Volti e nomi della Senigallia celebre ma modesta n°19: Margherita Angeletti
Quale medicina migliore per gli altri, che il saper ascoltare in silenzio e regalare una parola di conforto?
Nel DNA delle piccole-grandi donne c’è qualche fattore genetico che evidentemente le lega e le porta a librarsi un palmo sopra a tutti gli altri. Madre Teresa di Calcutta, Rita Levi-Montalcini, Aung San Suu Kyi, Marie Curie, Grazia Deledda, e per giungere ad una nostra corregionale Maria Montessori, scriccioli di donne, tutte cuore e cervello.
Se mi permettessi di paragonare la nostra dr.ssa a queste donne, certamente non le farei un favore, al massimo un sopito augurio. Però, il suo modo di porsi, il suo pensiero, la passione che mette in quello che fa, la disponibilità, il senso di votarsi al prossimo, mi hanno portato a relazionarla con i personaggi su elencati, seppur con un obiettivo distacco.
So anche che alla dr.ssa Margherita non piacciono i “riflettori” a cui ha fatto fare cortocircuito. Ma io mi sono permesso l’ardire di rimetterli in funzione per sole 24 ore. Giusto il tempo di una veloce pubblicazione di questo scritto.
Ho promesso e mi sono ripromesso di non parlare con lei, neppure di politica, cittadina, regionale o nazionale. Quello che più interessa ad entrambi, in questo colloquio, sono gli esseri umani. Quelli con meno vantaggi, economicamente, ben s’intenda!
Un consiglio. Si guardi bene che il pezzo che ho scritto è lungo. Non è un articolo, non è un reportage, non è uno scoop, è semplicemente un racconto che però alla fine può regalare fiducia, non per come è scritto, ma per i contenuti in esso raccolti e raccontati.
Quella fiducia che a volte si perde per carenza di conoscenza, quasi con il timore ancestrale per tutto ciò che si ignora. Una lettura che consiglio da farsi, quindi, armati di pazienza, o altrimenti, sarebbe più opportuno sospendere qui, fin d’ora.
Era da tempo che facevo la “corte” a Margherita (mi ha concesso, anzi preteso, onore tutto mio, di darle del “tu”) e metabolizzavo l’idea di strapparle un’intervista. L’interesse era maturato da tempo “origliando” tra i suoi scritti e le sue foto rubati nelle sue pagine di Facebook nonché ascoltando i suoi interventi di carattere sociale sollevati in Consiglio nel suo ruolo anche di Consigliere Comunale.
Da questo avevo compreso che mi trovavo di fronte ad una specie di dottor Jekyll e mister Hyde, per via, ben s’intenda, delle sue due personalità: la dr.ssa Angeletti e la dr.ssa Margherita.
La prima dispensatrice di diagnosi e farmaci, come del resto è ovvio fra chi normalmente pratica questa professione.
La seconda, la dr.ssa Margherita, una specie di confessore, che invece silenziosamente ascolta, si immedesima, poi quasi in “punta dei piedi”, non stacca il foglietto del ricettario, ma con un sorriso, dispensa il consiglio sul da farsi. Accade anche che si carichi a volte, sulle sue esili spalle, problemi ancor più grandi di lei, portandoseli a casa per cercare, in tranquillità, di risolverli. Quali un posto di lavoro da trovare, una cura particolare da concordare con uno specialista magari suo amico, a cui inviare una lettera di presentazione e raccomandazione, una questione di usanze tra due etnie diverse che si sono incontrate e scontrate, da risolvere, magari, proprio tra le sue mura domestiche, come del resto già avvenuto.
Solo con me si è “scontrata” appena l’ho contattata telefonicamente dopo averle inviato un breve messaggio personale: “Ok… diamoci allora del “Tu”, però se vuoi rimanere mio amico non devi più usare nei confronti dei miei amici il termine ‘Diseredati’…“. Che poi, francamente, non era neppure un mio termine, ma un riportare il modo di dire usato da altri e dal sottoscritto preso solamente in prestito.
Ma non sono stato il solo, come poi nel corso del nostro colloquio ho avuto modo di appurare. Anche con alcuni suoi pazienti, da lei definiti “indigeni” locali perché brontolavano in quanto nell’ambulatorio c’erano troppi visi stranieri: “In certe occasioni bisogna farsi sentire, alzandolo, il tono di voce…” mi dice sorridendo.
Mentre si parla del più e del meno, mi chiede scusa per un attimo di interruzione di cui ha bisogno, in quanto deve inviare un sms: “altrimenti – mi dice – mi dimentico“. Quando ha fatto, mi guarda e con un viso soddisfatto e felice mi dice: “Sai a chi ho mandato l’sms? Ad un mio rifugiato che è andato a Verona per incontrare una persona e che questa mattina, come usa fare del resto anche spesso, mi ha inviato un suo messaggino con l’augurio di buona giornata… ma sono in tanti a farmi di queste piccole gradite attenzioni… sono veramente tutti gentili e carini“.
E mentre pian piano si spoglia dell’impaccio iniziale della conversazione viene raccontandomi di alcuni episodi di vita amicale tra lei ed i suoi migranti. Ed allora mi racconta, con viso disteso quasi che rivivesse i momenti, di alcuni flash delle sue giornate: “… quando sono a cena dagli amici tunisini e mangiamo tutti insieme, come vuole la tradizione, il “cuscus” nello stesso piatto, come quando la “vu cumprà?” senegalese Amina, viene nel mio studio portandomi in dono i suoi vestiti più belli, come quando Gharbi e Zaineb, una coppia di tunisini, vengono a casa mia, portandomi in dono il pane fatto da loro in casa, come quando l’amica turca, seguendo un suo rito, mi prepara il caffè e poi mi legge i fondi – poi scoppiando a ridere mi racconta come – alla festa locale del PD, sono rimasta con l’auto “chiusa” da alcune moto nel parcheggio che mi impedivano di uscire. Alcuni posteggiatori, tutti ragazzi di colore, avendomi riconosciuta, hanno spostato sollevando di peso la moto per farmi uscire. Vedi Franco, questa è la mia vita ed è proprio il genere di vita che sognavo da bambina“.
Si guardi bene che questa che parla non è la dr.ssa Angeletti, ma la dr.ssa Margherita… o forse solo Margherita, figlia di un ferroviere con l’hobby della pesca!
D – «Dunque Margherita, per metterti a tuo agio e tranquillizzarti, intanto ti dico che il nostro sarà un semplice colloquio, non un’intervista. Quelle le lasciamo fare ai giornalisti professionisti. Mi devi vedere, quindi, solo come un amico a cui racconti le tue esperienzelavorative e quello che esse ti hanno regalato, i tuoi viaggi, la tua vita, quello che credi comunque utile a fare sia la tua conoscenza che quella dei tuoi migranti».
R – «Mi chiedi di parlarti di me. Lo sai che mi sento un po’ in imbarazzo a parlarti della mia sfera privata o della mia sfera pubblica, della mia vita di medico o della mia vita di consigliere comunale? Per ovvi motivi la mia sfera privata è top secret, gli avvenimenti del consiglio comunale sono quotidianamente pubblicati da tutta la stampa locale. Resta la mia vita di medico, anche se il medico, il consigliere comunale e la Margherita nel suo tempo libero sono un’unica persona.
Esercito la professione di medico da quasi trent’anni e sono innamorata di questo lavoro. Mi ritengo fortunata perché io sin da bambina volevo fare il medico e dirò di più, volevo fare proprio il medico di famiglia. Tutto, vedi, si èsvolto come da copione. Poi il destino, diciamo così, mi ha portato ad avere tra i miei pazienti numerosi migranti di varie etnie: africani, asiatici, americani ed est europei».
D – «Allora diciamo: un’unica persona ma con varie sfaccettature. Ecco che comunque già sei entrata nell’argomento a cui più tenevo. Migranti, migrazioni, esperienze loro e tue. Nel corso di quest’ultimo ventennio (meglio datarlo per non incorrere in errori, diciamo allora 1990-2010) hai notato qualche cambiamento evolutivo, relativamente al loro flusso?»
R – «Negli anni ’90 la percentuale a Senigallia era molto più bassa. I miei primi pazienti stranieri erano tunisini e marocchini. Ricordo che tra di loro c’era anche una famiglia di integralisti islamici fuggiti per motivi politici dalla Tunisia. Io sono molto curiosa, mi piace conoscere persone con abitudini di vita differenti dalle mie e così cerco di capire ascoltando e non giudicando. Poi, nel tempo, sono arrivati i senegalesi, i pakistani, i bengalesi, i peruviani, i colombiani, i boliviani ed anche qualche paziente dalla Repubblica Dominicana. Ma poi ancora le badanti polacche, rumene, ucraine e albanesi. Nel 2007, per puro caso, in seguito alla rinuncia di un collega, sono stati affidati alle mie cure dei profughi afgani e nigeriani ospitati da una struttura alberghiera di Marzocca, in attesa di asilo politico. Più tardi ancora sono arrivati dei somali e da più di un anno il Comune e l’Asur mi hanno affidato l’incarico di curare una cinquantina di profughi approdati a Lampedusa dalla Libia, provenienti da varie nazionalità dell’Africa e dell’Asia».
D – «Immagino che questo comporti non solo il “dica 33”, “tossisca”, “un’aspirina e passa tutto”».
R – «Quotidianamente sono a contatto non solo con le loro patologie ma anche con i loro stati d’animo. Non è facile trovarsi all’improvviso in un paese con clima, alimentazione, impostazioni di vita completamente diverse. Sono dei ragazzi, alcuni di loro da poco maggiorenni, che lavoravano in Libia, fuggiti dalla guerra, con la morte negli occhi. Alcuni di loro mi hanno solo accennato, perché ancora non riescono a raccontare, cose viste e subite. Passano le loro giornate andando a scuola. C’è chi va a scuola di italiano, chi va a scuola serale, molti hanno brillantemente superato l’esame di terza media italiana ed aspettano una risposta positiva dalla Commissione di Caserta che esamina la possibilità di un asilo politico. Tutti aspettando un lavoro, che, ahimè!!, per tutti è sempre più difficile da trovare».
D – «Permettimi una curiosità. Per una visita medica, sei tu ad andare da loro o viceversa ?»
R – «Dipende dalla gravità del caso, ma comunque vengono spesso nel mio ambulatorio. Vero è che i pazienti italiani, seppure dopo alcune difficoltà, hanno iniziato ad accettarli. Del resto sono molto educati ed hanno un grande rispetto nei confronti degli anziani».
D – «Altra curiosità di carattere medico: quali sono le maggiori e più frequenti patologie che incontri? Faccio la domanda non per una curiosità, come dire, morbosa, ma proprio per dare un taglio all’ignoranza delle voci che circolano e che si dicono timorose che i migranti “portino” malattie infettive!»
R – «Dici bene… ignoranza e non aggiungo altro! I malanni più frequenti di cui si lamentano, sono dolori diffusi alle articolazioni, alle ossa ed ai muscoli dovuti al clima umido a cui spesso non sono abituati. Spesso presentano coliti e gastriti, mal di testa, insonnia, ansia e depressione. Malattie legate allo stato di preoccupazione permanente in cui vivono».
D – «Ed immagino che è qui che la dr.ssa Angeletti si toglie il camice bianco ed indossa i panni della dr.ssa Margherita, quando non addirittura, magari con le donne, si spoglia anche di quel “dr.ssa” per offrire solo l’amicizia di Margherita. Giusto?»
R – «Non è così facile, ma dico che si, a volte a loro basta un sorriso. La terapia migliore è ascoltare senza chiedere, sono dei ragazzi e ragazze lontani dai loro affetti e dal loro ambiente. Mi hanno insegnato e mi insegnano tante cose. Mi allargano la mente; con loro sto conoscendo un po’ l’Africa e le sue diverse etnie.
Viviamo tutti un periodo non facile, la disoccupazione sta toccando livelli record. E se per noi è difficile, dobbiamo pensare che per questi ragazzi lo è ancor maggiormente. Il perché dovrebbe essere sotto gli occhi di tutti …dico dovrebbe! Spero che tutti non lo affermino solamente con un cenno del capo, ma lo comprendano con il cuore. Essere qui soli, catapultati in una realtà diversa ed in un ambiente spesso ostile. Siamo portati a giudicare male e a temere ciò che non conosciamo, siamo spesso troppo ancorati alle nostre tradizioni, alle nostre abitudini. E’ un peccato perché in questa maniera ci precludiamo aperture a nuovi orizzonti e a nuove conoscenze. Mi parlavi dei miei rapporti con le donne! Ehh si!! Un traguardo raggiunto grazie alla mia professione. Un gran bel rapporto, quello che ho instaurato con le donne migranti».
D – «Raccontaci per cortesia, perché sono anche queste curiosità che aiutano a conoscere e a far crescere anche noi al di fuori di queste realtà, le differenze tra un’etnia e l’altra, sempre che ne esistano».
R – «Solo semplici esempi. Le pakistane e le bengalesi avvolte nei loro manti colorati, di solito, hanno più difficoltà nell’apprendere la lingua italiana. Sembrano meno integrate rispetto alle donne africane. Molte di loro non riescono ad avere figli e ciò costituisce un grave problema, anche sottoponendosi a cure ormonali e a fecondazione assistita. Mi piace paragonare ciò alla scarsa fertilità di tutti gli animali in cattività. In un paese così diverso dal loro, senza affetti familiari, senza amiche, passano le loro giornate spesso sole in casa, nell’attesa del ritorno dal lavoro del marito. Le donne Sudamericane sono simili a noi in tutto, sanno però essere più allegre e spensierate».
D – «E da qui a divenire amica, almeno per te, per il tuo modo di pensare e di avvicinare queste famiglie, il passo immagino sia stato breve. Oppure mi sbaglio, perché hai dovuto guadagnarti la loro fiducia?»
R – «Di alcuni migranti, tunisini e marocchini che ho conosciuto negli anni ’90, si, sono diventata amica pian piano, ma neanche dopo tanto tempo, infatti due anni fa ho avuto anche l’onore di essere ospite di una famiglia di Casablanca in Marocco. Ho vissuto qui con loro per una settimana durante il periodo del Ramadan cercando di seguire il loro ritmo di vita.
Che dirti di più se non che ho imparato tanto, mi hanno dato tanto. E voglio proprio concludere questa mia intervista con una frase che ho appreso in questa circostanza in questa casa Marocchina e che dice tutto: ‘Con La prima tazza di te che bevi in questa casa sei il benvenuto, con la seconda tazza sei un amico, con la terza tazza sei considerato uno di famiglia’».
Io vorrei ancora continuare, ma comprendo che altri impegni incombono e devo terminare anch’io. Lo faccio però, scusandomi perché avevo cominciato con il formulare una promessa che poi ho finito con il non mantenere. E solo alla fine me ne sono reso conto. Avevo promesso infatti che non avrei parlato di politica, ed invece… Non considerando che se non è politica questa, la politica allora non esiste!
A questo punto spero solo di aver suscitato almeno un minimo di interesse e qualora non fossi neppure riuscito in questo intento, la colpa è da imputare tutta al sottoscritto che, malgrado la buona volontà, non è riuscito, purtroppo a smuovere le coscienze di cuori evidentemente granitici.
Quanto fosse speciale l'avevo intuito. Ora ne sono certa. E anche orgogliosa. E anche felice che un pezzo di me sia tutti i giorni sotto i suoi magici occhi.
Viva Margherita sempre.
Grazie
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