostante le disgrazie e le sofferenze, ma come un bene che se si trasforma in un peso eccessivo, è meglio rifiutare. La morte, a causa della diffusione dell’edonismo, del materialismo e dell’ateismo, che non credono nella superiorità dello spirito sulla materia, nell’immortalità dell’anima e in una vita dopo la morte, viene vista semplicemente come l’annullamento o la perdita definitivi della vita, per cui, essendo la vita presente l’unica vita che esiste, questa vita va goduta a più non posso senza tener alcun conto di un al di là o di leggi divine, visto che Dio non esiste, ma nel modo che meglio ci piace, rifiutando questa vita quando più non ci aggrada o diventa inaccettabile, così come faremmo con un cibo che si rivela disgustoso al palato. A causa di queste idee si è persa la forza di sopportare la sofferenza e pensare che un tempo non esistevano neppure gli analgesici e gli antidolorifici che esistono oggi.
Il secondo fatto è la presenza oggi di strumentazioni mediche e farmaci atti a prolungare per moltissimo tempo una vita meramente vegetativa della persona, come certi stati comatosi. Stante la concezione materialistica della vita di cui sopra, molti allora si chiedono che senso ha una vita di quel genere, considerando anche il fatto dell’enorme impegno economico-assistenziale che essa richiede. Mancando un minimo di Fede, è comprensibile che ci si domandi se non è meglio cessare di alimentare una vita del genere, che è considerata non-vita, ma già una morte di fatto. La Chiesa cattolica, oggi insistentemente esorta soprattutto noi cattolici, ma anche tutti gli uomini di buona volontà, ad evitare la pratica dell’eutanasia, per quanto essa possa apparire motivata da scopi umanitari e da pietà per il paziente, quando non si invoca una falsa libertà di togliersi la vita.
Crediamo che occorra rieducare al senso cristiano della vita, della morte e della sofferenza. Troppo poco si parla di questi argomenti nel modo giusto, anche negli ambienti cattolici, a volte inquinati da spirito pagano-progressista. Nel contempo può essere utile, nel dialogo con i non-credenti, rivisitare quanto la stessa cultura classica ci ha lasciato su questi temi decisivi della nostra esistenza. Pensiamo solo a un Socrate, a un Platone, a un Seneca, a un Catone, a un Cicerone, a un Marco Aurelio, per citare solo alcuni nomi. Dato che si tratta di un problema universalmente umano, è urgente adoperarsi a che l’eutanasia, nel senso di una vera e propria intenzionale soppressione della vita, quale che sia il motivo addotto, venga proscritta non solo nella condotta morale, ma anche dalla legislazione civile, certo non in nome di una posizione confessionale, ma della stessa dignità della vita umana sacra ed inviolabile ridando forza, vigore e speranza ad un’umanità che sembra arrendersi davanti al potere della morte.
Molto meglio e molto più umano morire tra i rantoli, con i parenti che di nascosto allungano cento euro all'infermiere di turno, affinché stacchi la spina.
Vero, De Amicis?
Perchè un individuo dovrebbe soffrire per forza ed inutilmente, dal momento che l'epilogo di alcune patologie è risaputo e scontato e porta alla morte? Puoi forse biasimare una persona che chiede per se stesso, di non voler soffrire inutilmente, ed a volte di non voler far soffrire anche chi gli sta intorno, come i suoi familiari o i suoi cari? Di tutte le esperienze umane, quella del soffrire è senz'altro la più temuta da chiunque. Anche se alcuni ritengono che soffrire abbia un qualche valore (!), a mio giudizio stare male non serve a nessuno e anzi provoca soltanto fastidi a me ed a chi mi vuole bene. Quando sfuggire alla sofferenza non è più possibile, l'unica cosa che rimane da fare è sfuggire alla vita.
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