Che noia ‘sto Renzi
Tra banalità e storielle, una breve analisi del giovane candidato alle primarie del PD
È un peccato che lui li declami con il ritmo petulante del bambino della quarta elementare che ripete il 5 maggio davanti alla maestra, perché i discorsi di Matteo Renzi sono scritti davvero bene. Dunque probabilmente non sono farina del suo sacco. Ben strutturati e con quel tanto di cultura pop che non fa mai male, pomposi ma mai oltre l’eccesso, alternano analisi che pretendono di essere lucide su problemi reali a lunghi sermoni che planano a volo d’uccello su questioni che sembrano onestamente un po’ troppo complesse per essere affrontate da uno come Renzi.
Peccato, inoltre, che siano discorsi scritti per un politico che aspira a governare l’Italia. In bocca a un impiegato in un bar suonerebbero meglio. È evidente, che sono discorsi pensati per far presa sull’uditorio, ricorrendo a immagini forse scontate ma sicuramente efficaci, che si reggono su slogan piuttosto farlocchi e pseudo-valori che, trattati come li tratta Renzi, diventano soltanto fuffa.
Sin dall’esordio: “Buongiorno a tutti. Grazie a tutti voi e soprattutto a chi oggi prova un’emozione, perché io credo fortemente che la politica regali delle emozioni“. Vabbè, uno dice, magari è soltanto un incipit un po’ retorico, ma ora la smette. E infatti: “È sempre un’emozione quando parte un viaggio, è un’emozione particolare quella di sapere da dove si parte ma non sapere dove si arriva. È un’emozione particolare quella di chi si rende conto che camminando assieme scopri qual è il lusso vero: non l’auto blu o lo stipendio, ma la qualità delle relazioni umane che riesci a suscitare e a intraprendere con gli altri“. Primi sbadigli in sala. E siamo solo al primo minuto. Renzi insiste, imperterrito: “È una fortuna viaggiare insieme, nel senso metaforico, verso un orizzonte che provi a… a allargare il respiro“. Ma sì, dai, un po’ lunghetto come incipit, ma adesso vedrai che affronta le questioni serie, ricorrendo a dati e statistiche.
Ma purtroppo è ancora presto, e infatti Renzi ricorre al greco: “Una volta un compagno di strada mi ha detto che le cose migliori si fanno solo quando c’è il kairòs e la philìa: cioè quando c’è il momento opportuno e l’amicizia profonda. Che è un’amicizia che avverto in questo momento, l’avverto profondamente negli occhi di alcuni di voi“. Va bene, Renzi, siamo tutti amici tuoi, ma adesso perché non ci dici come vorresti risolvere i problemi della famiglia media italiana. Invece l’unica famiglia importante, per il sindaco di Firenze, è la sua: “Si tratta di un’amicizia che ho avvertito ieri, quando dopo aver messo a letto i miei bambini mi sono messo a scrivere quest’intervento e ogni quaranta o cinquanta secondi mi arrivava un messaggino“. Una sorta di buon padre di famiglia, democristiano ma hi-tech. E poi un sms ogni 40 secondi? Ipotizzando che abbia impiegato due ore a scrivere il discorso – se davvero l’ha scritto lui – significa che il cellulare del bravo scrivano fiorentino ha squillato almeno 180 volte. Una tortura, coi bambini nella camera a fianco che rimproveravano il padre: “Metti il silenzioso e lasciaci dormire. Domani ricomincia la scuola!“.
Qualcuno pensa di aver sbagliato orario: magari di politica ne parla l’ora dopo. Ma per Renzi, adesso, è arrivato il momento di ricorrere ad un altro di quei valori che lui trasforma in aria fritta: la “leggerezza” descritta da Calvino nelle Lezioni americane. La quale però in bocca a Calvino un senso, forse un po’ vago, ce l’aveva; detta da Renzi fa onestamente ridere. “Ci sono cose più importanti della politica. Ed è la vita e i sentimenti che la vita ti mette di fronte, ed è la leggerezza con la quale uno può affrontare la politica“. Gli spettatori, un po’ preoccupati, si rimproverano di non aver studiato abbastanza per comprendere quello che Renzi sta dicendo. Non sanno, ingenui, che il fatto vero è proprio che lui non sta dicendo niente.
Fino al minuto 10 è tutto uno sproloquiare di “sentimenti” e “emozioni“. Poi, però, la svolta: no, tranquilli, non si tratta di welfare o disoccupazione. È il momento dell’immancabile metafora calcistica: “Se giochiamo all’attacco, il centrosinistra può addirittura rischiare di vincere e di stupire“. Ma ecco che piano piano entra nel vivo delle questioni più serie. E infatti si dà all’amarcord: “Quanti di noi hanno cominciato a far politica perché vedevano una classe dirigente pronta a scannarsi su tutto ma incapace di dare risposte alle grandi questioni nazionali e internazionali“. E qui sembra che Renzi si stia guardando allo specchio. Poi tornano di nuovo i figli: “Il mondo è cambiato notevolmente: se dico ai miei figli che vent’anni fa le Germanie erano due e la Jugoslavia una sola mi crederebbero ubriaco“. E tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino.
Dopo un quarto d’ora di nulla, il primo attacco alla gerontocrazia italiana: “Noi siamo gli unici a poterci presentare alle elezioni senza dover portare una giustificazione. Perché in questi 25 anni, mentre loro causavano lo sfacelo di questo Paese, noi eravamo ancora all’asilo“. Poi il buon Renzi dà un’occhiata alle prime file della platea, vede qualche sbadiglio e reagisce con un colpo di reni: “Ma non è il tempo del rimpianto o della nostalgia, è il tempo della costruzione“. Ecco, ed è da qui che la situazione si fa critica. Perché Renzi continua a dondolarsi tra abbozzi di riforma, già ampliamente messi in atto dai quei maledetti grillini che lui tanto detesta (“Trasparenza assoluta della pubblica amministrazione“, “bilanci on-line“…) e riferimenti ad un immaginario collettivo che però viene privato di alcun senso nei suoi discorsi. Renzi pesca a piene mani, ad esempio, dai testi dei cantautori, ma banalizzando tremendamente i loro versi, e facendone quasi stereotipi. E allora, ricordando La leva calcistica della classe ’68 di De Gregori, annuncia, con l’ennesimo riferimento al calcio, che preferirà rischiare di sbagliare il calcio di rigore piuttosto che rimanere in panchina per la paura di tirarlo. E poi recupera l’anafora utilizzata da Gaber in Qualcuno era comunista e la trasforma in “essere democratici significa…” infilando, una dietro l’altra, una serie di banalità atroci.
Renzi continua a intraprendere discorsi anche complessi e meritevoli di essere affrontati, ma ci entra fintanto che può rimanere sul vago; quando ci sarebbe da sviscerare il problema nelle sue parti più complesse, fa dietro front, si sbraccia, e cerca l’applauso. Emblematica la storia che racconta di Teresa, una ragazza di Otranto che lui dice di aver conosciuto in uno dei suo viaggi per l’Italia di quest’estate (ma Renzi, a proposito, non è anche sindaco di Firenze a tempo perso?). Ebbene, Teresa è un’avvocatessa che smette di esercitare la professione per accudire i suoi due bimbi, e poi però cerca di diventare insegnante. A parte che viene da chiedersi che gente frequenta Renzi, ma è il modo in cui il giovane rampante della nostra politica affronta la questione che lascia piuttosto basiti. “Teresa va a fare il suo test e vede che i test sono tutti sbagliati, perché chi ha fatto le domande le ha fatte tutte sbagliate“. Il che è davvero successo, purtroppo; ma raccontata così, la faccenda sembra una storiella da comare pettegola. Da uno che si candida a governare il Paese ti aspetti un minimo di professionalità e di precisione in più.
E, soprattutto, ti aspetti che offra una proposta politica valida e credibile. Ma per ora non chiediamogli troppo, al giovane Renzi. Lui ha già il merito, appunto, di essere “gggiòvane“, in quanto tale si è convinto di essere ipso facto rivoluzionario. Come il direttore d’orchestra de Le vacanze intelligenti, quello del concerto di musica contemporanea. Durante il quale Sordi e la Longhi, in preda ai colpi di sonno, continuavano a domandarsi sgomenti: “Quand’è che comincia?”. Chi era presente a Verona, al primo discorso di Matteo Renzi, giura che le reazioni del pubblico sono state le stesse.
di Valerio Valentini
Tratto da Byoblu.com
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