Senigallia: Paradisi: “Io pago di tasca mia, il Comune usa soldi dei cittadini”
Il consigliere torna sul contenzioso con l'amministrazione comunale
Faccio una premessa che ritengo utile per comprendere con quale animo i nostri amministratori intrattengono rapporti istituzionali. Non si è mai vista un’Amministrazione comunale attaccare, come nel caso del sottoscritto, un consigliere di opposizione.
La circostanza è sintomatica: evidentemente il Coordinamento Civico dà particolarmente fastidio al potere locale. Quando poi l’attacco è portato strumentalmente attraverso la pubblicazione, a modo di comunicato trionfale, di una sentenza per divieto di circolazione di 70 euro, il tutto diventa grottesco.
La Cassazione, come ha fatto sapere al mondo il Comune di Senigallia, ha dato torto al consigliere Paradisi e, dopo due sentenze di merito che gli davano ragione, lo ha condannato a pagare la multa (70 euro!) e 1.100 euro di spese legali.
Sia chiaro: pagherò immediatamente ciò che devo pagare. E lo farò aprendo il mio portafogli.
Quando decido di intraprendere una strada giudiziale ritenuta giusta (e, oggi come ieri, continuo a ritenere che era profondamente giusta), me ne assumo la responsabilità.
A differenza di questi signori che si fanno forte di un particolare di non poco conto: quando loro perdono pagano con il portafogli dei cittadini e personalmente non rispondono mai.
Voglio però chiarire tre punti.
Il primo:
non sono stato io a creare la grancassa mediatica per una piccola multa per divieto di circolazione (quando si prende una multa ritenuta ingiusta, non si va dai vigili a chiedere di archiviarla – come pure è stato fatto a Senigallia da chi ne aveva il potere – ma o si paga o si contesta in termini di legge).
La grancassa l’ha creata l’Amministrazione Angeloni (di cui Mangialardi era ed è il delfino) cercando di utilizzare nel 2005 quel procedimento per farmi fuori dal consiglio comunale in quanto “incompatibile”.
Una vergogna che non passò e lo scontro in aula perso dalla Angeloni, come ovvio, rimbalzò sui giornali destando curiosità su quel poco significante ricorso.
Il secondo:
l’Amministrazione ha scritto che io avrei spinto a mano lo scooter per “tutta” l’area pedonale. Una mistificazione in stile bulgaro, raccontata ad arte per far perdere di credibilità la versione veritiera del sottoscritto. Come è stato dimostrato, avevo spinto lo scooter per meno di dieci metri: dall’angolo di piazza Simoncelli (dove non c’è area pedonale) all’angolo tra via Armellini e piazza del Duca, sotto il civico 109, dove avevo l’ufficio. I fatti non erano in discussione nel processo. Ogni diversa versione è falsa.
Il terzo punto:
la Cassazione ritiene (contrariamente a due giudici di merito, di cui uno del Tribunale) che spingere uno scooter a mano per pochi metri sia equiparabile a circolare in area pedonale e quindi a violare le finalità della norma (inquinamento acustico, atmosferico e pericolo per i pedoni).
Se è vero che le sentenze si rispettano (e si eseguono), è anche vero che ogni cittadino potrà valutare se era più di buon senso la pronuncia dei due giudici di merito (che non hanno fatto pronunce “fuori dalla legalità” ma hanno diversamente ragionato giuridicamente) o se è più di buon senso la sentenza della Cassazione.
Io continuo a ritenere che spingere un ciclomotore a mano non crea inquinamento e non mette in pericolo i pedoni.
Nel mio ricorso avevo chiesto, in base a questo ragionamento di buon senso, che la norma fosse applicata non in senso letterale ma salvaguardando il fine che la stessa si pone (procedimento interpretativo previsto dalle pre-leggi contenute nel codice civile).
Ognuno si faccia la propria idea.
Resta però un punto fondamentale: perché Mangialardi, Ceresoni e compagni quando perdono le cause azionate temerariamente non mettono mai mano al loro portafogli?
Roberto Paradisi
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