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49 anni fa la tragedia del Vajont: una lezione ancora attuale

Quasi 2000 morti nel bellunese per una strage annunciata

La diga del Vajont, rimasta intatta nella tragedia del 1963, vista da Longarone, ora 4.000 abitanti

Erano le 22.39 del 9 ottobre 1963. A Longarone, paese in provincia di Belluno, molta gente stava guardando in televisione una partita della Coppa Campioni di calcio.


Fu un attimo. E nello spazio di pochi minuti, la città fu rasa quasi completamente al suolo, inghiottendosi per sempre anche la gran parte dei suoi abitanti.
Una frana caduta dal monte Toc che sovrastava il piccolo paese, si riversò nel bacino idroelettrico artificiale del Vajont, scavalcando l’omonima diga e discendendo verso l’abitato di Longarone. Distruggendolo. 1400 morti, più altri 600 negli altri piccoli e limitrofi comuni della vallata.

Un disastro annunciato e temuto già da anni, da quando cioè lo Stato italiano, la Montedison e l’Enel (che nel 2000, cioè quasi 40 anni dopo, si accordarono per la ripartizione dei costi di risarcimento ai Comuni colpiti), per interesse economico e negligenza non avevano tenuto nell’opportuna considerazione il pericolo dovuto al particolare assetto idrogeologico della zona del Monte Toc, al momento di realizzarvi la diga, terminata nel 1959.

La tragedia del Vajont – ricorda oggi il governatore del Veneto Luca Zaia – “ci testimonia ogni giorno che nessuno può avere la superbia di essere più forte della terra e di poterla domare. 49 anni dopo, il Vajont è ancora una lezione”.
Ma è anche un drammatico esempio di un paese dove troppo spesso gli interessi di parte hanno cozzato con quelli della collettività, fino a renderla vittima – nonostante un iter giudiziario lungo e contradditorio – indifesa ed innocente.

Di una tragedia annunciata, perché fino all’ultimo sui rischi si è taciuto.

Un dramma che ancora oggi vale la pena ricordare, con le parole di un grande giornalista e scrittore come Dino Buzzati, che del bellunese era originario e che dopo il fatto, sul Corriere della Sera, pubblicò questo articolo, intriso di dolore, sconcerto e rabbia:

Stavolta per il giornalista che commenta non c’è compito da risolvere se si può, con il mestiere e con la fantasia e col cuore. Stavolta per me, è una faccenda personale perché quella è la mia terra, quelli i miei paesi, quelle le mie montagne, quella la mia gente. E scriverne è difficile!
Un po’ come se a uno muore un fratello e gli dicono che a farne il necrologio deve essere proprio lui.
Conosco quei posti così bene, ci sono passato tante centinaia e forse migliaia di volte che da lontano posso immaginare tutto quanto come se fossi stato presente.
Per gli uomini che non sanno, per i paesi antichi e nuovi sulla riva del Piave, là dove il Cadore dopo tante convulsioni di valloni e di picchi apre finalmente la bocca sulla pianura e le montagne per l’ultima volta si rinserrano le une alle altre, è soltanto una bellissima sera d’ottobre.
In questa stagione l’aria è lassù limpida e pura e i tramonti hanno delle luci meravigliose. Ecco, il sole è scomparso dietro le scoscese propaggini dello Schiara, rapidamente calano le ombre, giù dalle invisibili Dolomiti comincia a soffiare un vento freddo, qua e là si accendono e si spengono i lumi, i buoi si assopiscono nelle stalle, gruppetti operai dalla fabbrica di faesite pedalano canterellando verso casa, un’eco di juke box con la rabbiosa vocetta di Rita Pavone esce dal bar trattoria con annessa colonnetta di benzina, rare macchine di turisti passano sulla strada di Alemagna, la stagione delle vacanze è finita. Proprio di fronte a Longarone la valle del Vajont è già buia, più che una valle è un profondo e sconnesso taglio nelle rupi, un selvaggio burrone, mi ricordo la straordinaria impressione che mi fece quando lo vidi per la prima volta da bambino, a un certo punto la strada attraversava l’abisso, da una parte e dall’altra spaventose pareti a picco.
Qualcuno mi disse che era il più alto ponte d’Italia, con un vuoto sotto, di oltre cento metri. Ci fermammo e guardai in giù con il batticuore.
Bene, proprio a ridosso del vecchio e romantico ponticello era venuta su la diga e lo aveva umiliato.
Quei cento metri di abisso erano stati sbarrati da un muro di cemento, non solo; il fantastico muraglione aveva continuato ad innalzarsi per altri centocinquanta metri sopra il ponticello e adesso giganteggiava più vertiginoso delle rupi intorno, con sinuose e potenti curve, immobile eppure carico di una vita misteriosa.
Notte. Due finestre accese nella cabina comandi centralizzati, nell’acqua del lago artificiale si specchia una gelida fascetta di luna, ronzii nei fili, giù nel tenebroso botro lo scrosciare dello scarico di fondo, a Longarone.
Faè, Rivalta, Villanova dormono, ma c’è ancora qualcuno che contempla il video, qualcuno nell’osteria intento all’ultimo scopone. In quanto alle montagne esse se ne stanno immobili, nere e silenziose come il solito.
No, a questo punto l’immaginazione non è più capace di proseguire, la valle, i monti, i paesi, le case, gli uomini, tutto riesco ad immaginare nella notte tranquilla  poiché li conosco così bene, ma adesso non bastano le consuetudini e i ricordi. Come ricostruire ciò che è accaduto, la frana, lo schiantamento delle rupi, il crollo, la cateratta di macigni e di terra nel lago? E l’onda spaventosa, dal cataclisma biblico, che è lievitata gonfiandosi come... Sì come un immenso dorso di balena, ha scavalcato il bordo della diga, è precipitata a picco giù nel burrone, avventurandosi, terrificante bolide di schiuma, verso i paesi addormentati. E il tonfo nel lago il tremito della guerra, lo scrole dell’acqua impazzita, il frastuono della rovina totale, coro di boati stridori, rimbombi, cigolii, scrosci, urla, gemiti, rantoli, invocazioni, pianti? E il silenzio alla fine, quel funesto silenzio di quando l’irreparabile è compiuto, il silenzio stesso che c’è nelle tombe?
Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi. Non è che si sia rotto il bicchiere quindi non si può, come nel caso del Gleno, dare della bestia a chi l’ha costruito. Il bicchiere era fatto a regola d’arte, testimonianza della tenacia, del talento, e del coraggio umano.
La diga del Vajont era ed è un capolavoro perfino dal lato estetico.
Mi ricordo che mentre la facevano l’ingegnere Gildosperti della S.A.D.E. mi portò alla vicina centrale di Soverzene dove c’era un grande modello in ottone dello sbarramento in costruzione ed era una scultura stupenda, Arp e Brancusi ne sarebbero stati orgogliosi.
Intatto, di fronte ai morti del Bellunese, sta ancora il prestigio della scienza, dell’ingegneria, della tecnica, del lavoro.
Ma esso non è bastato. Tutto era stato calcolato alla perfezione, e quindi realizzato da maestri, la montagna, sotto ai lati, era stata traforata come un colabrodo per una profondità di decine e decine di metri e quindi imbottita di cemento perché non potesse poi in nessun caso fare dei brutti scherzi, oppure apparecchiature sensibilissime registravano le più lievi regolarità o minimi sintomi di pericolo. Ma non è bastato. Ancora una volta la fantasia della natura è stata più grande ed asciutta che la fantasia della scienza. Sconfitta in aperta battaglia, la natura si è vendicata attaccando il vincitore alla spalle. Si direbbe quasi che in tutte le grandi conquiste tecniche, stia nascosta una lama segreta e invisibile che a un momento dato scatterà.
Intatto, e giustamente, è il prestigio dell’ingegnere, del progettista, del costruttore, del tecnico, dell’operaio, giù fino all’ultimo manovale che ha sgobbato per la diga del Vajont, ma la diga, non per colpa sua è costata diecimila morti. I quali morti non sono della Cina o delle Molucche, ma erano gente della mia terra che parlavano come me, avevano facce di famiglia e chissà quante volte ci siamo incontrati e ci siamo dati la mano e abbiamo chiacchierato insieme. E il monte che si e’ rotto e ha fatto lo sterminio è uno dei monti della mia vita il cui profilo è impresso nel mio animo e mi rimarrà per sempre. Ragione per cui chi scrive si trova ad avere la gola secca e le parole di circostanza non gli vengono.

Le parole incredulità, orrore, pietà, costernazione, rabbia, pianto, lutto, gli restano dentro col loro peso crudele.

Commenti
Solo un commento
Valeria Bellagamba 2012-10-10 12:11:22
Grazie per questo intenso e struggente ricordo. Tempo fa il Corriere della Sera aveva ripubblicato un altro drammatico, ma bellissimo, racconto di Buzzati sul Vajont e le sue vittime: era la storia di un bambina morta nella tragedia e della bambola appoggiata sulla sua tomba. Un racconto fantastico e terribile del grandissimo Buzzati.
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