Il 23 novembre di 32 anni fa il drammatico terremoto in Irpinia
Era il 1980. L'Italia si scoprì fragile. E corrotta
“Non vi sono stati i soccorsi immediati che avrebbero dovuto esserci. Ancora dalle macerie si levavano gemiti, grida di disperazione di sepolti vivi“.
Questa drammatica dichiarazione, fu pronunciata il 26 novembre del 1980 dall’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini: tre giorni prima, il 23 novembre, 32 anni fa, l’Irpinia era stata colpita da un grave terremoto che alla fine provocò, tra Campania e Basilicata, circa 3.000 morti, oltre a 280.000 sfollati e 9.000 feriti.
Come ogni anno, nei comuni vittime del sisma (X grado – cioè “completamente distruttivo” – della scala Mercalli) l’evento viene ricordato nel giorno del suo anniversario.
Quello, non fu vissuto, in tutta Italia, come gli altri terremoti: anche se, inizialmente, non si capì la gravità del danno, per poi enfatizzarne invece in seguito le conseguenze, la presenza sempre più diffusa del mezzo televisivo sconvolse l’immaginario collettivo.
E mise in luce l’inadeguatezza del patrimonio edilizio e l’inefficienza e il ritardo dei soccorsi, testimoniati proprio dalle parole del presidente Pertini.
La ricostruzione fu, inoltre, uno dei più tristi ed imbarazzanti esempi di speculazione su una tragedia. Infatti, come testimoniano varie inchieste della magistratura, nel corso degli anni successivi si inserirono interessi politico-imprenditoriali poco limpidi che dirottarono i fondi verso aree che non ne avevano diritto.
In particolare, l’inchiesta Mani sul terremoto, parte del filone di Mani Pulite, indagò – vedendo tra gli accusati una parte ragguardevole della dirigenza politica di allora – proprio sulla gestione dei contributi economici destinati ai comuni danneggiati dal grave sisma.
Il terremoto in Irpinia, segnò, come affermò Indro Montanelli, uno spartiacque nella storia italiana, “trasformando non soltanto una regione d’Italia, ma pure un’intera classe politica“.
Ma forse a fare ancor di più riflettere, sono le le parole di un articolo scritto da Alberto Moravia per l’Espresso nel 1980: in poche righe – che riportiamo – queste descrivono il dramma di una popolazione, ma pure i limiti di uno Stato intero:
Scendiamo in una cava abbandonata; appena siamo saltati a terra, ecco che ci viene incontro in forma di gruppo di uomini con la scoppola e di donne vestite di nero il coro di questa tragedia paesana. “Qui nessuno ci aiuta, siamo abbandonati da Dio e dagli uomini, i Tedeschi, che sono Tedeschi, sono arrivati prima dei Salernitani; sulle strade fermano le ruspe per lasciar passare le macchine delle autorità; ci vogliono delle gru per tirar fuori i sepolti vivi ed invece ci mandano dei centri di rianimazione che per ora non servono a niente; in quei bar laggiù giocavano a biliardo, a carte, bevevano, chiacchieravano: tutti morti, settanta, ottanta; qui eravamo seimila, adesso siamo duemilacinquecento: gli altri o morti o sotterrati vivi; le quattro chiese: crollate; il municipio: crollato; la farmacia: crollata’”. E il sindaco dov’è? “Il Sindaco è morto“.
Il discorso del coro colpisce per due motivi: da una parte si sente la rabbia di chi ha aspettato minuto per minuto, secondo per secondo, i soccorsi, prima con un sentimento di certezza, poi con speranza, poi con stupore, poi con incredulità, poi alfine con disperazione vera, assoluta e profonda; dall’altra parte, come dire, si avverte un’assuefazione fulminea e quasi compiaciuta all’orrore della situazione. Colui che risponde seccamente che il Sindaco è morto, poco dopo dice, facendo un gesto espressivo con la mano.
“Adesso si vede chi ha rubato. L’ospedale nuovo, inaugurato l’altr’anno, è crollato, i malati sono morti gli infermieri sono morti, i medici sono morti. E perché sono morti? Perché c’è stato chi ha rubato sul cemento come il negoziante disonesto ruba sul peso“.
Nel discorso del coro, “morte” e “furto” vanno oramai insieme, come in altre famose coppie di parole “morte” va insieme con “amore” oppure “passione” va insieme con “morte”; e ci vorranno molti sforzi e molta buona volontà per dividere di nuovo la parola terribile dalla sordida.
[…] Ma ora è proprio a questa modernità della costruzione che si debbono i numerosi sepolti vivi e si capisce anche perché: nelle vecchie case fatte di mattoni friabili e di piccole pietre, era difficile sopravvivere: lo sbriciolio della muratura impediva che si formassero delle cavità al tempo stesso ermetiche e vuote. In queste costruzioni moderne, invece, i blocchi di cemento, sovrapponendosi l’uno all’altro nel caos del crollo, queste cavità le formano in gran numero. Così i costruttori hanno fabbricato senza saperlo o meglio spesso sapendolo delle case facilmente convertibili in tombe…
[…] Ora perché questo fatale e incredibile ritardo? Che cosa ha impedito che l’urgenza della situazione giungesse fino al cuore di chi poteva provvedere? La risposta a questa domanda sembra dover essere purtroppo la seguente: è evidente che l’inerzia ha un fondo diciamo così storico-religioso. La storia è ormai storia di una lenta ma inarrestabile degradazione; dal canto suo la religione o se si preferisce la religiosità, cioè il fatto di sentirsi legati insieme (tale è il significato della parola) non tiene più, i suoi legami si sono allentati, disfatti.
[…] Ad un tratto la verità brutale ristabilisce il rapporto tra me e la realtà. Quei nidi di vespe sfondati sono case, abitazioni, o meglio lo erano.
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