"Prima e dopo il 1861", sintesi delle riflessioni a Palazzo Mastai di Senigallia
Gli interventi dell'8 luglio: Adriano Rosellini su Silvio Pellico e Fabrizio Chiappetti su Antonio Rosmini
Continua la proposizione di quanto è stato detto, annotato e rievocato di recente a Palazzo Mastai in margine al Seminario di conversazioni e letture "Prima e dopo il 1861". L’auspicio è di riuscire a fornire ai lettori un quadro stringato ma puntuale dell’intero evento.
Gli interventi in questione, penetranti, intensi e suggestivi, sono quelli di Adriano Rosellini e di Fabrizio Chiappetti; il primo alla 1a sezione, "La preparazione delle coscienze", ha proposto una magistrale rilettura de "Le mie prigioni di Silvio Pellico", invece Fabrizio Chiappetti alla 2a sezione, "Statualità e filosofia, qualche anticipo", ha efficacemente trascinato l’uditorio all’opportuna riscoperta del filosofo e uomo di chiesa Antonio Rosmini.
Sintesi minime delle conversazioni tenute al Seminario "Prima e dopo il 1861"
Serata dello scorso 8 luglio, alla 1a sezione "La preparazione delle coscienze"
Conversazione di Adriano Rosellini su: Le mie prigioni di Silvio Pellico
"Libri che restano: Le mie prigioni" (1832)
Nel quadro di "Prima e dopo il 1861" e, in particolare, del primo segmento introduttivo "La preparazione delle coscienze", Adriano Rosellini ha accettato la sfida di parlare, nel tempo assegnato di 30 minuti (letture incluse), del gran libro di Silvio Pellico. Osservando scrupo-losamente i limiti temporali il relatore è riuscito nell’impresa di dare ad un pubblico non numeroso ma assai qualificato ed attento una notizia non superficiale dell’Autore e del suo unico grande libro, inquadrandoli nel clima storico del loro tempo. Contiamo di dare nel prossimo numero della rivista una sintesi articolata dell’intervento. Qui basterà dire come sia stata messa in rilievo l’enorme importanza del libro, testimoniata dal suo incredibile successo, per la ridefinizione degli obiettivi e dei limiti dell’azione patriottica risorgimentale dopo i catastrofici esiti – in Italia – dei moti del ’21 e del ’31. La testimonianza di Pellico in un diario antiretorico "intriso di umanità" e illuminato dalla fede segnò l’inizio di quel grande ripensamento che – non senza ulteriori scacchi – condusse alla fine al risultato unitario.
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Serata dello scorso 8 luglio, alla 2a sezione "Statualità e filosofia, qualche anticipo"
Conversazione di Fabrizio Chiappetti su: Antonio Rosmini
Il 150° anniversario dell’Unità d’Italia offre numerosi spunti di riflessione sulla nostra storia e suggerisce la riscoperta di personaggi di grande spessore, ingiustamente consegnati all’oblio perché fuori dalle tendenze vincenti che si impongono anche nel mondo della cultura. È il caso di Antonio Rosmini (1797-1855), che fu sacerdote, filosofo e protagonista, suo malgrado, della stagione politica del ’48. Nato a Rovereto da una nobile famiglia, Rosmini mostrò presto l’inclinazione a seguire gli ideali della vita reli-giosa. Terminati gli studi a Padova, venne ordinato sacerdote nel 1821. Negli anni successivi la sua atti-vità di apostolato lo portò spesso a viaggiare tra la Lombardia e il Piemonte. Nel 1828 a Stresa, in provincia di Novara, fondò l’Istituto di Carità – che sarebbe divenuto il centro di irradiazione dell’ordine dei "rosminiani" – nel quale l’aiuto in favore dei poveri si coniugava con l’impegno nell’educazione. Nel frattempo il giovane Rosmini aveva stretto amicizia con numerosi esponenti del cattolicesimo liberale e risorgimentale, tra cui Alessandro Manzoni. Il 1848 fu un anno cruciale: dopo la battaglia di Custoza, Rosmini venne inviato a Roma come plenipotenziario del Regno di Sardegna per discutere del futuro as-setto della penisola. Fra l’agosto e il settembre Rosmini, che aveva da poco dato alle stampe il libro dal titolo "La Costituzione secondo la giustizia sociale", riuscì a trovare l’accordo fra tutti i rappresentanti degli Stati italiani sul suo progetto di unione federale. Ma gli eventi successivi, in primis l’uccisione del mi-nistro pontificio Pellegrino Rossi, fecero precipitare la situazione. A ciò si aggiunse la storica rivalità con i gesuiti, gelosi dei traguardi raggiunti dall’Istituto di Rosmini nel campo educativo. La disputa si era fatta particolarmente aspra dopo la pubblicazione dell’opera più coraggiosa del filosofo, "Le cinque piaghe della Santa Chiesa" (1848), e non si fermò neanche dopo la sua morte (1855), al punto che tutta la produzione rosminiana venne ufficialmente condannata dal Sant’Uffizio nel 1888. Le grandi trasforma-zioni all’interno della Chiesa, specialmente dopo il Concilio Vaticano II, hanno tuttavia suggerito un gene-rale ripensamento delle posizioni del filosofo roveretano, giungendo a riconoscere nel suo pensiero una delle più feconde interpretazioni del rapporto fra ragione e fede nei tempi moderni (Fides et Ratio, 1998). Ed ora tocca ai laici riconoscere lo straordinario valore delle idee filosofiche e politiche di Anto-nio Rosmini.
da Circolo di Iniziativa Culturale e Rivista "Sestante"
Palazzo Mastai – Senigallia
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