L’oro che non luccica: intervista a Francesco Diotallevi
Come in un HorrorMovie
A vederli così, sembrano innocui pupetti da cartone animato o da albo illustrato. Che male potranno mai fare? E’ un tratto ingenuo, quasi da occhio e mano d’infante. Sui contorni netti e ben marcati non è di certo semplice aprire brecce e causare quindi azzardati mescolamenti di colori o, peggio ancora, di significati.
Francesco Diotallevi si diploma in disegno animato a Urbino e, in seguito, all’Accademia di Bologna in sezione pittura. Potrebbe essere un illustratore a tutti gli effetti. Lo è, ma è anche molto di più.
La formazione svolta sotto l’ala protettiva di Concetto Pozzati è chiara, o almeno è così per me: sua grande stimatrice più o meno da sempre. La matrice di quelle forme apparentemente morbide è simile fra i due: ogni curva si richiude a bozzolo e ogni grumo sembra dare vita a nuovi germogli accattivanti. Tuttavia, il ragionato impiego della parabola a discapito della linea retta è esso stesso uno stratagemma: l’angolo è luogo di rischi, mentre la circolarità è prima di tutto rassicurante ventre materno.
Ammaliano le forme rotonde, così come attirano i colori accesi, addirittura preziosi, proprio come fa una pianta carnivora con gli insetti. Si è troppo vicini per scappare, quando si cominciano a notare i denti affilati e le lame pronte a fendere. Come dentro a un film dell’orrore, il lieto inizio è rotto dalla repentina accelerazione della colonna sonora.
Francesco, come definiresti i tuoi lavori? Parlami un po’ del tuo modo di vedere il discorso pittorico…
Beh, il mio è chiaramente un lavoro anticlassico! E’ contro ogni antropocentrismo proprio come era tutta la pittura prima della teorizzazione della prospettiva. Tolgo l’illusione della terza dimensione per tornare alla bidimensionalità della tela: sfondo e soggetto sono così sullo stesso piano, senza che l’uno primeggi sull’altro. E’ un approccio all’arte, se vogliamo, anche più universale. La prospettiva è qualcosa di tipicamente italiano. Diciamo pure che la storia dell’arte a cui faccio riferimento è quella delle icone russe e dei mosaici ravennati, soprattutto per i materiali preziosi. In particolare, l’oro del fondo mi serve per “tendere al meglio” la mia trappola. Lavoro sfruttando la teoria del “carino”, con una grafica accattivante e con delle tonalità che attirino. Le mie opere sono come dei bei pacchi regalo che non puoi non aprire, ed è troppo tardi quando ti accorgi che dentro c’è una bomba!
Mi parli un po’ del tuo percorso artistico e dell’ultima serie “Bisanzio” di cui, tra l’altro, si è da poco conclusa una piccola esposizione alla galleria Portfolio di Senigallia?
Come molti altri, mi sono messo alla prova sperimentando i vari generi. A partire dall’informale-materico degli anni ’90, sono poi passato a una visione prettamente Pop agli inizi del 2000. Dal 2011 circa sto lavorando su questo genere di “cavalli di troia”. Già con le prime serie, come ad esempio NaOh, dove già il titolo stesso può darti qualche indicazione sul fatto che fossero lavori… altamente corrosivi (NaOh è il simbolo chimico della soda caustica)! “Bisanzio” invece è una serie nata da un mio viaggio a Instanbul, oltre che essere anche quella che ritengo la giusta evoluzione di questo mio ultimo periodo artistico. Ogni tela è una sorta di ingrandimento sui volti e sulle parti del corpo dei miei soliti personaggi. In questo caso però, prende una valenza del tutto diversa. È la resistenza di ogni forma di vita, qualunque essa sia. E’ la necessità, l’istinto di sopravvivenza di ogni cosa o essere a occupare il suo giusto spazio, senza necessariamente doversi modificare o mutare fondendosi con altre entità. C’è l’oro e c’è la marcata traccia nera: come acqua e olio l’una contrasta l’altra, si lambiscono, superano il confine toccandosi, ma nessuna delle due cede lo spazio all’altra e, ciò che più conta, mantengono la loro identità.
Informale, disegno animato e pittura. Tre generi distinti che hai affrontato: spiega ai profani le differenze essenziali.
Sfruttando il linguaggio grafico, un’opera informale dovrebbe essere vista come un logo: un’icona che racchiude in sé tutti i significati che le si vuole attribuire. Un simbolo vero e proprio che diventa un vero e proprio link a concetti ben più ampi. Io, a un certo punto, ho trovato la mia strada in un genere più strutturato, per questo la linea di demarcazione nera è diventata componente essenziale! Credo poi che l’informale, per quanto ancora molto sentito nelle accademie, andrebbe superato… siamo nell’era dei codici grafici, è questa, al momento, quella che penso sia la lingua universale e largamente comprensibile!
Fra la mia pittura e il disegno animato invece, la differenza è molto sottile. Tratto una singola opera come, nel disegno animato, tratto l’intera serie di fotogrammi. Ovvio! Il disegno animato ha un’evoluzione da distribuire su più immagini, mentre nell’opera singola, il racconto va esplicitato in un’unica scena, dall’inizio all’epilogo. Sono un po’ come poesia e narrazione…
E la fiaba… che peso ha nella tua opera?
Ha un peso enorme! Mi diverto a riprendere e stravolgere completamente la letteratura e le produzioni televisive per l’infanzia! La mia fiaba di “Cappuccetto rosso” ad esempio, è diventata una sorta di story board dove è il lupo a scappare vedendo Cappuccetto rosso! Poi, il boscaiolo con l’accetta, fa fuori Cappuccetto e torna a casa con il lupo scodinzolante! Molti super eroi nei miei lavori muoiono per strada e sulle strisce pedonali! Zorro, con la sua spada, non si salva la vita in una strada trafficata! In un mio piccolo omaggio a “I shot the sheriff“, lo sceriffo muore in strada sfidando un cattivo. Anche il gatto e il topo muoiono in strada! E’ il riscatto del destino, a dispetto di come ci si comporta in vita: puoi essere gatto o topo, buono o cattivo, ma rischi di morire alla stessa maniera…
Ma fra il gatto e il topo, il cattivo chi è?
Perché il topo?
Perché amo i gatti…
Come mai hai eletto la strada a luogo della tua metafora pittorica?
Perché la strada è un “luogo non luogo”. È il luogo peggiore per morire! Tutti ci immaginiamo e speriamo di morire da vecchi e affiancati dai nostri cari o, al contrario, di essere noi al capezzale delle persone che amiamo nel momento del trapasso. In strada non c’è nulla di tutto questo. Non ci sono affetti e non c’è confidenza con il luogo stesso: non è un luogo nostro e non è di nessun altro!
Qual è la tua idea della figura di “artista” o “pittore”?
Mah… non credo nel “valore” dell’artista come persona, ma credo in quello insito dell’arte. Essa, semplicemente, ti fa un dono con cui puoi superare ogni barriera sociale. Hai una tela, e con essa, la possibilità di far viaggiare un tuo pensiero lontano da te e in completa autonomia. Puoi diffondere la tua idea come faresti con un virus! L’artista di per sé, alla fine, è solo un veicolo, una specie di antenna parabolica che trascrive dei messaggi e poi li lascia andare, come una bottiglia in mezzo all’oceano!
Per concludere: un tuo pensiero sull’arte coeva…
Credo nell’arte, e spero che chiunque altro lo faccia, possa contribuire all’accendersi di tanti piccoli fuochi: delle esplosioni qua e là di virus, come le cellule di Al Quaeda! Il futuro dell’arte penso e spero sia quello di generare il caos, il disordine, ossia qualcosa che sia fuori dai parametri umani di misurazione, proprio ciò che viene considerato appunto in contrapposizione all’ordine. Se ci pensi, è definito “ordine” ciò che è umanamente “inscatolabile” e misurabile… ma non esiste in natura e di certo non può quindi dar frutto a nulla!
Nel salutare Francesco, riesco a strappargli ben due promesse: quella di rivederci e quella di chiamare mia madre, per spiegare anche a lei questa storia che l’ordine non esiste e che quindi, il mio studio, è in una caotica e perfetta sintonia con la natura!
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