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Quel che può apparire, spesso non è: intervista a Maurizio Cesarini

Trasformista, video artista, fotografo e installatore di concetti

Maurizio Cesarini. Tutti i diritti riservati

Artista prima, durante e dopo, ma anche critico, curatore e già professore in varie Accademie d’Italia fra cui quella di Perugia, Urbino, Frosinone e, niente meno, quella dell’Alma Mater. Maurizio Cesarini è un senigalliese di quelli che più o meno tutti conoscono, ma è soprattutto un professionista che probabilmente in tanti faticano a capire.

D’altronde è risaputo: nemo propheta in patria. Locuzione che salva giusto la categoria dei personaggi da quiz televisivi con relativa vincita, per tutti gli altri – brutto da dire, ma di buon auspicio – occorre aspettare quel “dopo” a cui però, per causa di forza maggiore, è impossibile assistere.

Cesarini è uomo di profonda umiltà e umanità. Un sorriso sempre nuovo, lo sguardo perennemente acceso che rifrange lesto ciò che gli cambia tutt’attorno. Performer, videoartista e fotografo che comincia e cresce sincronicamente con i suoi tempi, anche se, alle volte, penalizzato dal paese che gli ha dato i natali.

Maurizio Cesarini. Tutti i diritti riservatiMaurizio Cesarini si sperimenta come trasformista e body-artista quando anche Gina Pane, Luigi Ontani e Urs Lüthi approdavano a un tipo di intervento artistico prettamente corporeo e carnale. Erano gli anni in cui Lou Reed pubblicava “Transformer”, album ormai entrato di diritto nella storia della musica, e anni in cui, in Italia, il termine Drag Queen non era neanche lontanamente contemplato.

La tua intera produzione si compone di perfomances (e relativa documentazione), video e fotografie. Ma quando e con cosa hai esordito?

Erano appena cominciati gli anni ’70 ed ero ancora in Accademia. Le mie prime performances erano tutte incentrate sul concetto dell’apparire. In una in particolare, “Identico-inidentico”, si ribaltavano completamente le identità reali rispetto alle sembianze. Così, quello che era uomo, o che per lo meno appariva come tale, si spogliava completamente fino a mostrarsi nella sua reale essenza femminile, mentre io, vestito e truccato come una donna, mi rivelavo essere un uomo. I ruoli venivano invertiti nella realtà rispetto a come apparivano superficialmente. Così, tutti quei simboli differenziali non innati, ma indotti, si rivelavano fittizi, elementi fuorvianti tipici dell’apparenza e persino opposti all’oggettività. Tra l’altro, è quanto mai attuale come concetto data la diffusione della chirurgia plastica. All’epoca si “giocava” solo con la trasformazione provvisoria, oggi invece, ciò che è apparente si può addirittura tramutare in permanente.

Il trasformismo artistico cominciava giusto in quegli anni a fare le sue prime “apparizioni”, quindi suppongo che, durante le tue prime esibizioni, avrai assistito a reazioni di vario genere fra il pubblico…

Oh, sì! Il mio professore di pittura è dapprima fuggito ed era pronto a chiamare i carabinieri (sai, era gente di altri tempi…), poi, nei giorni successivi, mi ha chiamato da parte per farmi confidare… era anche in buona fede! Credeva che fossi combattuto e che ne soffrissi… I miei genitori, vedendomi armeggiare con rossetti e trucchi non volevano che mettessi più il piede fuori casa! Mi ci è voluto un po’ di tempo prima di far capire che il mio “giocare” con il trasformismo non aveva nulla a che fare con la mia identità sessuale!

Le tue performances si limitano agli anni ’70, non le hai più ripetute o fattedi nuove?

Maurizio Cesarini. Tutti i diritti riservatiL’ultima risale al 1977. Ero arrivato all’azione violenta sul corpo, al sangue che sgorga dall’interno e che concretizza tutto ciò che è corporeo e che ne decreta l’esistenza anche al di fuori di un reale e diversificato contenitore, quale appunto è il corpo umano. Il sangue è la parte più intima di una singola identità. Con le ultime performances avevo esaurito il lavoro su quel tipo di concetto e sfruttato fino in fondo il mezzo artistico. Resta, ovviamente, tutta la documentazione fotografica e filmografica, ma sono evoluto in altro. Fotografia, video o azioni sono esclusivamente i mezzi d’espressione più adatti ad esprimere determinati concetti: ogni contenuto richiede la forma più idonea, semplicemente un canale che le si adatti.

Quali altre forme hai utilizzato e utilizzi?

La fotografia e la videoarte sono quelle che solitamente combino in svariate maniere. Ho usato il linguaggio, installazioni e video installazioni. Ho sfruttato i canali comunicativi a trecentosessanta gradi, mescolandoli fra loro per rafforzarne il concetto, per stabilire un’identità culturale e per ridistribuire il potere fra i vari linguaggi.

Nel corso della tua carriera hai esposto in Italia e all’estero e con tanti artisti che hanno rivoluzionato l’arte contemporanea. Avrai di sicuro incontrato molti dei personaggi che hanno contribuito a riscrivere le tendenze. C’è qualche episodio o qualche personaggio da cui sei rimasti particolarmente colpito o che ti va di raccontare?

Beh, molti li ho solo incontrati di fretta o durante le inaugurazioni, quindi non ho condiviso con loro vere e proprie vicende. Però ricordo perfettamente quando sono stato invitato dal consigliere di Peggy Guggenheim nel suo salotto e che, a suo tempo, era frequentato da personalità quali Andy Warhol, Robert Rauschenberg, Italo Calvino… credo che non lo scorderò mai! Fra le persone che ho conosciuto invece, mi porterò sempre nel cuore Ben Patterson, allievo di John Cage che conobbi durante una mostra a Roma su Fluxus. A ottant’anni suonati aveva ancora negli occhi la stessa luce e lo spirito di un ragazzo di vent’anni! Brillante, sveglio e pieno di energia!

Effettivamente, molti di coloro che lavorano con la creatività, o in uno qualunque dei vari settori dell’arte, non sembrano invecchiare mai… secondo te perché?

Perché per fare questo mestiere devi saper conservare il senso dello stupore. È quello che mantiene giovani ed è lo stesso che ti permette di cogliere al volo un’intuizione, una nuova idea. Per costruire concretamente un pensiero devi saper analizzare e risolvere artisticamente una nozione, altrimenti non si risolve da sé e se ne resta allo stadio utopico. Per fare questo però, devi avere gli occhi e la mente “guizzanti”, le antenne sempre pronte e recettive! Non puoi metterti a tavolino e dire: “Ora ragiono su qualcosa…”.

Fra le tue esperienze, generi e soluzioni, ce n’è una che a tutt’oggi consideri quella più rappresentativa?

Maurizio Cesarini. Tutti i diritti riservatiNo, non c’è. Semplicemente perché, ogni lavoro è strettamente legato a un mio periodo, ad una certa esperienza artistica. Io, come tutti, sono in continuo cambiamento ed evoluzione, quindi, ciò che mi andava bene in un determinato passato, ora non è più valido. Non mi sento ancora maturo, non sono ancora un professionista nel senso di aver completato la mia formazione. Ho ancora molto da sperimentare. Per motivi di mercato mi è anche stato chiesto di fermarmi a un certo livello: alla gente piaceva quel genere e si riusciva a vendere. Eppure, questo tipo di sistema non fa per me. Ho bisogno di essere libero. Ho bisogno di affrontare ancora molti “discorsi” e di vagliare varie possibilità.

Insegni da molti anni nelle Accademie d’arte e hai girato vari atenei d’Italia. Che idea ti sei fatto sui giovanissimi “artisti” e come capisci chi farà davvero strada?

I ragazzi di oggi hanno tantissimi stimoli provenienti da ogni fonte. Possiedono un tipo di sapere notevolmente esteso, ma purtroppo c’è un forte incremento della conoscenza in senso orizzontale che va a discapito di quella verticale. Si tende a non approfondire più nulla: sanno un po’ di tutto, anche dell’inimmaginabile, ma non vanno mai fino in fondo su nulla. La mia non è affatto una critica, è una semplice constatazione. D’altra parte, i ragazzi sono figli del proprio tempo, quindi rispecchiano quelle che sono le abitudini e le tendenze oggi, non possiamo attribuire loro alcuna colpa. Tutti sono bravi, tutti diligenti e studiosi, ma solo per fini scolastici, non sembrano avere altri obiettivi al di fuori del rendimento e del voto sul libretto. Di contro, il ragazzo che ha “qualcosa in più” lo vedi proprio dal modo di affrontare le varie tematiche, da come le assorbe e le fa sue; deve approfondire e andare oltre, non sembra soddisfatto finché non ritiene di aver esaurito completamente un argomento. Di solito sono questi i ragazzi che andranno avanti. Io ne ho conosciuti parecchi! Con qualcuno ho anche esposto! Da insegnante a collega. Il bello dell’arte è proprio questo: a un certo punto le gerarchie si annullano, non esistono più!

Senti, lo chiedo a tutti, ma è la prima volta che mi capita di chiederlo a un artista che è anche critico e che, quindi, ha di certo un po’ più di cognizione: che ne pensi dell’arte coeva? Si parlerà ancora di qualche “ismo” secondo te?

Maurizio Cesarini. Tutti i diritti riservatiNo. Non per ora. L’ultimo “ismo”, tra l’altro forzato, è quello della Transavaguardia; dopodiché sono completamente spariti. Oggi vige la promiscuità e intercambiabilità nell’arte. Un po’ come nella politica e nella società. Non c’è differenziazione di generi, non esistono più la destra e la sinistra, non esiste più l’esatto contrario di qualcosa. Tutto può essere scambiato, ricambiato o sostituito, anche antropologicamente parlando, questa è l’era del rimpiazzamento: si possono cambiare addirittura le parti del proprio corpo.

Si è appena conclusa a Senigallia la tua mostra “Acque di ritorno”. Mi parli un po’ di quest’ultima personale e di eventuali altri progetti in vista?

Molto spesso, le mie installazioni vengono studiate in base allo spazio espositivo. Anche per quella che si è da poco conclusa a Senigallia è stato così. “Acque di ritorno” è stato un percorso intorno al fluire della vita e alla sua ciclicità; un cammino a cui si accedeva entrando nella galleria, semplicemente aprendo la porta a vetro. Lo spazio visibile dall’esterno permetteva di scegliere fra due possibilità: entrare “dentro” e fare in prima persona quel cammino esplorativo, oppure, osservarlo dall’altra parte del vetro e restare solo spettatore.

Per quanto riguarda i progetti a venire invece, dal 21 febbraio sono presente a una collettiva dedicata all’autoritratto e al concetto di doppio curata da Giorgio Bonomi, mentre, per il mese di marzo, devo lavorare a una mia personale in una galleria di Roma. Poi ci sono altre cose che stanno prendendo forma… ma queste le dirò a tempo debito!

 

Molto spesso, nell’avvicinare personalità che svolgono un lavoro nel proprio stesso campo di interesse, non ci si sente mai pronti o sufficientemente eruditi per porsi sullo stesso piano e scambiare concetti, pensieri e idee. Nonostante lo abbia incontrato più volte, nei confronti di Maurizio Cesarini sono sempre restata frenata, timorosa di procurare fastidio o, perché no, di risultare presuntuosa. Glie l’ho detto, dopo un po’ che parlavamo. Si è messo a ridere e mi ha risposto: “Non sono così come mi dipingi tu!”.

Mi abbraccia per salutarmi e mentre riprendo la mia strada penso che, forse è vero: l’arte, a un certo punto, annulla le gerarchie.

Commenti
Solo un commento
Luisa 2013-03-01 11:27:08
Bella intervista Maurizio. Pensavo proprio ieri che la più grande ingenuità o follia che si possa compiere oggi, è quella di darsi allo studio dell'arte, della filosofia, delle lettere, pretendendo che rimangano nella sfera dell' in-utile, inteso alla lettera. Non sentirsi mai un "prodotto" finito. Non farsi imprigionare in un'etichetta. Fare voto di precarietà, avere il coraggio di lasciarsi invecchiare senza ricorrere alla macelleria dittatoriale del "giovanilismo" a tutti i costi. Certo, metterlo in pratica è difficile. Ma quel che è facile, non so perché, ha poco fascino, e soprattutto, è fondamentale porsi compiti impossibili. (C Bene... più o meno diceva così
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